lunedì 4 novembre 2024

Napoleone: il genio, l’uomo e i suoi lati nascosti


Parlare di Napoleone Bonaparte significa evocare l’immagine di un gigante della storia, uno stratega ineguagliabile, un legislatore rivoluzionario, un despota e un riformatore. Tuttavia, dietro il mito dell’Imperatore che cambiò l’Europa si cela un uomo pieno di contraddizioni, debolezze e abitudini insolite, alcuni aspetti dei quali sono sfuggiti alla narrazione più nota. Scavare in questi dettagli non significa sminuirne la grandezza, bensì comprenderla meglio: perché persino gli dei, come ci insegna la mitologia, sono più interessanti quando mostrano i loro difetti.

Contrariamente alla credenza popolare, Napoleone non era affatto basso. La sua altezza, stimata tra i 168 e i 170 cm, era in linea con la media dei francesi del suo tempo. L’idea del “piccolo Napoleone” fu frutto della propaganda britannica, la stessa che cercò di minarne la statura politica riducendola a un fatto fisico. Il confronto con le sue imponenti guardie imperiali, spesso di statura eccezionale, contribuì ulteriormente a perpetuare l’illusione.

Dietro la figura austera del condottiero si nascondeva anche un uomo dalle capacità artistiche alquanto limitate. Sebbene amasse la musica, Napoleone non era in grado di cantare o fischiettare correttamente. Stonava a tal punto da compromettere la melodia originale, e il suo senso del ritmo era pressoché inesistente. Era altrettanto goffo nel ballo, un dettaglio imbarazzante se paragonato all’elegante rivale Wellington, noto per la sua bravura sulla pista da ballo.

La passione per il comando non gli impediva di abbandonarsi a dipendenze singolari. Era ghiotto di liquirizia e consumava regolarmente tabacco da fiuto. In un gesto di bizzarra tenerezza, era solito offrire la liquirizia ai bambini. Non si può dire lo stesso del suo talento nei giochi di logica: era un pessimo giocatore di scacchi e carte. Celebre la sua umiliante sconfitta contro il “Turco Meccanico”, un automa scacchista, che lo fece infuriare al punto da minacciare di radere al suolo Berlino. Peggio ancora, tendeva a barare a carte e, quando scoperto, se la cavava con una risata.

Eppure, dietro questi difetti, emergevano tratti di profonda umanità. Visitando un campo di battaglia, fu colto da una crisi emotiva quando un cane gli corse incontro e lo guidò verso il cadavere del padrone. "Senza lacrime ho mandato migliaia di uomini a morire", scrisse. "Eppure un cane mi ha fatto piangere."

Grande amante dei cavalli, detestava invece i gatti, tollerandoli solo per amore dell’Imperatrice Giuseppina, che ne teneva molti. La sua avversione per i felini fu ereditata in forma acuta dal nipote Napoleone III, afflitto da una fobia conclamata.

Napoleone era anche un avido lettore. Possedeva una biblioteca portatile che lo seguiva nelle campagne militari, e si distingueva per la velocità con cui assimilava contenuti complessi. A Sant’Elena cercò persino di imparare l’inglese, anche se con scarsi risultati. Il suo “inglese” era una miscela surreale di parole francesi e fonetiche anglofone, che l’amica Betsy Balcombe definì “la lingua più strana del mondo”.

Curiosamente, Napoleone dimostrava affetto in modo piuttosto doloroso: pizzicava. Forte, e spesso sulle orecchie. Era una consuetudine familiare corsa, che manteneva in età adulta, lasciando basiti i suoi interlocutori. Nonostante l'indole focosa, disprezzava i duelli: li riteneva un inutile spreco di risorse umane e un ostacolo alla disciplina militare. Non ne proibì formalmente la pratica, ma ne scoraggiò l’uso con decisione.

Sul campo di battaglia, pur non eccellendo con la spada, era un tiratore formidabile, dote che coltivò sin da ragazzo grazie alla passione per la caccia. E se Wellington era uno schermidore elegante, Napoleone compensava con una mira letale e calcolata.

