martedì 22 ottobre 2024

La campagna di Russia del 1812 è da tempo scolpita nella memoria collettiva europea come il classico esempio di arroganza strategica che sfocia nella tragedia. Per molti, essa rappresenta l'inizio della fine per Napoleone Bonaparte, considerato da molti il più grande genio militare della storia moderna. Ma se era davvero un genio, ci si chiede, come ha potuto commettere un errore tanto prevedibile come l'invasione della Russia senza prepararsi all'inverno?

La risposta più comune — "fu sconfitto dal freddo" — è una semplificazione fuorviante, quasi mitologica. La verità, come sempre, è più complessa. Napoleone non fu vittima dell’inverno russo in quanto tale, bensì della sua incapacità di concepire la possibilità di un fallimento. E fu questa presunzione, più che le temperature gelide, a distruggere la Grande Armée.

Per cominciare, l’invasione della Russia non avvenne in inverno, ma all’inizio dell’estate. Il 24 giugno 1812, Napoleone attraversò il fiume Niemen con un esercito imponente, circa 600.000 uomini provenienti da tutta Europa. L’idea era quella di dare una lezione rapida allo zar Alessandro I, costringendolo alla pace entro poche settimane. Il piano presupponeva una campagna veloce, una battaglia decisiva, una vittoria schiacciante — in linea con la brillante tradizione napolenica di Austerlitz e Jena.

Ma la Russia, con la sua vastità e la sua strategia, aveva altri piani. I russi si ritirarono, costantemente, bruciando i villaggi, i granai e le scorte dietro di sé. Una tattica nota come “terra bruciata”, che aveva lo scopo preciso di privare l’invasore di ogni risorsa. Napoleone, abituato a guerre di movimento dove l’esercito viveva dei territori conquistati, si ritrovò improvvisamente senza approvvigionamenti. Più i russi si ritiravano, più la Grande Armée era costretta a inoltrarsi nel cuore di un territorio ostile, lungo linee di rifornimento insostenibili.

Quando infine Bonaparte raggiunse Mosca a settembre, trovò la città abbandonata e incendiata. I russi avevano deliberatamente distrutto la loro stessa capitale pur di impedirgli di trarne vantaggio. A quel punto, l’intera impresa cominciò a crollare sotto il peso della sua stessa illusione: la battaglia decisiva non c’era stata, la pace era lontana, e l’inverno era ormai alle porte. Il ritorno verso ovest, avviato tardivamente a ottobre, fu un’odissea di fame, malattie, diserzioni e disperazione. Le temperature scesero, certo, ma il vero gelo era già calato nel cuore dell'esercito: quello della sconfitta annunciata.

A rendere tutto più tragico fu l’inadeguatezza dell’equipaggiamento. Le truppe francesi non erano preparate per l’inverno russo, ma non perché Napoleone ne ignorasse la rigidità. Piuttosto, non aveva previsto che l’inverno potesse diventare una variabile rilevante. Aveva pianificato per un trionfo rapido, non per una lunga permanenza. Il genio strategico che aveva sconfitto coalizioni intere non concepiva un mondo in cui i suoi piani potessero fallire.

Questo episodio non mette in dubbio la straordinarietà del talento militare di Napoleone, ma ne sottolinea il limite umano: l’hybris, la tracotanza. Come Alessandro Magno prima di lui, e come Adolf Hitler un secolo dopo, Bonaparte commise l’errore fatale di sottovalutare la vastità, la resilienza e la volontà di autodistruzione del popolo russo in difesa della propria terra.

Non è un caso che proprio la campagna del 1812 sia spesso accostata a quella hitleriana del 1941. Entrambi avanzarono convinti di un rapido successo. Entrambi trovarono un nemico che si ritirava, bruciava e aspettava. Entrambi persero, più che per il freddo, per la propria superbia.

Napoleone, certo, vinse più battaglie di quante ne abbia mai perse qualsiasi altro generale moderno. Ma la Russia non gli offrì una battaglia. E fu proprio in quell’assenza — in quel vuoto strategico trasformato in trappola logistica — che il mito del condottiero infallibile iniziò a incrinarsi.

Forse, dopotutto, il vero nemico non fu l’inverno, né i russi. Fu l’idea stessa dell’invincibilità. E quando un genio comincia a credere alla propria leggenda, il rischio non è solo il fallimento: è l’autodistruzione.


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