martedì 19 novembre 2024

JOACHIM MURAT, IL CAVALIERE DELL’IMPERO: ASCESA E CADUTA DEL RE CHE VOLEVA VOLARE TROPPO IN ALTO

Dalle scuderie di Cahors al trono di Napoli, il destino leggendario del maresciallo più audace di Napoleone

Fra tutti i marescialli dell’Impero napoleonico, nessuno incarna con maggiore intensità lo spirito romantico, impetuoso e contraddittorio dell’epoca quanto Joachim Murat. Fu il più spettacolare, il più teatrale, forse il più coraggioso, certamente il più ambizioso. Cavaliere impavido, re per volere imperiale, infine traditore e martire: la sua vita fu una parabola straordinaria, che si elevò sulle ali della gloria per poi schiantarsi nella polvere dell'esilio e del piombo.

Nato nel 1767 a Labastide-Fortunière, nel cuore dell’Occitania, figlio di un modesto oste, Murat avrebbe dovuto farsi frate. Ma il destino, e la Rivoluzione, avevano altri piani. Sedotto dall’ideale rivoluzionario e attratto da tutto ciò che scintillava di gloria e pericolo, si arruolò nella cavalleria francese nel 1787. Il suo talento era innato: eccelleva nel comando come nell’audacia, e la sua figura slanciata, i lunghi capelli neri, l’uniforme sgargiante lo rendevano una presenza scenica irresistibile. Era il ritratto vivente del nuovo eroe francese: guerriero, patriota, conquistatore.

Fu al fianco di Bonaparte sin dagli albori della sua folgorante carriera: a Tolone, a Lodi, in Egitto, dove la sua cavalleria sbaragliò la resistenza mamelucca al Cairo. Il generale còrso lo notò, lo valorizzò, se ne innamorò quasi. E non solo militarmente: Murat sposò nel 1800 Carolina Bonaparte, la più ambiziosa delle sorelle dell’Imperatore. Il legame con la famiglia imperiale consolidò la sua posizione e ne accelerò l’ascesa.

Nel 1804 fu insignito del bastone di Maresciallo dell’Impero, e due anni dopo ricevette il trono di Napoli, succedendo a Giuseppe Bonaparte. Da allora, Murat non fu più soltanto un comandante di cavalleria, ma un sovrano. E non un sovrano qualsiasi: volle essere un monarca moderno, amato dal popolo, riformatore, illuminato. Fece costruire strade, riorganizzò l’esercito napoletano, promosse l’istruzione, abbellì la capitale. Ma l’anima del guerriero non conobbe mai pace: Murat restava un soldato in cerca di battaglie, più che un politico in cerca di stabilità.

Nel frattempo, la guerra contro le monarchie europee si intensificava. Murat fu protagonista assoluto delle campagne del 1805 e 1807, distinguendosi a Jena, Eylau, Friedland. La sua cavalleria, lanciata a briglia sciolta sul campo di battaglia, era la quintessenza dello stile murattiano: tempestosa, teatrale, travolgente. A Eylau, si racconta che la sua carica disperata salvò l’esercito francese dall’annientamento.

Eppure, dietro lo sfarzo dell’uniforme ricamata d’oro, Murat coltivava un’ambizione pericolosa: sognava di essere non il braccio di Napoleone, ma un sovrano indipendente, un re d’Italia, forse persino un successore dell’Imperatore. Quando l’Impero iniziò a vacillare, Murat rivelò il volto tragico del suo carattere: la sua lealtà cominciò a vacillare.

Nel 1814, temendo per il proprio trono e fiutando il crollo imminente di Napoleone, Murat negoziò in segreto con gli austriaci, passando al nemico. Fu un gesto che gli garantì qualche mese di sovranità, ma gli costò l’onore. Quando Napoleone fuggì dall’Elba, Murat tentò disperatamente di riconciliarsi con lui e lanciò una nuova campagna per l’unificazione italiana, nel sogno di trasformarsi da vassallo a protagonista. Ma l’Italia non rispose al suo appello, e l’esercito napoletano fu annientato a Tolentino nel maggio 1815.

Fuggitivo, braccato, abbandonato persino dalla moglie Carolina, Murat tentò l’ultimo, folle colpo di scena: sbarcare in Calabria, sollevare il Sud e riconquistare il trono. Il piano si rivelò suicida. Arrestato a Pizzo, in Calabria, fu processato sommariamente e fucilato il 13 ottobre 1815. Chiese di morire in piedi, senza benda sugli occhi, e comandò lui stesso il plotone d’esecuzione: “Soldati, mirate al cuore, risparmiate il volto!”, furono le sue ultime parole.

Così morì Joachim Murat, re di Napoli, cavaliere dell’Impero, figlio della Rivoluzione e vittima della propria ambizione. Il suo nome campeggia sull’Arco di Trionfo, ma il suo mito sopravvive soprattutto nel Sud, dove il suo sogno di indipendenza nazionale, benché tardivo e contraddittorio, anticipò le future lotte del Risorgimento.

In Murat si specchia l’epoca napoleonica in tutta la sua vertigine: grandezza e caduta, gloria e tradimento, idealismo e vanità. Fu un uomo troppo audace per la prudenza, troppo romantico per la politica, troppo solo per sopravvivere. Eppure, nella sua morte spettacolare, riconquistò quella nobiltà che le sue scelte politiche gli avevano negato.

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