Napoleone era più corso che francese, almeno nello spirito. Parlava con un marcato accento isolano, era sensibile al freddo e prediligeva pasti semplici, da consumare con le mani. Il suo cappotto grigio, indossato con regolarità, era più un’armatura contro il freddo che una scelta estetica.

Sebbene poco religioso, era superstizioso. Evitava il numero 13, temeva il venerdì, ma credeva nei talismani e nella propria “buona stella”. Vedeva in Giuseppina un amuleto vivente, ed esitava a separarsene proprio per timore che la sorte gli voltasse le spalle.

Era un instancabile lavoratore. Dormiva poco, spesso non più di quattro ore per notte. La sua capacità di concentrazione era prodigiosa. Dettava lettere mentre si radeva o mangiava, gestiva più dossier contemporaneamente e non interrompeva mai l’attività mentale, neanche durante lunghi bagni caldi, che usava per leggere e lavorare.

Aveva un olfatto sviluppatissimo. Amava l’acqua di colonia, tanto da usarla in abbondanza e – in alcune occasioni – persino ingerirla. Questo spiega la sua celebre lettera a Giuseppina: “Non lavarti, arrivo!” – una testimonianza del suo impulso olfattivo e della chimica sensuale che li legava. Nonostante i reciproci tradimenti, il loro fu un amore intenso, passionale, autentico.

Astemio non era, ma detestava l’ubriachezza. Beveva poco e solo vino annacquato, convinto che la lucidità mentale fosse il primo dovere di un comandante. La sua grafia, tuttavia, lasciava a desiderare: tanto illeggibile da costringere i segretari a lunghe sessioni interpretative.

Le sue condizioni di salute furono peggiorate dalla sua carriera. Soffriva di disturbi gastrointestinali, emorroidi, forse epilessia, e fu ferito in battaglia più volte di quanto comunemente si creda. Ma sempre cercò di celare la sofferenza, per non apparire vulnerabile. Persino i suoi cavalli pagavano un prezzo altissimo: ne perse più di una dozzina.

Infine, Napoleone è stato una delle figure storiche più trattate dalla letteratura mondiale. Alcuni sostengono che esistano più libri su di lui che giorni trascorsi dalla sua morte. Una leggenda? Forse. Ma certo è che, come pochi altri uomini della storia, Napoleone continua ad affascinare per ciò che ha fatto… e per ciò che era. Un uomo prima ancora che un imperatore.





domenica 3 novembre 2024

Quando la rivoluzione divorò sé stessa: l’anarchia istituzionale e il Terrore nella Francia rivoluzionaria

È uno degli episodi più oscuri della storia moderna, una sequenza di mesi in cui l’ideale di libertà si rovesciò nel suo opposto: repressione, arbitrio, sangue. Il Terrore – così è passato alla storia – fu un prodotto diretto della Rivoluzione francese, ma non fu affatto una sua inevitabile conseguenza. La sua origine affonda piuttosto nel vuoto istituzionale che seguì il crollo della monarchia e nel tentativo fallito di costruire una nuova legittimità senza fondamenti giuridici stabili. Una democrazia senza Costituzione, priva di freni, fu il terreno fertile di una degenerazione rapida e brutale.

Quando nel 1789 il popolo francese prese la Bastiglia e aprì le porte alla fine dell'Ancien Régime, si pensava di entrare in un'era di progresso, giustizia e razionalità. Ma il crollo della monarchia assoluta non fu seguito da un’immediata stabilizzazione dell’ordine repubblicano. Al contrario, tra il 1792 e il 1794, la Francia si trovò sospesa in una pericolosa intercapedine tra due mondi: quello del potere monarchico, ormai screditato e abbattuto, e quello della nuova repubblica, ancora priva di una struttura costituzionale funzionante.

