La
caduta della repubblica di
Venezia
è l'evento storico che, nel 1797,
pose fine alla storia della serenissima repubblica.
L'episodio si inquadra nell'ambito
degli sconvolgimenti politici prodotti dalla Rivoluzione francese
(presa della Bastiglia del 14 luglio 1789) e dalle guerre
rivoluzionarie francesi, scoppiate con l'entrata in guerra
dell'Austria il 20 aprile 1792. La decapitazione del re di Francia
Luigi XVI, il 21 gennaio 1793, spinse numerosi stati europei a
riunirsi nella Prima coalizione, con l'intento di reprimere il
fenomeno rivoluzionario.
Il pretendente al trono di Francia, il
conte di Lilla Louis Stanislas Xavier, riparò per un periodo, nel
1794, a Verona, ospite della repubblica di Venezia. Il fatto provocò
le vive proteste dei rappresentanti francesi, tanto che il diritto
d'asilo venne revocato e, il 21 aprile, Louis lasciò Verona,
chiedendo, per protesta, che il suo nome fosse cancellato dal libro
d'oro della nobiltà veneziana e che gli fosse restituita l'armatura
di Enrico IV, conservata a Venezia. L'allontanamento di Luigi spinse
inoltre molte corti europee a manifestare il proprio disappunto al
governo veneziano.
Nel 1795, con la Costituzione dell'anno
III, la Francia pose fine all'epoca del Terrore e instaurò il
governo di un Direttorio, che pianificò una grande offensiva a
tenaglia contro le forze della coalizione nemica: un attacco
principale avrebbe investito da ovest gli Stati del Sacro Romano
Impero attraversano il Reno, mentre una spedizione di disturbo
avrebbe colpito gli austriaci e i loro alleati da sud, attraverso il
Norditalia.
La conduzione della campagna italiana
venne affidata al giovane e promettente generale Napoleone Bonaparte
(aveva allora ventisette anni). Questi nell'aprile 1796 attraversò
con quarantacinquemila uomini le Alpi per scontrarsi con le forze
austro-piemontesi.
La vittoriosa campagna travolse il
Regno di Sardegna e il Ducato di Milano, controllato dagli Imperiali.
Il 9 maggio l'arciduca Ferdinando, governatore di Milano, riparò con
la famiglia a Bergamo, in terra veneziana. Sei giorni dopo, il 15
maggio, Napoleone entrò a Milano, costringendo contemporaneamente
Vittorio Amedeo III di Savoia a firmare l'umiliante pace di Parigi,
mentre gli asburgici ripiegavano nella difesa del principato
vescovile di Trento. Il 17 maggio anche il Ducato di Modena dovette
accettare la firma di un armistizio.
Nel corso del conflitto la repubblica
di Venezia aveva mantenuto l'ormai tradizionale posizione di
neutralità, ma i suoi territori si trovavano a questo punto nel
pieno della direttrice d'avanzata dell'esercito francese in direzione
di Vienna, dopo che la Francia aveva denunciato il 20 maggio
l'accordo armistiziale, riprendendo le ostilità.
All'avvicinarsi dell'esercito francese,
già il 12 maggio 1796 il Senato della serenissima aveva istituito un
provveditore generale per la Terraferma, con l'incarico di
sovrintendere a tutti i magistrati delle province (i reggimenti). Ma
lo stato delle difese era disastroso: scarsi gli armamenti, cattiva
la manutenzione delle fortificazioni. Le terre della Lombardia
veneziana vennero presto invase dalle masse di profughi in fuga dalla
guerra, dalle truppe austriache sbandate o in fuga, cui si aggiunsero
in breve le prime infiltrazioni di contingenti francesi. A stento le
autorità veneziane riuscirono a distogliere prima gli austriaci del
generale Kerpen, poi i francesi di Berthier al loro inseguimento,
dall'attraversare Crema. Giunse infine in città lo stesso Napoleone,
portando una proposta di alleanza tra la Francia e Venezia, cui però
non venne data risposta.
Sia il governo sia le autorità di
terraferma, in considerazione del cattivo stato delle difese,
opposero una blanda resistenza all'attraversamento del territorio
veneto da parte degli austriaci in fuga. Venezia oppose però un
fermo diniego alle richieste dell'ambasciatore imperiale di fornire,
seppur segretamente, viveri e magazzini alle forze asburgiche. In
breve, comunque, la situazione si fece critica per la repubblica: non
solo la Lombardia, ma lo stesso Veneto erano minacciati. Prima il
comandante in capo austriaco, generale Beaulieau, si impadronì con
l'inganno di Peschiera, poi, il 29 maggio, la divisione francese del
generale Augereau entrò a Desenzano. La notte tra il 29 e il 30
maggio Napoleone attraversò in forze il Mincio, mettendo in fuga il
nemico verso il Tirolo. Alle lagnanze della serenissima, che per
bocca del provveditore generale Foscarini lamentava i danni portati
dalle truppe francesi al loro passaggio, Bonaparte rispose
minacciando di mettere a ferro e fuoco Verona e marciare su Venezia.
Egli ribatteva infatti che la repubblica aveva favorito l'Imperatore,
non dichiarando guerra dopo il fatto di Peschiera, e i nemici della
Francia, avendo dato ospitalità al pretendente francese Luigi.
Il 1º giugno il provveditore
Foscarini, desideroso di non provocare ulteriormente Napoleone,
acconsentì all'ingresso dei soldati francesi in Verona. Le terre di
Venezia divennero così campo di battaglia tra gli opposti
schieramenti, mentre in molte città si venne progressivamente a
creare una difficile condizione di convivenza tra le truppe
veneziane, gli occupanti francesi e la popolazione locale.
