Nell'agosto del 1791, nei campi di canna da zucchero della colonia francese di Saint-Domingue, il mondo assistette a un evento senza precedenti: il più grande sollevamento di schiavi della storia moderna. Armati di machete, i ribelli misero a ferro e fuoco le piantagioni, abbatterono i padroni, incendiarono le dimore coloniali. Era la vendetta di un popolo condannato a generazioni di catene, costretto a morire per arricchire un impero che non lo vedeva nemmeno come umano. Eppure, all’alba di quella rivolta, la Francia rivoluzionaria non comprese il segnale. Il fuoco di Haiti non era solo ribellione: era il principio di una nazione nuova.
Tra i leader di questa insurrezione emerse Toussaint Louverture, ex schiavo, stratega formidabile e statista visionario. Condusse gli eserciti neri alla vittoria contro le truppe francesi, spagnole e britanniche, e sognò una colonia autonoma sotto l’influenza francese, con schiavitù abolita e prosperità per i neri. Ma Napoleone Bonaparte aveva altri piani. Infastidito dalla crescente autonomia della colonia, inviò decine di migliaia di soldati per ristabilire il controllo. Toussaint fu invitato a un colloquio e tradito: deportato in Francia, morì in una cella glaciale nel 1803.
Il comando passò a Jean-Jacques Dessalines, che non cercava compromessi. Il 1° gennaio 1804, Haiti dichiarò l’indipendenza, diventando la prima repubblica nera libera del mondo, la prima nazione nata da una rivolta di schiavi. Ma l’emancipazione non fu seguita dalla pace. Il nuovo Stato, costruito sulle rovine della piantagione coloniale, fu subito isolato e boicottato.
Nel 1825, la Francia pretese un risarcimento per la perdita della sua “proprietà”: 150 milioni di franchi d’oro per compensare gli schiavisti. Era una pistola puntata alla tempia di Haiti: o pagate o vi invadiamo. Il giovane Stato, strozzato dal ricatto, fu costretto a cedere. Quel debito – che nessun altro Stato ha mai dovuto pagare per essere nato libero – gravò sull’economia haitiana per oltre un secolo. I fondi che avrebbero potuto finanziare infrastrutture, scuole, ospedali, vennero assorbiti dal rimborso agli ex padroni. L’indipendenza aveva un prezzo, e Haiti lo pagò in miseria.
Nel 1915, gli Stati Uniti invasero Haiti, ufficialmente per ristabilire l’ordine dopo l’ennesimo colpo di stato. In realtà, fu un’occupazione militare e finanziaria: le banche furono trasferite a New York, le dogane messe sotto controllo statunitense, la Costituzione riscritta per permettere agli stranieri di possedere terre. La presenza americana durò diciannove anni, lasciando un Paese spogliato e una società profondamente divisa.
A riempire il vuoto lasciato dagli occupanti furono i Duvalier, padre e figlio, noti come Papa Doc e Baby Doc. Il primo si proclamò messia nero, creò una polizia segreta (i famigerati Tonton Macoute) e trasformò Haiti in uno Stato clientelare e violento, dove la repressione era quotidiana. Il figlio ereditò il potere e saccheggiò il Paese con uguale ferocia, sostenuto dalle potenze occidentali in nome della “stabilità anticomunista”. Quando fuggì in esilio nel 1986, Haiti era già a pezzi.
Seguì un caotico susseguirsi di colpi di stato, elezioni contestate, missioni internazionali, ma nessuna vera rinascita. Nel 2010, un devastante terremoto uccise oltre 200.000 persone e distrusse gran parte di Port-au-Prince. Milioni di dollari affluirono nella capitale attraverso ONG e aiuti umanitari. Eppure, a distanza di anni, la ricostruzione resta incompleta, le infrastrutture precarie, e gran parte degli haitiani vive ancora in condizioni disperate.
Il colpo di grazia è arrivato negli ultimi anni. Nel luglio 2021, il presidente Jovenel Moïse è stato assassinato nel suo letto. L’indagine, offuscata da omertà e interferenze internazionali, non ha prodotto giustizia. Nel marzo 2024, le gang armate hanno assaltato le prigioni di Port-au-Prince, liberando oltre 4.000 detenuti, molti dei quali coinvolti in attività criminali. La capitale è caduta in uno stato di anarchia urbana: omicidi, stupri, sequestri e scontri armati sono all’ordine del giorno. Lo Stato è praticamente collassato.
Per tentare una risposta, la comunità internazionale ha approvato l’invio di una forza multinazionale guidata dal Kenya, ma si tratta di un intervento incerto e tardivo. Le gang controllano vasti territori, la popolazione è affamata – oltre il 50% non ha accesso regolare al cibo – e il reddito medio è di circa un dollaro al giorno.
Eppure, nelle sale conferenza di alcuni alberghi di lusso, un governo ad interim cerca di mostrarsi operativo. Parla ai media, firma documenti, promette riforme. Ma il popolo non mangia promesse. Haiti è allo stremo. È un Paese dove la libertà conquistata nel sangue è stata tradita da chiunque: colonizzatori, imperi, dittatori, criminali e, non da ultimo, da un mondo che ha scelto di dimenticare.
Haiti ha pagato un prezzo altissimo per la libertà. Lo sta ancora pagando.
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