La Costituzione del 1793, adottata ma mai entrata pienamente in vigore, rimase lettera morta. Il potere si accentrò invece nel Comitato di Salute Pubblica, organo esecutivo rivoluzionario che, sotto la guida di Robespierre, Danton e altri giacobini, assunse un'autorità de facto assoluta. La separazione dei poteri venne travolta dalla necessità di “salvare la rivoluzione”, il diritto venne subordinato alla morale rivoluzionaria e il sospetto divenne prova sufficiente per condannare a morte.

In assenza di un sistema giudiziario autonomo e garantista, e senza una carta costituzionale operativa, la Francia scivolò in una democrazia diretta radicalizzata e incontrollabile. In teoria, il potere era nelle mani del “popolo”; in pratica, esso era detenuto da comitati di quartiere, club giacobini e assemblee locali che si arrogavano il diritto di giudicare, condannare e giustiziare. Il principio di legalità – cardine di ogni Stato moderno – venne sospeso. I tribunali rivoluzionari erano poco più che facciate per processi sommari, dove la sentenza era spesso scritta prima ancora dell’accusa.

In molte città e villaggi, gruppi di cittadini, armati di retorica rivoluzionaria più che di prove, organizzavano vere e proprie ronde punitive. I “Comitati di sorveglianza” (o comités de surveillance) avevano il potere di arrestare chiunque fosse sospettato di opinioni controrivoluzionarie. Bastava una parola, un gesto, persino un atteggiamento ambiguo per essere trascinati via. Il processo? Una formalità, spesso saltata del tutto.

La ghigliottina, simbolo sinistro della nuova giustizia egualitaria, veniva montata nelle piazze principali. Ma anche quello era un lusso logistico: il legno, le lame, la manutenzione, i costi di trasporto. Non era raro che i condannati venissero trasportati per chilometri su carri, tra la folla urlante, in un lugubre corteo che ricordava più il sacrificio rituale che l’applicazione della legge. Il carro trainato da cavalli era l’ultimo viaggio del cittadino sospetto, colpevole o innocente che fosse.

Il Terrore non fu solo l’opera dei leader parigini; fu anche una sommossa della paura e del fanatismo che si estese a livello locale. Nelle città della Vandea, nelle province del sud, a Lione, Marsiglia, Bordeaux, esplosero controrivoluzioni spesso represse con ferocia uguale o maggiore. A Nantes, i rivoluzionari ricorsero perfino all’annegamento di massa di sospetti controrivoluzionari nel fiume Loira, un’operazione macabra nota come “le noyades de Nantes”.

Questo clima di caccia all’uomo generalizzata non fu semplicemente “un effetto collaterale” della rivoluzione, ma il risultato diretto della mancanza di un freno istituzionale. La rivoluzione francese tentò di rifondare l’ordine politico non sulla legge, ma sulla volontà generale. Ma quando quest’ultima non è contenuta da strutture giuridiche solide, degenera facilmente in arbitrio. E quando la sovranità popolare diventa strumento di vendetta, la democrazia si trasforma nel suo contrario.

Robespierre stesso, il simbolo della Virtù rivoluzionaria, finì ghigliottinato nel luglio 1794. Il Terrore divorò i suoi artefici, in una spirale autodistruttiva che segnò la fine del periodo più radicale della Rivoluzione.

Fu solo con la Costituzione dell’anno III (1795) che si tentò un ritorno alla legalità costituzionale. Ma ormai il danno era fatto. Il Terrore rimane un monito per ogni democrazia: senza garanzie, senza istituzioni, senza diritto, anche la libertà può diventare uno strumento di oppressione. E anche la voce del popolo, se non incanalata e regolata, può diventare una furia cieca.





sabato 2 novembre 2024

E se Napoleone non avesse venduto la Louisiana? Un bivio dimenticato che avrebbe potuto ridisegnare l’America — e il mondo

È uno dei grandi “e se” della storia: cosa sarebbe accaduto se Napoleone Bonaparte non avesse venduto la Louisiana agli Stati Uniti nel 1803? In quell’anno, per una cifra relativamente modesta – 15 milioni di dollari, all’epoca una somma ragguardevole ma ben inferiore al valore reale della terra coinvolta – la giovane repubblica americana raddoppiava di fatto la propria estensione territoriale, acquisendo una vastissima area che si estendeva dal Mississippi alle Montagne Rocciose. La decisione di Bonaparte, dettata da urgenze geopolitiche e militari, cambiò radicalmente il volto del continente nordamericano. Ma se avesse scelto diversamente, il mondo che conosciamo oggi sarebbe profondamente diverso.