Di fronte all'impellente minaccia, il
Senato ordinò il richiamo della flotta, la coscrizione delle cernide
dell'Istria, la creazione di un Provveditore generale alle Lagune e
ai Lidi per provvedere alla difesa del Dogado. Nuove tasse e
contributi volontari furono richiesti per provvedere al riarmo dello
Stato. Infine si ordinò all'ambasciatore a Parigi di protestare
presso il Direttorio per la violazione della neutralità.
Contemporaneamente rimostranze furono sollevate a Vienna per aver
portato la guerra nella Terraferma.
Il 5 giugno, a Brescia, i
rappresentanti del re di Napoli, Ferdinando, firmarono l'armistizio
con Napoleone. Il 10 giugno giunse in fuga a Venezia il Duca di Parma
Ludovico di Borbone. Il 12 giugno Napoleone invase anche la Romagna,
appartenente allo Stato Pontificio, che il 23 giugno dovette
accettare l'occupazione delle legazioni settentrionali. I francesi
acquisirono così il controllo del porto di Ancona.
A quel punto, la comparsa di legni
armati francesi nell'Adriatico spinse Venezia a rinnovare
l'antichissimo decreto che proibiva l'ingresso di navi straniere
armate nella laguna di Venezia, provvedendo a informarne rapidamente
Parigi. Vennero poi allestite flottiglie e fortificazioni lungo tutta
la gronda lagunare e i canali, per bloccare qualsiasi accesso dalla
terra e dal mare. Scriveva in proposito il 5 luglio il Provveditore
alle Lagune, ricordando la vittoriosa guerra di Morea contro i
Turchi:
| «Mortifica il mio animo il vedere che un secolo solo dopo quell'importante epoca, siano VV.EE. ridotte a pensare alla difesa del solo estuario, senza pensare di rivolgere il pensiero neppur una linea fuori dal medesimo.» |
| (Giacomo Nani, Provveditore generale alle Lagune e ai Lidi.) |
Venezia sembrava infatti ormai dare per
perduta, come all'epoca della lega di Cambrai, la terraferma. Senza
però risolversi a smobilitarla definitivamente per raccogliere le
forze. Anzi, sotto l'incitamento dello stesso provveditore alle
lagune, il governo fu sul punto di ordinare la mobilitazione e di
affidare il comando delle forze di terra al duca Guglielmo di Nassau,
ma, vi rinunciò per effetto delle congiunte opposizioni austriache e
francesi.
Verso la metà di luglio le truppe
francesi vennero acquartierate nelle città di Crema, Brescia e
Bergamo, per consentire la separazione tra francesi e Imperiali,
giunti frattanto a una tregua. Al contempo trattative diplomatiche
cercavano di spingere Venezia ad accettare un'alleanza congiunta con
la Francia e l'Impero ottomano contro la Russia, rompendo la
neutralità. La notizia però dei preparativi del generale von
Wurmser per una controffensiva austriaca dal Tirolo, spinsero la
repubblica a respingere ufficialmente, con lettera ducale del 22
luglio, le proposte francesi. Frattanto era stato chiamato ad
affiancare, e in pratica sosituire, il provveditore generale
Foscarini il provveditore straordinario Francesco Battagia. Mentre si
ordinava la creazione, a Venezia, di pattuglie notturne composte da
bottegai e garzoni e comandate da due cittadini e due patrizi, per il
mantenimento dell'ordine e della sicurezza. Anche a Bergamo si
reclutavano silenziosamente e ordinatamente truppe dalle valli
vicine, avendo cura di evitare di entrare in contrasto con gli
occupanti, ma solo per tenere in freno il fervore del popolo, senza
avvilirlo, come scrivevano gli Inquisitori di Stato.
Il 31 luglio, dal canto suo, Napoleone
occupò il castello di Brescia.
Intanto, il 29 luglio il generale von
Wurmser incominciò la controffensiva austriaca, scendendo dal
Trentino in una manovra a tenaglia lungo le rive del lago di Garda e
il corso del Brenta, tra il territorio veneto e quello mantovano. Le
due colonne austriache vennero però fermate rispettivamente a Lonato
del Garda (3 agosto) e a Castiglione delle Stiviere, dove, nella
battaglia combattuta il 5 agosto Würmser venne sconfitto e costretto
a ripiegare su Trento. Riorganizzatosi, Würmser ritentò l'assalto
marciando questa volta lungo il corso dell'Adige, ma l'8 settembre
gli Imperiali vennero nuovamente e duramente sconfitti nella
battaglia di Bassano: costretti a una precipitosa ritirata su
Mantova, abbandonarono artiglierie e carriaggi.
Nel corso dell'autunno e dell'inverno
la presenza francese nella penisola italiana si andò rapidamente
consolidando, tanto che il 15 e 16 ottobre vennero costituite la
Repubblica Cispadana e la Repubblica Transpadana. Contemporaneamente,
nella Terraferma Veneziana i soldati napoleonici presero
progressivamente il controllo del sistema difensivo, prendendo il
controllo di città e fortezze. Mentre le direttive provenienti da
Venezia continuavano a ingiungere ai magistrati posti a capo dei vari
reggimenti di fornire la massima collaborazione e di evitare
qualunque motivo di conflitto, dal canto loro i francesi spinsero
sempre più apertamente alla rivolta i gruppi giacobini locali.
Il 29 ottobre gli austriaci, raccoltisi
nel Friuli veneto, tentarono una nuova offensiva. Al comando del
generale Alvinzi von Berberek attraversarono il Tagliamento,
superando il Piave il 2 novembre e raggiungendo, il 4, il Brenta.
