giovedì 28 novembre 2024

Le frecce dei cavalieri delle steppe: i Baschiri contro Napoleone

Nel vasto teatro della campagna di Russia del 1812, mentre la Grande Armée di Napoleone Bonaparte si addentrava tra le lande sterminate dello zar, un popolo di cavalieri della steppa tornò a farsi sentire nella storia: i Baschiri. Provenienti dalle regioni orientali dell’Impero russo, stanziati tra gli Urali e il Volga, questi fieri guerrieri a cavallo costituirono un’insolita e micidiale spina nel fianco dell’esercito napoleonico. Quando le aquile imperiali varcarono il Niemen, i Baschiri risposero all’appello della madrepatria con uno spiegamento imponente: 28 reggimenti di cavalleria leggera, ciascuno composto da circa 530 uomini. Una forza complessiva di quasi 15.000 cavalieri che si inserì in maniera originale e determinante nello sforzo bellico russo.

A differenza delle truppe regolari, i Baschiri non erano addestrati secondo i canoni della guerra europea. La loro era un’arte del combattimento nomade, affinata nel tempo tra caccia, scorrerie e guerre tribali. Armati di archi, frecce, sciabole curve e talvolta lance, combattevano in modo sfuggente, privilegiando la mobilità estrema, l’imboscata e il logoramento del nemico. Nelle retrovie e lungo le linee di rifornimento francesi, divennero un incubo per i convogli napoleonici: apparivano come ombre, colpivano in modo rapido e letale, poi scomparivano tra le nevi o nelle foreste.

Le cronache dell’epoca li descrivono come guerrieri fieri e sobri, abituati a resistere al freddo, al digiuno e alle marce forzate. I Baschiri agivano spesso autonomamente o sotto il comando di ufficiali russi che si limitavano a indicare loro gli obiettivi strategici. Nelle pianure della Russia europea, la loro cavalleria operava come un fluido imprevedibile: tagliava le comunicazioni, seminava panico tra gli ausiliari e raccoglieva informazioni vitali sugli spostamenti nemici.

Napoleone stesso, in diverse corrispondenze, non mancò di notare l’inafferrabilità e la crudeltà delle bande irregolari. I Baschiri, insieme ai Cosacchi e ad altre forze leggere dell’impero, contribuirono in modo decisivo al lento disfacimento dell’armata francese, logorandola nei fianchi e nei nervi, impedendole di stabilire linee sicure e di consolidare le conquiste. Anche se raramente impegnati in battaglie campali, la loro efficacia non risiedeva nello scontro frontale, bensì nella guerra d’attrito, nella capacità di rendere ogni chilometro conquistato dai francesi un territorio ostile e insicuro.

L’impiego di popoli come i Baschiri segnò una delle tante asimmetrie che caratterizzarono la campagna di Russia. Mentre Napoleone avanzava con un apparato bellico organizzato secondo la logica dell’efficienza occidentale, la Russia rispondeva mobilitando il suo universo imperiale multietnico, con le sue risorse umane eterogenee e la sua capacità di resistenza profonda. L’Impero degli Zar non era solo Mosca e Pietroburgo, ma anche le steppe, le foreste, le tribù dell’Asia interna.

Quando l’armata francese, ridotta allo stremo, intraprese la rovinosa ritirata tra le nevi, furono proprio queste forze “invisibili” a tormentare incessantemente gli uomini di Napoleone. I Baschiri non erano lì per decidere le sorti delle battaglie di massa, ma per rendere impossibile la sopravvivenza del nemico in territorio ostile.

La storia ha spesso relegato la partecipazione dei Baschiri a una nota a piè di pagina nella vastità del conflitto napoleonico. Eppure, questi 28 reggimenti, con i loro archi e cavalli veloci, rappresentano un simbolo potente: quello di un impero che, per resistere all’uomo più potente d’Europa, fece appello non solo alla strategia e al fuoco, ma anche alla profondità culturale e alla resistenza delle sue terre più lontane.

In un’epoca dominata dall’acciaio e dalla polvere da sparo, i Baschiri riportarono in scena l’arco e la freccia. E mentre l’inverno faceva la sua parte, furono anche loro a scrivere, da protagonisti silenziosi, la disfatta di Napoleone.




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