Napoleone vendette la Louisiana non per calcolo espansionistico, ma per necessità: il fallimento della spedizione a Saint-Domingue (oggi Haiti), culminato nella sconfitta francese contro gli schiavi ribelli guidati da Toussaint Louverture e poi da Dessalines, aveva spezzato i sogni imperiali francesi nei Caraibi. Senza la base strategica haitiana, la Louisiana – vasta, remota, difficile da difendere – perdeva valore militare. Inoltre, la guerra imminente con la Gran Bretagna richiedeva fondi liquidi. Da qui, la decisione di cedere il territorio a Thomas Jefferson, che colse l’opportunità con entusiasmo.

Ma se Napoleone avesse resistito alla tentazione di vendere?

Non è difficile immaginare che, in assenza della cessione, la Louisiana sarebbe diventata un bersaglio primario della Royal Navy e dell’espansionismo britannico in Nord America. In effetti, la Francia, priva del controllo dei mari dopo la sconfitta di Trafalgar, non avrebbe potuto difendere il territorio. L'Inghilterra, già padrona del Canada e degli snodi commerciali del Nord Atlantico, avrebbe probabilmente assalito la Louisiana occidentale, trovandovi scarsa resistenza. Questo avrebbe potuto portare a una “canadizzazione” del centro-nord del continente: un enorme territorio anglofono (o anglo-canadese) che si sarebbe esteso dal Labrador al bacino del Mississippi.

Una simile espansione britannica avrebbe bloccato l’espansione americana verso ovest. Senza l'acquisto della Louisiana, il concetto di Manifest Destiny – l’idea secondo cui gli Stati Uniti fossero destinati a occupare l’intero continente – avrebbe avuto vita breve, se mai fosse nato. Il Missouri non sarebbe mai stato uno Stato americano. La corsa all’Ovest si sarebbe scontrata con potenze europee consolidate. Il Texas, in assenza della pressione statunitense, sarebbe probabilmente rimasto un'entità indipendente o avrebbe oscillato tra influenze spagnole, messicane e persino britanniche.

La geopolitica del continente americano sarebbe stata frammentata, forse simile a quella europea: un’America del Nord divisa tra entità linguistiche, culturali e giuridiche diverse. Una Louisiana francofona – magari limitata territorialmente, ma simbolicamente forte – avrebbe potuto sopravvivere come Stato autonomo o colonia de facto. I nativi americani, la cui sorte storica fu segnata dalle ondate di colonizzazione bianca verso ovest, avrebbero forse trovato in questo scenario maggior spazio di manovra. Alleanze con una Louisiana francese o con un Texas indipendente non sarebbero state impossibili. Trattati, enclave autonome, forse persino confederazioni indigene avrebbero avuto più tempo per consolidarsi prima di essere assorbite o annientate.

L'idea di un "super-Canada" ha un fascino logico, ma storicamente complesso. Il Canada, fino alla fine del XIX secolo, era un dominio coloniale britannico frammentato e poco popolato. Un’espansione nella Louisiana francese non l’avrebbe trasformato automaticamente in una superpotenza, ma certamente avrebbe garantito all’Impero britannico un controllo quasi assoluto sull’America del Nord. Gli Stati Uniti, confinati a est del Mississippi, sarebbero rimasti una potenza regionale, forse simile al Brasile imperiale nel XIX secolo, piuttosto che emergere come potenza globale.