Sconfitti i francesi il 6 novembre a Bassano, due giorni più tardi
l'armata asburgica entrava a Vicenza. La battaglia del 12 novembre a
Caldiero e la battaglia del ponte di Arcole (17 novembre) bloccarono,
però, l'avanzata austriaca. Infine la battaglia di Rivoli Veronese,
il 14 gennaio 1797, ristabilì la situazione a favore di Napoleone.
Conquistata Mantova il 2 marzo 1797, i
francesi si liberarono dell'ultima importante sacca di resistenza
asburgica. In tale posizione, gli occupanti finirono per forzare
apertamente la democratizzazione di Bergamo, che, su pressione del
generale d'Hilliers, si ribellò il 13 marzo all'autorità veneziana.
Tre giorni più tardi il provveditore straordinario Battagia, nel
tentativo di riportare all'ordine Bergamo, emanò un'amnistia
generale per chiunque avesse causato turbamento alla pubblica quiete.
Il magistrato cominciava però già a presagire il ribollire di
Brescia, città in cui risiedeva e sulla quale erano in quel momento
in marcia i rivoluzionari bergamaschi.
In quello stesso 16 marzo, Napoleone,
battuto sul Tagliamento l'arciduca d'Austria Carlo, vide finalmente
spianata la strada dell'Austria.
Il giorno successivo, dal canto suo, il
Senato provvide a inviare attestati di gratitudine sovrana alle città
e castelli mantenutisi fedeli, ordinando finalmente anche i primi
provvedimenti difensivi. Si decretò lo sbarramento delle lagune,
l'istituzione di ronde armate nelle città del Dogado e il richiamo
delle unità navali di stanza in Istria. Si ordinò altresì
l'incremento delle attività dell'Arsenale, cuore militare dello
Stato, e l'invio di rinforzi di truppe oltremarine in Terraferma. Il
19 marzo, poi, i Tre Inquisitori di Stato riferirono allo stesso
Senato lo stato generale dei reggimenti veneti. Per Bergamo, in
rivolta, risultavano tagliati i collegamenti, così che gli
Inquisitori riferivano di attendere notizie dai castelli e dalle
valli circostanti. Brescia risultava invece ancora tranquilla, sotto
il pieno controllo del provveditore Battagia, così come Crema, per
la quale si richiedeva però un rafforzamento del presidio militare.
Verona pareva invece in pieno fermento antifrancese, mentre Padova e
Treviso tacevano, anche se la prima rimaneva sotto costante
osservazione per il potenziale pericolo connesso alla presenza dello
Studium. Si leggeva infatti:
| «Bergamo: i capi sollevati sostenuti da francesi, e si
tenta di screditare la repubblica, interrotte le comunicazioni, si
attendono notizie dalle valli e luoghi e castelli della
Provincia. Brescia mediante le prudenti direzioni del provveditore straordinario è tuttora ferma (...). Crema (...) reclama un qualche presidio militare. Verona (...), il di cui popolo disse sembrargli non inclinato ai francesi, (...) che (...) non lasciano di essere e armati e pericolosi. (...) Padova oltre non esser pur troppo immune dal veleno in alcuni della città e dello Studio (...) ha numero di scolari delle città oltre il Mincio (...). Treviso non offre peculiari osservazioni.» |
| (Relazione dei Tre Inquisitori di Stato del 19 marzo 1797 sullo stato delle provincie venete) |
In realtà, però, gli Inquisitori
ignoravano che a Brescia il giorno precedente (18 marzo), un gruppo
di notabili, desiderosi di liberarsi del governo serenissimo per via
di taluni sgarbi ricevuti, ma nell'indifferenza generale e con il
solo supporto della vicina Bergamo nonché dei francesi che dal
castello minacciavano l'intera città con la scusa di reprimere un
fantomatico brigantaggio, vi era già stata una rivolta e che il
Battaglia, per non creare danni alla popolazione ancora filo-veneta,
aveva deciso di abbandonare con gli schiavoni la città. La notizia
degli eventi venne infatti recata al Senato solo il 20 marzo, dopo
l'arrivo a Verona dal provveditore Battagia, scampato alla rivolta.
Il governo sembrò a quel punto reagire. Si inviò a tutti i
reggimenti una lettera ducale per ordinare l'apprestamento
all'assoluta difesa e per reclamare il rinnovo del giuramento di
fedeltà. Il 21 marzo, mentre Bonaparte entrava a Gradisca, prendendo
il controllo di Tarvisio e dell'accesso alle valli austriache, giunse
la prima risposta: Treviso si proclamava ancora pienamente fedele a
Venezia. Il giorno seguente però, pervenne da Udine una lettera da
parte degli ambasciatori veneziani inviati a parlamentare con
Napoleone. Questi informavano il governo dell'atteggiamento sempre
più evasivo e sospetto tenuto dal generale francese. Di rimando il
governo ritenne utile informare pertanto i principali magistrati di
Terraferma, tutti concentrati a Verona, della necessità di operare
con la massima circospezione nei confronti dei francesi: in pratica
limitando il concetto di assoluta difesa espresso nella lettera
ducale, nella speranza di non dar modo a Napoleone di entrare in
aperto conflitto. Il 24 marzo, comunque, giunsero i rinnovi di
fedeltà da parte delle cittadinanze di Vicenza e Padova, in breve
seguite da Verona, Bassano, Rovigo e, di lì a poco, da tutti gli
altri centri. Numerose deputazioni giunsero persino dalle valli
bergamasche, pronte a sollevarsi contro i francesi.
