sabato 23 novembre 2024

MICHEL NEY: IL LEONE ROSSO CHE SFIDÒ L’IMPERO

L’eroe di mille battaglie, il traditore pentito, il maresciallo che non si piegò mai, nemmeno di fronte ai plotoni d’esecuzione

Quando i fucili crepitarono nel gelido mattino parigino del 7 dicembre, Michel Ney non vacillò. Le cronache riportano che rifiutò la benda, si batté il petto e gridò ai suoi carnefici: «Soldati, quando darò l’ordine: fuoco!». Fu l’ultimo gesto di sfida di un uomo che aveva attraversato le tempeste rivoluzionarie e imperiali come un eroe omerico, sospeso tra gloria e tragedia.

Ney era figlio della terra, nato il 10 gennaio 1769 a Sarrelouis, in Lorena, da una famiglia umile, figlio di un bottaio. Non c’era nulla in lui, all’inizio, che prefigurasse la leggenda. Entrò nell’esercito del Re come usciere e poi dragone, scalando ogni gradino col sudore e la spada. Quando la Rivoluzione travolse la monarchia, Ney si trovò perfettamente a suo agio nel caos del nuovo ordine. Promosso ufficiale per merito sul campo, divenne celebre per la sua audacia senza limiti. Non combatteva: caricava. Non si difendeva: sfondava.

Durante le guerre rivoluzionarie e le prime campagne napoleoniche, Ney si distinse come uno dei più brillanti e temerari comandanti della cavalleria. Era impavido fino all’incoscienza, un uomo che guidava sempre in prima linea. A Elchingen, nel 1805, fu protagonista di una vittoria clamorosa che valse la resa di Ulma e gli guadagnò il titolo di "Duca di Elchingen" e, soprattutto, quello — conferito da Napoleone stesso — di le brave des braves, il più coraggioso tra i coraggiosi.

Le sue gesta in battaglia, però, erano controbilanciate da una scarsa predisposizione alla strategia complessa e dalla sua impulsività. Ney era un uomo d’azione, non un architetto della guerra. Quando Napoleone lo nominò Maresciallo dell’Impero nel 1804, lo fece perché sapeva che Ney era insostituibile quando serviva un pugno di ferro in campo aperto. A Friedland, a Wagram, a Smolensk, Ney fu presente, irruente, sempre in prima linea. Fu a Borodino, però, e nella tragica ritirata da Mosca del 1812, che Ney si guadagnò la sua immortalità.

Designato a comandare la retroguardia, Ney divenne il simbolo stesso della resistenza francese. Marciò per settimane nella neve, respingendo i russi, caricando spesso a piedi tra le rovine ghiacciate, con i vestiti a brandelli e un fucile in mano. Era l’ultimo a lasciare il suolo russo, attraversando il fiume Dniepr su una zattera improvvisata: il Leone Rosso — come lo chiamavano i soldati per la sua capigliatura infuocata — era sopravvissuto all’inferno.

Ma la caduta dell’Impero lo condusse su un sentiero tragico. Nel 1814 Ney fu tra i primi marescialli a chiedere a Napoleone di abdicare. Giurò fedeltà a Luigi XVIII, sperando di salvare la Francia da ulteriore spargimento di sangue. Quando, l’anno dopo, Bonaparte tornò dall’Elba, Ney promise al re di “portarlo in una gabbia di ferro”. Ma al solo vederlo, il vecchio leone cedette: si unì all’Imperatore, guidò le truppe a Waterloo e fu decisivo negli ultimi, furibondi attacchi contro le linee inglesi.

La sconfitta segnò il suo destino. Dopo la seconda Restaurazione, fu arrestato, processato per alto tradimento e condannato a morte. Malgrado gli appelli e le testimonianze dei suoi soldati, Luigi XVIII non volle clemenza. Ney fu fucilato al Jardin du Luxembourg, e anche nel momento finale, diede prova di una dignità che commosse perfino i suoi giustizieri.

La figura di Michel Ney rimane una delle più emblematiche dell’epopea napoleonica. Fu un guerriero puro, incapace di compromessi, fedele più agli uomini che ai regimi. Tradì un Re, poi un Imperatore, poi se stesso. Ma mai tradì la propria natura. Era un soldato e tale volle morire.

Il suo nome è inciso sull’Arco di Trionfo, ma vive soprattutto nei cuori dei veterani che lo videro caricare nella tempesta di fuoco, urlare contro la morte, sfidare la sorte. Michel Ney non fu mai un politico né un cortigiano: fu, fino all’ultimo respiro, il più coraggioso tra i coraggiosi.

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