Un’America così ridimensionata non avrebbe avuto la stessa forza industriale né la stessa influenza diplomatica nel XX secolo. Senza la conquista dell’Ovest, senza la corsa all’oro californiano, senza il Pacifico come nuovo orizzonte, gli Stati Uniti non sarebbero diventati il “poliziotto del mondo”. La Seconda Guerra Mondiale, la Guerra Fredda, persino lo sbarco sulla Luna – tutto ciò avrebbe preso una piega diversa.

In Europa, un Napoleone che avesse mantenuto la Louisiana avrebbe potuto disporre di una carta negoziale importante nei confronti degli inglesi. Avrebbe potuto usarla come leva diplomatica o tentare di militarizzarla – anche se, come detto, il dominio francese su quelle terre era logisticamente fragile.

In definitiva, la vendita della Louisiana fu un gesto di pragmatismo, ma anche di rinuncia. In quel momento, Bonaparte decise che l’Europa valeva più dell’America, che le sorti del continente si giocavano a Ulm, a Jena, a Wagram – non sulle rive fangose del Missouri. Ma proprio in quel gesto si celava una svolta storica dirompente: rinunciando alla Louisiana, la Francia consegnava al mondo la futura superpotenza americana.

E se l’avesse tenuta, il mondo che conosciamo oggi sarebbe irriconoscibile.





venerdì 1 novembre 2024

L’illusione dell’invincibilità: la disfatta di Napoleone in Russia come tragedia dell’hybris

Quando Napoleone Bonaparte varcò il fiume Niemen con la Grande Armée, al comando di oltre 600.000 uomini, pochi potevano immaginare che quella monumentale impresa militare si sarebbe trasformata in un disastro di proporzioni epiche. Il fallimento della campagna di Russia, troppo spesso riassunto frettolosamente con la frase “fu il freddo a distruggere l’esercito francese”, merita una lettura più complessa, che tenga conto non solo delle condizioni climatiche ma anche delle premesse strategiche, delle convinzioni ideologiche e dell’eccessiva fiducia nelle proprie capacità da parte dell’Imperatore.

Napoleone non “permise” la disfatta; al contrario, la subì come conseguenza diretta della sua stessa grandezza. Per comprendere questa affermazione apparentemente paradossale, bisogna risalire al contesto: un uomo che, sin dalla giovinezza, aveva collezionato una serie quasi ininterrotta di vittorie – da Arcole ad Austerlitz, da Marengo a Jena – si trovava al vertice del potere europeo. La Francia aveva sconfitto coalizioni su coalizioni, i più potenti imperi d’Europa erano stati piegati, umiliati o forzati a scendere a patti. Gli Asburgo avevano firmato il trattato di Schönbrunn, la Prussia si era inginocchiata dopo il disastro di Eylau e Friedland, e persino lo Zar Alessandro aveva aderito alla pace di Tilsit.

Era dunque logico, per Napoleone, ritenere che anche la Russia avrebbe ceduto secondo il medesimo schema: avanzata rapida, scontro decisivo, caduta della capitale simbolica (Mosca), firma della pace. Il problema, tuttavia, è che i russi avevano imparato la lezione. Non accettarono la battaglia nei termini imposti da Napoleone. Bruciarono le risorse, abbandonarono le città, si ritirarono nell’immensità delle loro terre, e lasciarono che fosse la geografia – oltre che la guerra – a logorare l’invasore. Kutuzov, comandante dell’esercito russo, comprese che non serviva vincere Napoleone sul campo: bastava non perdere, e lasciarlo logorare sé stesso.

In altre parole, fu lo stesso schema che, un secolo dopo, avrebbe affondato un altro impero europeo nella steppa: una guerra di logoramento, senza vittorie decisive, dove le linee di rifornimento si allungano, i soldati muoiono più di fame e di freddo che per mano nemica, e la distanza diventa un nemico più feroce delle armate zariste.