Il 25 marzo, però, i rivoluzionari
lombardi occuparono Salò, seguita, il 27 marzo, da Crema, dove il
giorno successivo venne proclamata la Repubblica Cremasca. Anche i
napoleonici si facevano sempre più spavaldi, intervenendo prima con
un corpo di cavalleria nella repressione della resistenza cremasca e
poi, il 31 marzo, colpendo con fuoco d'artiglieria Salò, ribellatasi
ai giacobini. Questa però resistette, riconsegnandosi a Venezia.
Tutti questi fatti spinsero infine i
magistrati veneziani di Terraferma ad autorizzare la parziale
mobilitazione delle cernide e l'apprestamento difensivo di Verona,
principale piazzaforte militare. Gli occupanti francesi furono
inizialmente costretti a salvaguardare le apparenze, acconsentendo a
non interferire con le forze veneziane intente a riprendere il
controllo delle città della Lombardia veneta. In questo sostenute
dall'accordo stipulato il 1º aprile, con cui Venezia accondiscendeva
al pagamento di un milione di lire al mese a Napoleone per il
finanziamento della sua campagna contro l'Austria. In tal modo la
Repubblica sperava infatti di favorire al contempo una rapida
conclusione del conflitto, con il conseguente sgombero degli
occupanti, e l'acquisto di una certa libertà d'azione contro i
rivoluzionari lombardi.
Di fronte però al diffondersi delle
sollevazioni popolari a favore di Venezia e alla rapida avanzata
delle truppe venete, i francesi furono costretti a soccorrere i
giacobini lombardi, svelando definitivamente le loro reali
intenzioni. Il 6 aprile un drappello di cavalleria veneziana venne
fatto prigioniero a tradimento dai francesi e condotto a Brescia. L'8
aprile il Senato fu informato di scorrerie compiute fin alle porte di
Legnago da rivoluzionari bresciani dotati di divise francesi. Il 9
aprile un proclama napoleonico invitò la popolazione della
Terraferma ad abbandonare il governo di Venezia, che si era sino a
quel momento premurato della sicurezza della sola capitale.
Contemporaneamente il generale Junot ricevette dal Bonaparte una
lettera in cui si lamentava la generale sollevazione antifrancese
della Terraferma veneta. Il 10 aprile, quindi, i francesi, dopo aver
catturato una nave veneziana carica di armamenti sul Garda,
accusarono Venezia di aver rotto la neutralità istigando gli
abitanti delle valli bresciane e bergamasche alla rivolta
anti-giacobina. Il generale Miollis accusò l'aggressione subita da
un battaglione di volontari polacchi che era intervenuto in uno degli
scontri. Il 12 aprile venne ordinata poi la massima vigilanza nei
porti veneti per la sempre più frequente presenza di navi da guerra
francesi. Il 15 aprile, infine, l'ambasciatore di Napoleone a Venezia
informò la Signoria dell'intenzione francese di sostenere e
promuovere le rivolte contro il tirannico governo della Repubblica.
Questa rispose emanando un bando per imporre a tutti i sudditi la
calma e il rispetto della neutralità.
Il 17 aprile 1797 Napoleone firmò a
Leoben, in Stiria, un preliminare di pace con i rappresentanti
dell'imperatore Francesco II. Nelle clausole segrete annesse al
trattato egli già disponeva la cessione dei Domini di Terraferma
all'Impero in cambio dello sgombero dei Paesi Bassi da parte di
quest'ultimo.
Nello stesso giorno, però, a Verona la
situazione precipitò. La popolazione e parte delle truppe venete
acquartierate, stanche dell'oppressione e dell'arroganza dei
francesi, insorsero. L'episodio, noto come pasque Veronesi, costrinse
in breve le truppe d'occupazione alla difensiva, spingendole a
rinchiudersi nei forti posti a presidio della città.
Nonostante poi fosse stata nuovamente rinnovata la proibizione all'ingresso di navi da guerra straniere nelle acque di Venezia, avvisando prontamente del fatto la Francia, il 20 aprile la fregata francese Le Libérateur d'Italie tentò di forzare il porto del Lido, nel probabile tentativo di saggiarne le difese. In risposta, le potenti artiglierie del forte di Sant'Andrea distrussero la nave, uccidendone il comandante. Il governo della repubblica non seppe tuttavia sfruttare la situazione di momentaneo vantaggio e, sperando ancora di evitare un conflitto aperto, seppure a prezzo della perdita dei possedimenti terrestri, si rifiutò di mobilitare l'esercito e di inviare rinforzi a Verona. Questa, infine, il 24 aprile fu costretta ad arrendersi.
Nonostante poi fosse stata nuovamente rinnovata la proibizione all'ingresso di navi da guerra straniere nelle acque di Venezia, avvisando prontamente del fatto la Francia, il 20 aprile la fregata francese Le Libérateur d'Italie tentò di forzare il porto del Lido, nel probabile tentativo di saggiarne le difese. In risposta, le potenti artiglierie del forte di Sant'Andrea distrussero la nave, uccidendone il comandante. Il governo della repubblica non seppe tuttavia sfruttare la situazione di momentaneo vantaggio e, sperando ancora di evitare un conflitto aperto, seppure a prezzo della perdita dei possedimenti terrestri, si rifiutò di mobilitare l'esercito e di inviare rinforzi a Verona. Questa, infine, il 24 aprile fu costretta ad arrendersi.
