Quando si parla di strategia e grandezza militare nel lungo XIX secolo, i nomi di Napoleone Bonaparte e del Duca di Wellington (Arthur Wellesley) emergono con forza quasi mitologica. Due menti geniali del campo di battaglia, due stili opposti: l’uno fulmineo, ardito, quasi impulsivo; l’altro metodico, calcolatore, implacabile. Ma se restringiamo il campo al difficile terreno della guerra d’assedio, la bilancia pende chiaramente a favore del comandante britannico.
Napoleone fu un maestro del movimento, un artista della manovra. Il suo genio brillava nelle battaglie campali, dove poteva orchestrare marce forzate, aggiramenti improvvisi e colpi di mano che lasciavano gli avversari disorientati. Ma quando si trattava di guerre d’assedio — lente, logoranti, legate più all’ingegneria e alla tenacia che all’intuizione — la sua impazienza lo tradiva.
Lo dimostra uno dei primi fallimenti della sua carriera: l’assedio di Acri nel 1799, durante la campagna d’Egitto e Siria. Napoleone, ancora giovane generale della Repubblica francese, si lanciò all’assalto della città ottomana con foga, ma senza adeguata preparazione logistica né artiglieria d’assedio sufficiente. Il piccolo contingente britannico guidato da Sir Sidney Smith aiutò i difensori ottomani a respingere i francesi, e Napoleone, frustrato, fu costretto al ritiro dopo settimane di assedi infruttuosi e pesanti perdite. Egli stesso avrebbe poi affermato:
“Se non fosse stato per quel maledetto forte, avrei conquistato tutto il Medio Oriente!”
Durante il resto della sua carriera, Napoleone evitò per quanto possibile lunghi assedi, preferendo invece manovrare i nemici in campo aperto. Anche a Danzica, Mantova o Saragozza, il suo coinvolgimento fu spesso marginale, delegato a generali di fiducia, proprio perché la guerra d’assedio non si conciliava con la sua visione di guerra rapida e decisiva.
Il Duca di Wellington, al contrario, si distinse proprio nella Peninsular War (1808–1814) per la sua abilità nel condurre assedi metodici, pur se spesso sanguinosi. In Spagna e Portogallo, la guerra contro le truppe napoleoniche richiese una strategia di logoramento, e Wellington rispose con una combinazione di disciplina ferrea, meticolosa pianificazione ingegneristica e un uso accorto delle risorse.
Tra i suoi assedi più noti figura Badajoz (1812), un’operazione lunga e costosa, culminata in un assalto finale che costò la vita a migliaia di soldati britannici. L’immagine di Wellington che piange tra i corpi dei suoi uomini ha attraversato la storia come simbolo del dolore personale del comandante davanti al prezzo della vittoria. Nonostante le perdite, la presa di Badajoz fu decisiva per aprire la strada verso Madrid e minare la posizione francese in Iberia.
Anche negli assedi di Ciudad Rodrigo, San Sebastián e Burgos, Wellington mostrò padronanza di tempi e strumenti bellici, adattando la tradizione dell’assedio francese del XVIII secolo a un teatro bellico nuovo, fatto di colline, guerriglia e logistica estrema.
In definitiva, i due generali rappresentano approcci opposti alla guerra:
Napoleone puntava sull’offensiva rapida, sull’effetto shock, sulla sorpresa strategica. Gli assedi erano una parentesi indesiderata, un freno alla sua concezione “totale” della battaglia.
Wellington, invece, eccelleva nella tenacia, nell’organizzazione, nella capacità di piegare il nemico lentamente, anche a costo di sacrifici elevati.
Non a caso, mentre Napoleone vedeva la guerra come un’arte del lampo, Wellington la trattava come un mestiere da ingegnere militare: più faticoso, ma altrettanto decisivo.
A chi va dunque il titolo di miglior condottiero negli assedi?
Se
si considera la fredda efficacia, il rispetto
delle tempistiche, la capacità di coordinare truppe
e ingegneri, la pazienza strategica e il
risultato ottenuto, il giudizio degli storici tende
a premiare Wellington.
Napoleone, invece, resta
l’indiscusso maestro del campo aperto, dell’audacia, del colpo
d’occhio — ma non degli assedi, che considerava “un lavoro da
secondi ufficiali”.
Entrambi furono giganti del loro tempo. Ma tra i bastioni di pietra e i crateri d’artiglieria, fu Wellington a reggere meglio il peso della storia.
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