La battaglia di Borodino, sanguinosa ma inconcludente, aprì la strada a Mosca. Ma una volta giunto nella capitale – svuotata e data alle fiamme dagli stessi russi – Napoleone si trovò privo del premio atteso: né un trattato, né una resa, solo rovine. Rimase per settimane nella città in attesa di una risposta diplomatica che non arrivò mai. Quando infine ordinò la ritirata, era troppo tardi. Le provviste erano esaurite, i cavalli morivano, le truppe erano decimate dalle malattie e dal gelo. Dei 600.000 uomini che avevano varcato il Niemen, ne tornarono in Francia meno di 100.000.

Chi parla di "errore di calcolo", dunque, ha in parte ragione. Ma non si trattò di un semplice sbaglio logistico, bensì di una forma più insidiosa di autoinganno: Napoleone, nella sua grandezza, finì col credere alla narrazione della propria infallibilità. La propaganda imperiale – che lo aveva trasformato da generale a divinità laica – finì col influenzare anche lui. Quando si combattono e si vincono guerre per oltre un decennio contro le maggiori potenze continentali, è facile convincersi che la vittoria sia inevitabile.

A questa hybris – la tracotanza dell’uomo che sfida i limiti imposti dalla realtà – si aggiungeva un ulteriore fattore: la mancanza di una visione strategica globale. Se sul campo di battaglia Napoleone eccelleva con colpi di genio tattico, nei rapporti internazionali il suo approccio era spesso rigido, autoritario, incapace di conciliazione. Anziché integrare gli Stati vinti in un sistema duraturo, li schiacciava sotto un controllo oppressivo, fomentando risentimento e ribellione. L’Inghilterra, irriducibile nemico, restava fuori dalla sua portata; la Spagna, consumata da una guerra di guerriglia feroce; l’Europa centrale, dominata ma ostile.

La Russia fu solo il detonatore. Il tracollo seguente – la sesta e poi la settima coalizione, Lipsia, Waterloo – era già scritto nella struttura imperiale creata da Napoleone. Una struttura brillante ma fragile, in cui la fedeltà era garantita dalla paura o dalla forza, non dal consenso.

Oggi, gli storici riconoscono in Napoleone uno dei più grandi militari della storia. Ma al tempo stesso, iniziano a emergere con chiarezza i limiti di quella grandezza: la difficoltà nel distinguere il potere dalla saggezza, la vittoria dalla pace, la gloria dall’equilibrio. Il genio militare e il fallimento strategico non sono opposti, ma due facce dello stesso uomo.

Ed è forse proprio in questo che risiede la sua eredità più ambigua: nel ricordarci che anche i più grandi possono cadere, non per mano di un nemico, ma per eccesso di fiducia nei propri mezzi. Non fu il freddo a sconfiggere Napoleone, ma la convinzione che nulla potesse sconfiggerlo.



giovedì 31 ottobre 2024

Napoleone III: il nipote che riportò in vita l’Impero

La storia della dinastia Bonaparte non finì con la caduta di Napoleone I a Waterloo. Anzi, mezzo secolo dopo, un altro imperatore con lo stesso nome salì al potere in Francia: Napoleone III. Ma chi era esattamente? E come era legato al grande Napoleone?

Napoleone Bonaparte (1769–1821), fondatore del Primo Impero francese, ebbe un solo figlio legittimo: Napoleone II (1811–1832), nato dal matrimonio con Maria Luisa d’Austria.

Un "regno" di due settimane: Dopo la sconfitta di Waterloo (1815), Napoleone I abdicò in favore del figlio, che tecnicamente divenne "Napoleone II". Ma il bambino, allora aveva solo quattro anni, non regnò mai: i Borboni ripresero il potere, e lui visse in esilio in Austria, morendo giovane di tubercolosi.

Con la morte di Napoleone II nel 1832, il movimento bonapartista cercò un nuovo leader. Lo trovò in Carlo Luigi Napoleone Bonaparte (1808–1873), figlio di Luigi Bonaparte, fratello minore di Napoleone I.

Un passato da esule e cospiratore: Dopo il crollo dell’Impero, la famiglia Bonaparte fu bandita dalla Francia. Luigi Napoleone crebbe tra Svizzera e Italia, sognando di emulare lo zio.