Il 25 aprile, festa di San Marco, di
fronte agli sbigottiti emissari veneti giunti a Graz, Napoleone,
asserendo di possedere ottantamila uomini in armi e venti cannoniere
pronte a rovesciare Venezia, lanciò una tremenda minaccia:
| «Io non voglio più Inquisizione, non voglio Senato, sarò un Attila per lo stato veneto.» |
| (Napoleone Bonaparte) |
Nella stessa occasione il generale
accusava Venezia di aver rifiutato l'alleanza con la Francia, che le
avrebbe consentito la riacquisizione delle città ribelli, al solo
scopo di poter mantenere i propri uomini in armi e poter così in
caso tagliare la via della ritirata ai francesi in caso di sconfitta.
Nei giorni successivi, l'armata
napoleonica procedette quindi alla definitiva occupazione della
Terraferma, arrivando ai margini della laguna. Il 30 aprile una
lettera di Napoleone, ormai attestatosi a Palmanova, informò la
Signoria dell'intenzione da parte del generale di modificare la forma
di governo della Repubblica, pur offrendosi di mantenerne la
sostanza. L'ultimatum concesso era di quattro giorni.
Nonostante tutti i tentativi di
giungere a una conciliazione, tanto che il 1º maggio Napoleone,
ormai attestatosi a Marghera, era stato informato dell'intenzione
veneziana di rivedere l'ordinamento costituzionale in senso più
democratico, il 2 maggio giunse ugualmente la dichiarazione di guerra
da parte francese.
Al contrario, il 3 maggio, Venezia
revocò l'ordine generale di reclutamento per le cernide della
Dalmazia. Poi, nell'ennesimo tentativo di placare Napoleone il 4
maggio, con 704 voti favorevoli, 12 contrari e 26 astenuti, il
Maggior Consiglio deliberò l'accettazione delle richieste francesi,
accondiscendendo all'arresto del castellano di Sant'Andrea di Lio,
responsabile dell'affondamento del Le Libérateur d'Italie, e dei Tre
Inquisitori di Stato, magistratura particolarmente invisa ai
rivoluzionari in quanto suprema garanzia del sistema oligarchico
veneziano.
L'8 maggio il Doge si dichiarò pronto
a deporre le insegne nelle mani dei capi giacobini, invitando nel
contempo tutte le magistrature allo stesso passo. Tutto questo
nonostante il consigliere ducale Francesco Pesaro lo spronasse a
fuggire a Zara, possedimento ancora sicuro. Venezia d'altra parte
disponeva ancora della propria potente flotta e dei fedeli
possedimenti istriani e dalmati, oltre che delle intatte difese della
città e della laguna. Nel corpo della nobiltà serpeggiava però il
terrore di una possibile rivolta popolare. L'ordine diramato fu
quindi quello di smobilitare le fedeli truppe di Schiavoni presenti
in città. Lo stesso Pesaro sfuggì all'arresto, ordinato per
ingraziarsi Napoleone, lasciando Venezia.
La sera dell'11 maggio, l'ultima prima
della convocazione del Maggior Consiglio e sotto la minaccia
dell'invasione, l'anziano doge esclamò:
(VEC)
«Stanote no semo sicuri gnanca nel nostro leto.» |
(IT)
«Stanotte non siamo sicuri nemmeno nel nostro letto.» |
| (Ludovico Manin) |
La mattina del 12 maggio, tra voci di
congiure e dell'imminente attacco francese, il Maggior Consiglio
della repubblica si riunì per l'ultima volta. Nonostante alla seduta
fossero presenti solo 537 dei mille e duecento patrizi aventi diritto
e mancasse quindi il numero legale, il doge, Ludovico Manin, aprì la
seduta con le seguenti parole:
(VEC)
«Quantunque siemo con l'animo molto afflitto e conturbà,
pure dopo prese con una quasi unanimità le due Parti anteriori, e
dichiarata così solennemente la pubblica volontà, anche Nu semo
rassegnadi alle divine disposizion.(...) La parte che se ghe presenta no xe che una conseguenza de quanto Le ha già accordà con le precedenti (...); ma due articoli ne reca sommo conforto, vedendone assicurada con uno la nostra Santa Religion, e con l'altro li mezzi di sussistenza per li nostri concittadini (...). (...) Mentre ne vien minacià sempre el ferro e el fogo se non se aderisce alle loro ricerche; e in adesso semo circodadi da 60/m uomini caladi dalla Germania, vittoriosi ed in conseguenza liberadi dal timor dele Armi austriache. (...) Chiuderemo dunque, come ben se deve, col racomandarghe de rivolgerse sempre a Dio Signor ed alla Madre sua santissima, onde i se degni dopo tanti flagelli, che meritamente per le nostre colpe i n'ha fatto provar, i vogia riguardarne con gli occhi della loro misericordia, e sollevarne almeno in qualche parte da tante angustie che ne opprime.» |
(IT)
«Per quanto siamo con l'animo molto afflitto e turbato, pur
dopo aver preso con una quasi unanimità le due precedenti
decisioni, e avendo dichiarato così solennemente la pubblica
volontà, anche Noi siamo rassegnati alle divine
decisioni.(...) La decisione che Vi si presenta non è che una conseguenza di quanto già accordato con quelle precedenti (...); ma due articoli ci danno sommo conforto, vedendoci assicurata con uno la nostra Santa Religione, e con l'altro i mezzi di sussistenza per i nostri concittadini (...). (...) Mentre ci viene minacciato sempre il ferro e il fuoco se non si aderisce alle loro richieste; e in questo momento siamo circondati da sessantamila uomini calati dalla Germania, vittoriosi e quindi liberati dal timore delle armi austriache. (...) Chiuderemo dunque, come ben si deve, col raccomandarVi di rivolgersi sempre a Dio Signore e alla sua Madre santissima, affinché si degnino dopo tanti flagelli, che meritatamente ci hanno fatto provare per le nostre colpe, e vogliano guardarci di nuovo con gli occhi della loro misericordia, e sollevarci almeno in parte dalle tante angustie che ci opprimono.» |
| (Ludovico Manin, discorso all'ultima seduta del Maggior Consiglio.) |
Si procedette quindi a esporre le
richieste francesi, portate da alcuni esponenti giacobini veneziani,
che prevedevano l'abdicazione del governo in favore di una
Municipalità Provvisoria, l'innalzamento in piazza san Marco
dell'albero della libertà, lo sbarco di un contingente di 4000
soldati francesi e la consegna di alcuni magistrati che più avevano
sostenuto l'ipotesi di resistenza. Il suono, proveniente dalla
piazza, delle salve di moschetto degli Schiavoni intenti a salutare
il vessillo di san Marco prima di imbarcarsi, provocò nell'assemblea
il terrore che fosse scoppiata una rivolta. Così si procedette
immediatamente alla votazione e, con 512 voti favorevoli, 5 astenuti
e 20 contrari, la repubblica fu dichiarata decaduta. Mentre il
consiglio si scioglieva frettolosamente, il Doge e i magistrati
deposero le insegne e si presentarono quindi al balcone di Palazzo
Ducale per fare l'annuncio alla folla radunatasi nella sottostante
piazzetta. Al termine della lettura del decreto di scioglimento del
Governo, il popolo si sollevò.
