Quando Napoleone Bonaparte varcò il fiume Niemen con la Grande Armée, al comando di oltre 600.000 uomini, pochi potevano immaginare che quella monumentale impresa militare si sarebbe trasformata in un disastro di proporzioni epiche. Il fallimento della campagna di Russia, troppo spesso riassunto frettolosamente con la frase “fu il freddo a distruggere l’esercito francese”, merita una lettura più complessa, che tenga conto non solo delle condizioni climatiche ma anche delle premesse strategiche, delle convinzioni ideologiche e dell’eccessiva fiducia nelle proprie capacità da parte dell’Imperatore.
Napoleone non “permise” la disfatta; al contrario, la subì come conseguenza diretta della sua stessa grandezza. Per comprendere questa affermazione apparentemente paradossale, bisogna risalire al contesto: un uomo che, sin dalla giovinezza, aveva collezionato una serie quasi ininterrotta di vittorie – da Arcole ad Austerlitz, da Marengo a Jena – si trovava al vertice del potere europeo. La Francia aveva sconfitto coalizioni su coalizioni, i più potenti imperi d’Europa erano stati piegati, umiliati o forzati a scendere a patti. Gli Asburgo avevano firmato il trattato di Schönbrunn, la Prussia si era inginocchiata dopo il disastro di Eylau e Friedland, e persino lo Zar Alessandro aveva aderito alla pace di Tilsit.
Era dunque logico, per Napoleone, ritenere che anche la Russia avrebbe ceduto secondo il medesimo schema: avanzata rapida, scontro decisivo, caduta della capitale simbolica (Mosca), firma della pace. Il problema, tuttavia, è che i russi avevano imparato la lezione. Non accettarono la battaglia nei termini imposti da Napoleone. Bruciarono le risorse, abbandonarono le città, si ritirarono nell’immensità delle loro terre, e lasciarono che fosse la geografia – oltre che la guerra – a logorare l’invasore. Kutuzov, comandante dell’esercito russo, comprese che non serviva vincere Napoleone sul campo: bastava non perdere, e lasciarlo logorare sé stesso.
In altre parole, fu lo stesso schema che, un secolo dopo, avrebbe affondato un altro impero europeo nella steppa: una guerra di logoramento, senza vittorie decisive, dove le linee di rifornimento si allungano, i soldati muoiono più di fame e di freddo che per mano nemica, e la distanza diventa un nemico più feroce delle armate zariste.
La battaglia di Borodino, sanguinosa ma inconcludente, aprì la strada a Mosca. Ma una volta giunto nella capitale – svuotata e data alle fiamme dagli stessi russi – Napoleone si trovò privo del premio atteso: né un trattato, né una resa, solo rovine. Rimase per settimane nella città in attesa di una risposta diplomatica che non arrivò mai. Quando infine ordinò la ritirata, era troppo tardi. Le provviste erano esaurite, i cavalli morivano, le truppe erano decimate dalle malattie e dal gelo. Dei 600.000 uomini che avevano varcato il Niemen, ne tornarono in Francia meno di 100.000.
Chi parla di "errore di calcolo", dunque, ha in parte ragione. Ma non si trattò di un semplice sbaglio logistico, bensì di una forma più insidiosa di autoinganno: Napoleone, nella sua grandezza, finì col credere alla narrazione della propria infallibilità. La propaganda imperiale – che lo aveva trasformato da generale a divinità laica – finì col influenzare anche lui. Quando si combattono e si vincono guerre per oltre un decennio contro le maggiori potenze continentali, è facile convincersi che la vittoria sia inevitabile.
A questa hybris – la tracotanza dell’uomo che sfida i limiti imposti dalla realtà – si aggiungeva un ulteriore fattore: la mancanza di una visione strategica globale. Se sul campo di battaglia Napoleone eccelleva con colpi di genio tattico, nei rapporti internazionali il suo approccio era spesso rigido, autoritario, incapace di conciliazione. Anziché integrare gli Stati vinti in un sistema duraturo, li schiacciava sotto un controllo oppressivo, fomentando risentimento e ribellione. L’Inghilterra, irriducibile nemico, restava fuori dalla sua portata; la Spagna, consumata da una guerra di guerriglia feroce; l’Europa centrale, dominata ma ostile.
La Russia fu solo il detonatore. Il tracollo seguente – la sesta e poi la settima coalizione, Lipsia, Waterloo – era già scritto nella struttura imperiale creata da Napoleone. Una struttura brillante ma fragile, in cui la fedeltà era garantita dalla paura o dalla forza, non dal consenso.
Oggi, gli storici riconoscono in Napoleone uno dei più grandi militari della storia. Ma al tempo stesso, iniziano a emergere con chiarezza i limiti di quella grandezza: la difficoltà nel distinguere il potere dalla saggezza, la vittoria dalla pace, la gloria dall’equilibrio. Il genio militare e il fallimento strategico non sono opposti, ma due facce dello stesso uomo.
Ed è forse proprio in questo che risiede la sua eredità più ambigua: nel ricordarci che anche i più grandi possono cadere, non per mano di un nemico, ma per eccesso di fiducia nei propri mezzi. Non fu il freddo a sconfiggere Napoleone, ma la convinzione che nulla potesse sconfiggerlo.
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