Due tentativi falliti di golpe: Nel 1836 e 1840 provò a rovesciare la monarchia, finendo in prigione. Fuggì nel 1846, rifugiandosi in Inghilterra.

La Rivoluzione del 1848 gli diede una chance:

Eletto presidente della Seconda Repubblica (1848), sfruttò la nostalgia per Napoleone I.

Colpo di Stato del 1851: Sciolse l’Assemblea Nazionale e si autoproclamò imperatore nel 1852, fondando il Secondo Impero Francese.

Napoleone III fu molto diverso dallo zio:

Politica interna: Modernizzò la Francia con ferrovie, banche e la ristrutturazione di Parigi (grazie al barone Haussmann).

Politica estera: Ambiziosa ma disastrosa. Vittorie in Crimea e in Italia (alleato con Cavour contro l’Austria), ma la disfatta contro la Prussia nel 1870 (battaglia di Sedan) pose fine al suo regno.

Dopo Sedan, la Francia proclamò la Terza Repubblica. Napoleone III, catturato dai prussiani, andò in esilio in Inghilterra, dove morì nel 1873. Suo figlio, Luigi Napoleone, morì combattendo per i britannici in Africa (1879), chiudendo per sempre la saga imperiale.

Perché Napoleone III riuscì dove Napoleone II fallì?

Carisma e opportunismo: Se Napoleone II fu una pedina della storia, il cugino seppe sfruttare il mito del grande zio.

Un’epoca diversa: La Francia post-1848 era instabile, e molti vedevano in lui un garante di stabilità.


Curiosità

L’ultimo monarca francese: Napoleone III fu l’ultimo sovrano a regnare sulla Francia. Dopo di lui, solo repubbliche.

Un’eredità duratura: Nonostante la sconfitta, il Secondo Impero trasformò la Francia in una potenza industriale.

Insomma, se Napoleone I fu un genio militare, Napoleone III fu un abile politico, dimostrando che il nome "Bonaparte" aveva ancora potere. Ma la storia, alla fine, premiò la democrazia.




mercoledì 30 ottobre 2024

Il destino dell'esercito napoleonico dopo Waterloo: scioglimento e restaurazione borbonica

Dopo la sconfitta di Waterloo (18 giugno 1815), l’esercito di Napoleone cessò di esistere come forza organizzata. Con l’abdicazione dell’imperatore e il ritorno di Luigi XVIII al potere, i vincitori—soprattutto gli inglesi e i prussiani—si assicurarono che la Francia rivoluzionaria e napoleonica non potesse più minacciare l’Europa.


Lo scioglimento dell’esercito imperiale

Smobilitazione forzata: Luigi XVIII, appoggiato dalle potenze della Settima Coalizione, sciolse l’esercito napoleonico per evitare nuovi colpi di stato.

Epurazione dei bonapartisti: I generali fedeli a Napoleone furono esiliati, processati o costretti al ritiro. Alcuni, come Ney, furono giustiziati per tradimento.

Integrazione dei soldati: I veterani furono in parte assorbiti nel nuovo esercito reale borbonico, ma molti finirono disoccupati o emarginati.


L’occupazione alleata e il controllo militare

Il Duca di Wellington supervisionò l’occupazione della Francia (1815-1818), garantendo che non sorgessero nuove insurrezioni.

Taglio delle forze armate: La Francia fu costretta a ridurre il suo esercito a soli 150.000 uomini, con severe restrizioni sulle armi e le fortificazioni.

Risarcimenti di guerra: Il governo francese dovette pagare 700 milioni di franchi alle potenze vincitrici.


Luigi XVIII, consapevole di dovere il trono agli alleati, cercò di ripulire l’esercito da ogni influenza rivoluzionaria:

Ritorno dei nobili emigrati: Ufficiali aristocratici esiliati durante la Rivoluzione furono reintegrati, causando tensioni con i veterani napoleonici.

Nuova guardia reale: Creò unità fedeli alla monarchia, ma l’esercito rimase debole e diviso.