Anziché inneggiare alla rivoluzione,
però, com'era stato nei peggiori timori del patriziato veneziano, il
popolo, al grido di viva san Marco! e viva la repubblica, issò il
gonfalone marciano sulle tre antenne della piazza, tentando di
reinsediare il Doge e attaccarono le case e i beni dei giacobini
veneziani. I magistrati tentarono di riportare l'ordine, temendo di
dover rispondere ai francesi dei tumulti, e verso sera le ronde di
arsenalotti e i colpi di artiglieria sparati a Rialto riportarono
l'ordine in città.
La mattina del 13 maggio, ancora nel
nome del serenissimo principe e con l'usuale stemma marciano, furono
emanati tre proclami, coi quali si minacciava di morte chiunque
avesse osato sollevarsi, si ordinava la restituzione presso le
Procuratie dei frutti del saccheggio e infine si riconoscevano i capi
giacobini come benemeriti della patria. Poiché il giorno successivo
scadeva il termine ultimo dell'armistizio concesso da Napoleone, dopo
il quale i francesi avrebbero forzato l'entrata in città, si
accondiscese infine a inviare loro le imbarcazioni necessarie a
trasportare quattromila uomini, dei quali milleduecento destinati a
Venezia e i restanti alle isole e alle fortezze che la circondavano.
Il 15 maggio il doge lasciò per sempre
il Palazzo Ducale per ritirarsi nella residenza della sua famiglia,
annunciando nell'ultimo decreto dell'antico governo la nascita della
municipalità provvisoria che prese possesso del potere il giorno
dopo, 16 maggio 1797.
La municipalità provvisoria si insediò
in Palazzo ducale, nella sala che era stata del Maggior Consiglio,
emanando il 16 maggio un proclama per annunciare il nuovo ordine:
| «Il veneto governo desiderando di dare un ultimo grado di perfezione al sistema repubblicano che forma da più secoli la gloria di questo paese, e di far godere sempre più ai cittadini di questa capitale d'una libertà che assicuri ad un tratto la religione, gl'individui e le proprietà, ed anelando di richiamare alla madre patria gli abitanti della Terraferma che se ne distaccarono, e che non di meno conservano per i loro fratelli della capitale l'antico loro attaccamento, persuaso d'altronde che l'intenzione del governo francese sia di accrescere la potenza e la felicità del veneto popolo, associando la sua sorte a quella dei popoli liberi d'Italia, annuncia solennemente all'Europa intera, e particolarmente al popolo veneto, la riforma libera e franca ch'egli ha creduto necessaria alla costituzione della repubblica. I soli nobili erano ammessi per diritto di nascita all'amministrazione dello stato, questi nobili stessi rinunziano oggidì volontariamente a questo diritto, affinché i più meritevoli fra la nazione intera siano per l'avvenire ammessi ai pubblici impieghi. [...] L'ultimo voto dei nobili veneti, facendo il glorioso sagrifizio dei loro titoli, è di vedere i figli tutti della patria una volta eguali e liberi, godere, nel seno della fratellanza, i benefizii della democrazia e onorare del rispetto delle leggi il titolo più sacro ch'eglino acquistarono di Cittadini» |
| (Proclama della Municipalità Provvisoria di Venezia del 16 maggio 1797.) |
Lo stesso giorno fu firmata a Milano
una pace umiliante e, su richiesta della municipalità, conformemente
agli articoli del trattato, i francesi entrarono in città: erano le
prime truppe straniere a mettervi mai piede dalla nascita di Venezia.
Al contempo le province presero a
ribellarsi all'autorità della municipalità di Venezia, cercando di
istituire propri governi, mentre l'impennarsi del debito pubblico,
non più sostenuto dalle entrate dei domini, la sospensione dei
pagamenti del banco giro e gli altri provvedimenti fiscali,
spingevano a sempre più manifeste forme di insofferenza da parte
della popolazione.
Il 4 giugno, in piazza san Marco venne
innalzato il fatidico Albero della Libertà: durante la cerimonia fu
fatto a pezzi il gonfalone della repubblica e arso il libro d'oro
della nobiltà, mentre veniva presento il nuovo simbolo del leone
alato recante la scritta DIRITTI DELL'UOMO E DEL CITTADINO. Il 29
giugno Bergamo e Crema furono definitivamente annesse alla nascente
Repubblica Cisalpina.
