Da allievo modello a duca d'Istria, il destino di Jean-Baptiste Bessières fu forgiato tra le tempeste della Rivoluzione francese e le glorie dell’Impero. Il ritratto di un comandante fedele, valoroso, ma segnato da un’ambivalenza decisiva nei momenti critici.
Pochi uomini seppero incarnare, con la stessa fierezza e tragica coerenza, lo spirito militare dell’età napoleonica come Jean-Baptiste Bessières, duca d’Istria. Nato nel 1768 da una famiglia borghese – figlio di un barbiere agiato – fu la Rivoluzione a spalancargli le porte di una carriera altrimenti inaccessibile. Ma se la Repubblica gli offrì il trampolino, fu Napoleone Bonaparte a scolpire il suo destino, trasformandolo in uno dei pilastri dell’Armata imperiale.
Studente brillante al collegio reale di Cahors, Bessières fu travolto dall’entusiasmo rivoluzionario e si arruolò nella Guardia nazionale insieme a Gioacchino Murat, l’amico di sempre, che come lui sarebbe emerso dalle battaglie per diventare re. La sua adesione agli ideali rivoluzionari fu sincera, ma non disgiunta da un lucido calcolo: nella nuova era, i talenti militari avevano finalmente modo di emergere, indipendentemente dalla nascita.
La svolta arrivò nel 1795, con l’ingresso nell’Armata d’Italia. Fu lì che conobbe Bonaparte. Rapidamente conquistò la sua fiducia con un misto di audacia e disciplina, tanto da essere nominato comandante delle sue guardie del corpo. Ad Arcole e poi in Egitto, Bessières non brillò tanto per imprese spettacolari quanto per la sua instancabile devozione alla figura del generale corso. Al suo ritorno in Francia, la fedeltà fu premiata: durante il colpo di Stato del 18 brumaio (9 novembre 1799), sostenne decisivamente Napoleone, ottenendo il comando della nuova Guardia Consolare, divenuta poi Guardia Imperiale.
Le campagne del primo impero segnarono l’ascesa definitiva del futuro maresciallo. A Marengo, nel 1800, fu uno degli artefici del successo. Nel 1804 ricevette la dignità di Maresciallo dell’Impero, un’onorificenza che suggellava non solo la sua bravura militare ma anche un legame personale, intimo e privilegiato con l’Imperatore.
Austerlitz (1805) e Eylau (1807) furono i campi su cui la sua fama crebbe. Alla guida della Guardia, Bessières incarnava lo spirito più puro dell’élite militare napoleonica: rigore, disciplina, prontezza. Ma fu in Spagna, teatro aspro e incerto della resistenza popolare e della guerriglia, che emerse un lato meno noto del comandante. A Medina de Rio Seco (1808), inflisse una dura sconfitta alle forze anglo-spagnole di Joaquín Blake, dimostrando determinazione e spietatezza. Ma proprio in questa guerra logorante affiorarono i limiti di Bessières: la sua riluttanza ad assumersi la piena responsabilità strategica, un’indecisione operativa che rese evidente l’inadeguatezza a comandare eserciti in autonomia.
Sostituito temporaneamente, tornò in scena durante la campagna d’Austria del 1809. Ad Aspern-Essling, con i suoi cavalleggeri della riserva, salvò dall’accerchiamento i marescialli Lannes e Masséna. Ma ancora una volta si vide la dicotomia del personaggio: grande esecutore, fedele e brillante nell’azione, ma incapace di gestire con energia le complessità del comando supremo. Era, in fondo, l’uomo perfetto per una posizione subordinata – fedele esecutore, mai leader carismatico.
Rientrato in Spagna nel 1811, il suo compito si rivelò impossibile: truppe scarse, logistica in crisi, l’avanzata anglo-portoghese guidata da Wellington. Bessières fece quello che poté. Fu richiamato in patria, e con la campagna di Russia (1812) il suo ruolo fu ridotto al comando della cavalleria della Guardia. La ritirata segnò un punto di rottura in tutta la struttura dell’armata imperiale, ma Bessières sopravvisse, pronto a servire ancora.
Il 1º maggio 1813, durante la campagna di Germania, mentre ispezionava le posizioni nemiche nei pressi di Lützen, fu colpito da una granata. Morì sul colpo. La sua perdita, in un momento critico per l’Impero, fu un colpo durissimo anche per lo stesso Napoleone, che da Sant’Elena rievocò con amarezza quell’assenza: «Se avessi avuto Bessières a Waterloo, la mia Guardia mi avrebbe dato la vittoria».
Quella frase, più che un elogio postumo, è la testimonianza della fiducia assoluta che Napoleone riponeva in lui. Bessières non fu mai un genio tattico come Davout, né un trascinatore di eserciti come Masséna. Ma fu, con ogni evidenza, uno dei pochissimi che rimasero sempre e solo suoi. Senza ambizioni politiche, senza tradimenti, senza doppiezze. Morì soldato, come era vissuto. E nella sua figura si specchia tutta la parabola dell’epopea napoleonica: dall’entusiasmo rivoluzionario al crollo finale, passando per la gloria, la lealtà e, in fondo, la solitudine del comando.
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