Wellington, pur essendo cruciale per la restaurazione borbonica, disprezzava il re: lo considerava un inetto fisicamente decadente (sofferente di gotta e obesità), soprannominandolo con sarcasmo "Oyster Louis" ("Luigi Ostrica") per la sua passività.


Dopo Waterloo, l’esercito napoleonico scomparve come istituzione, e la Francia tornò a essere una monarchia controllata dalle potenze straniere. Tuttavia, il mito di Napoleone e il malcontento verso i Borboni portarono, pochi anni dopo, a nuove rivolte—fino alla Rivoluzione del 1830 che spazzò via per sempre la dinastia restaurata.

Lo stesso esercito borbonico, purgato dai napoleonici, si rivoltò nel 1830 in nome della gloria imperiale, dimostrando che l’eredità di Waterloo era più duratura del trono di Luigi XVIII.




martedì 29 ottobre 2024

Alessandro I come generale a Borodino: avrebbe potuto sconfiggere Napoleone?

La battaglia di Borodino (7 settembre 1812) è spesso considerata uno dei più sanguinosi scontri delle guerre napoleoniche, un confronto brutale che lasciò entrambi gli eserciti stremati. Ma cosa sarebbe successo se lo zar Alessandro I, invece di affidare il comando al generale Michail Kutuzov, avesse guidato personalmente le truppe russe? Avrebbe potuto infliggere una sconfitta decisiva a Napoleone?

Alessandro I, pur essendo un sovrano coinvolto nelle questioni militari, non era un comandante esperto come Kutuzov o Barclay de Tolly. La sua unica diretta esperienza in battaglia risaliva ad Austerlitz (1805), dove la sua presenza—insieme a quella dello zar Francesco II d’Austria—contribuì alla disastrosa sconfitta della coalizione. Se avesse preso il comando a Borodino, avrebbe probabilmente ripetuto errori simili: troppa fiducia in attacchi frontali e poca attenzione alla logistica e alla ritirata strategica, elementi che invece Kutuzov gestì con pragmatismo.

Napoleone, nonostante la sua fama, commise gravi errori a Borodino:

Nessuna manovra avvolgente: invece di aggirare le difese russe, lanciò attacchi frontali contro la Grande Ridotta, subendo perdite catastrofiche.

La Guardia Imperiale tenuta in riserva: un’unità d’élite che avrebbe potuto sfondare le linee russe, ma che Napoleone conservò inutilmente.

Stanchezza e indecisione: alcuni storici ipotizzano che soffrisse di problemi di salute (calcoli renali o emorroidi), ma ciò non giustifica la mancanza di audacia tattica.

Se Alessandro avesse avuto l’esperienza di un generale veterano, avrebbe potuto sfruttare questi errori? Forse, ma è improbabile. Anche con un comando più aggressivo, i russi non avevano la superiorità numerica per annientare la Grande Armata.

Le cifre parlano chiaro:

Francia: ~35.000 perdite (su 130.000 uomini).

Russia: ~52.000 perdite (su 120.000 uomini).

Napoleone tenne il campo, ma i russi si ritirarono in ordine, mantenendo intatto il grosso dell’esercito. Questo permise a Kutuzov di sacrificare Mosca per logorare i francesi, portando alla catastrofica ritirata del 1812.

Anche con più esperienza, Alessandro I difficilmente avrebbe ottenuto una vittoria decisiva. Borodino fu uno scontro di logoramento, non una battaglia di annientamento come Austerlitz o Jena. La vera sconfitta di Napoleone arrivò dopo, con la strategia della terra bruciata e l’inverno russo—elementi che nessun generale, nemmeno uno zar più esperto, avrebbe potuto controllare meglio di Kutuzov.

Napoleone perse la campagna di Russia non per un singolo errore a Borodino, ma per aver sottovalutato la resistenza russa. E se c’è una lezione che la storia ci ha insegnato, è che nessun imperatore o generale, per quanto brillante, può vincere contro un intero popolo deciso a resistere.