Un mese più tardi (11 luglio) venne
soppresso il Ghetto di Venezia e fu concessa libertà di circolazione
agli Ebrei.
I francesi, il 13 giugno, temendo che
la Municipalità non riuscisse a mantenere il controllo di Corfù,
salparono da Venezia con una flotta, intenzionati a deporre il
Provveditore generale da Mar, che ancora reggeva le province
oltremarine, e stabilire il governo democratico. Il 27 giugno venne
così creata una Municipalità provvisoria delle isole Ionie.
Intanto, in Istria e Dalmazia,
magistrati e nobili si rifiutavano di riconoscere il nuovo governo.
La flotta che aveva riportato in patria le truppe schiavone
allontanate da Venezia rimaneva all'ancora senza mostrare
l'intenzione né di rientrare in laguna, né di imporre il controllo
municipale. A Traù i beni dei filo-rivoluzionari furono
saccheggiati, mentre a Sebenico lo stesso console francese venne
assassinato. Il diffondersi della notizia dei patti stipulati a
Leobén, poi, spinse la popolazione a invocare una rapida occupazione
da parte austriaca. Il 1º luglio gli Imperiali entrarono a Zara,
accolti da campane a festa e salve di saluto. Le insegne marciane,
ammainate quello stesso giorno, vennero condotte in processione nella
cattedrale per ricevere l'omaggio della popolazione. A Perasto, città
che vantava il titolo di fedelissima gonfaloniera, il vessillo venne
persino simbolicamente sepolto sotto l'altare maggiore, accompagnato
dalle seguenti parole del capitano della guardia:
(VEC)
«In sto amaro momento, in sto ultimo sfogo de amor, de fede al
veneto serenissimo dominio, el gonfalon della serenissima
repubblica, ne sia de conforto, o cittadini, che la nostra
condotta passada, che quella de sti ultimi tempi rende più giusto
sto atto fatal, ma virtuoso, ma doveroso per nu. Savarà da nu i
nostri fioi, e la storia del zorno farà saver a tutta l'Europa,
che Perasto ha degnamente sostenudo fino all'ultimo l'onor del
veneto gonfalon, onorandolo con sto atto solenne, e deponendolo
bagnà del nostro universal amarissimo pianto. [...] Ma za che
altro no resta da far per ti, el nostr cuor sia l'onoratissima to
tomba, e el più puro e el più grande to elogio le nostre
lagrime.» |
(IT)
«In questo amaro momento, in quest'ultimo sfogo d'amore, di
fede al serenissimo dominio veneziano, al gonfalone della
serenissima repubblica, ci sia di conforto, o cittadini, che la
nostra passata condotta e quella di questi ultimi tempi rendono
più giusto quest'atto fatale, ma virtuoso e doveroso per noi.
Sapranno da noi i nostri figli, e la storia del giorno lo farà
sapere a tutta l'Europa, che Perasto ha sostenuto degnamente e
fino all'ultimo l'onore del gonfalone veneto, onorandolo con
quest'atto solenne e deponendolo bagnato del nostro universale e
amarissimo pianto. [...] Ma già che non resta altro da fare per
te, il nostro cuore sia la tua onoratissima tomba e le nostre
lacrime l'elogio più grande e più puro.» |
| (Discorso alla sepoltura del Gonfalone di san Marco a Perasto.) |
In breve l'intera costa
istriano-dalmata passò all'Arciducato d'Austria, suscitando le
inutili proteste della Municipalità Provvisoria di Venezia.
Il 22 luglio il Comitato di Salute
Pubblica, organo della Municipalità di Venezia, lamentando la
pesante situazione politica della città, istituì una Giunta
Criminale per avviare la repressione del dissenso e decretò la pena
di morte per chiunque avesse pronunciato l'antico motto viva san
Marco!. La circolazione in mancanza di lasciapassare venne proibita.
Il 12 ottobre venne denunciata dalla Municipalità la scoperta di una
congiura contro il governo. Il fatto spinse il generale Balland,
comandante militare francese della città, a decretare lo stato
d'assedio, procedendo ad arresti e richiedendo la consegna di
ostaggi.
Dopo il Colpo di Stato del 18
fruttidoro (4 settembre), l'ala dura prese il controllo della
Francia, premendo per la ripresa delle ostilità con l'Austria. Il 29
settembre venne recapitato a Napoleone un ordine del Direttorio che
gli intimava di annullare gli accordi di Leoben, lanciando un
ultimatum all'Impero, per non lasciare a questo la possibilità di
riprendere il controllo della penisola. Il generale, però,
disattendendo le direttive di Parigi, proseguì le trattative di pace
con gli Asburgo d'Austria.
Intanto, di fronte al precipitare
ovunque della situazione politica generale e al rischi che fossero
attuate le disposizioni di Leoben, le città della Terraferma
accettarono di partecipare a una conferenza a Venezia per decidere
della sorte comune degli ex-territori della serenissima. Fu decisa
l'unione con la Repubblica Cisalpina, ma i francesi non diedero
seguito alla scelta delle popolazioni.
L'ultimo incontro tra francesi e
austriaci si tenne il 16 ottobre nella villa di Passariano di
Codroipo che era stata di proprietà del doge Ludovico. Poi, il 17
ottobre 1797, venne firmato il trattato di Campoformio. Così, in
conformità alle clausole segrete di Leoben, i territori della
repubblica di Venezia, ancora formalmente esistente sotto il governo
della Municipalità Provvisoria, furono consegnati all'Arciducato
d'Austria. Le Municipalità Provvisorie di giacobini costituite dai
francesi a Venezia e nelle altre terre della repubblica stavano
quindi per cessare di esistere.
Il 28 ottobre a Venezia il popolo venne
radunato per parrocchie per esprimersi tra l'accettazione delle
decisioni francesi o la resistenza: su 23.568 votanti, ben 10.843 non
scelsero per libertà[ossia?]. Mentre i capi della Municipalità si
affannavano per resistere, inviando ambasciatori a Parigi, l'azione
degli agenti austriaci e del patriziato deposto già preparavano la
strada all'Austria. Gli ambasciatori vennero invece arrestati a
Milano e rispediti in patria.
Il 21 novembre, durante la tradizionale
festa della Salute i rappresentanti della Municipalità vennero
pubblicamente scherniti dal popolo e abbandonarono il potere. Tutto
questo mentre gli occupanti si davano al saccheggio più sfrenato.
Delle 184 navi presenti nell'Arsenale, quelle già armate furono
inviate a Tolone, le altre affondate, ponendo fine alla marina da
guerra. I magazzini della flotta vennero depredati. Per non lasciare
nulla all'Austria di cui trarre vantaggio, i duemila arsenalotti
vennero licenziati e l'immenso cantiere dato alle fiamme.
Chiese, conventi e palazzi vennero
razziati di preziosi e opere d'arte. La Zecca e il tesoro della
basilica di San Marco vennero depredati e il Bucintoro, la nave
ducale, fatta a pezzi assieme a tutte le sculture, che furono arse
nell'isola di San Giorgio Maggiore per fondere la foglia d'oro che le
ricopriva. Anche i cavalli di bronzo della basilica di San Marco
furono condotti a Parigi. Alcuni privati furono incarcerati e
costretti a versare le loro ricchezze in cambio della libertà. Il
tesoro della basilica di San Marco fu liquefatto in oro per pagare i
soldati francesi. Furono abbattute e depredate 70 chiese e furono
chiusi gli ordini religiosi. Sparirono circa 30.000 opere d'arte.
Le Nozze di Cana del Veronese un tempo
presso il refettorio benedettino dell'Isola di San Giorgio Maggiore a
Venezia a vennero tagliate in due e spedite al Louvre, dove si
trovano ancora. Opere di Tintoretto, Giovanni Bellini,
GiambattTiepolo e molte altre non furono mai restituite, centinaia di
leoni alati e sculture raffiguranti la Repubblica di Venezia vennero
distrutti. Si parla di una colonna di 20 kilometri di opere d'arte
trafugate.
Allo spoglio sistematico, fucilazioni
ed alle distruzioni delle opere d'arte il popolo reagiva con
manifestazioni, insulti pubblici e zuffe con i militari e sventolio
di bandiere austriache.
Il 28 dicembre il potere venne preso
dal governo militare francese e da una giunta di polizia. Il 18
gennaio 1798 entrarono a Venezia le truppe austriache che restarono
fino al 1805.
Nel 1806 Napoleone crea la Repubblica
Cisalpina e declassa ulteriormente Venezia scegliendo come capitale
Milano.
Il Carnevale di Venezia fu
abrogato.
Nel 1807 Napoleone fece abbattere in
Piazza San Marco la Chiesa di San Geminiano per edificare l'attuale
ala Napoleonica, dove voleva che avesse luogo la propria sala da
ballo.
Il governo austriaco durò sette anni.
Nel 18 marzo 1805 il trattato di Presburgo cedette la provincia
veneta austriaca alla Francia: il 26 maggio Napoleone, da poco
divenuto Imperatore dei francesi, si incoronò Re d'Italia a Milano,
cingendo la Corona Ferrea. Venezia tornò così sotto il controllo
francese. Napoleone soppresse gli ordini religiosi e avviò grandi
opere pubbliche in quella che doveva divenire una delle capitali del
suo Impero. In piazza San Marco venne costruita una nuova ala di
quello che doveva essere il suo palazzo reale: l'Ala Napoleonica o
Procuratie Nuovissime, mentre veniva aperta una nuova strada in
città: la via Eugenia (nel 1866 rinominata via Garibaldi),
intitolata al viceré d'Italia Eugenio di Beauharnais, figlio
dell'imperatrice Giuseppina.
In questo periodo venne soppressa la
carica episcopale di Primicerio della Basilica di San Marco, di
antica pertinenza ducale, e la Basilica divenne nuova cattedrale del
Patriarcato di Venezia.
Nel 1808 anche la Dalmazia venne
annessa al Regno d'Italia napoleonico, venendo retta da un
Provveditore generale di Dalmazia fino al 1809, quando, a seguito del
Trattato di Schönbrunn, entrò a far parte delle Province Illiriche
dell'Impero francese.
Il secondo dominio francese durò fino
alla caduta di Napoleone. Il 20 aprile 1814 Venezia venne restituita
agli asburgici e con la caduta del Regno, quello stesso mese, la
città e l'intero Veneto tornarono all'Impero d'Austria, che
incorporò i territori nel Regno lombardo-veneto (1815).
Il passaggio alla dominazione francese
e a quella austriaca consolidarono nel XIX secolo il definitivo
abbandono dei materiali e delle tecniche costruttive tradizionali,
visibile nelle finitura interna degli edifici con la sostituzione dei
marmorini a favore di tecniche diffuse nel "Lombardo-Veneto",
come i più economici e spessi rivestimenti multistrato battuti e
lisciati con frattazzo e imbiancati con latte di calce levigata a tre
mani.
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