Nel cortile del castello di Fontainebleau, alle prime luci del 20 aprile 1814, si consumò uno degli atti più solenni, struggenti e teatrali della storia moderna: l’addio di Napoleone Bonaparte alla Guardia Imperiale. Non fu solo la conclusione di un’epoca, ma la trasfigurazione pubblica di un impero che, nato tra i clamori rivoluzionari, finiva nel silenzio composto della sconfitta.
Fontainebleau, sede abituale della monarchia francese fin dai tempi dei Valois, era diventata per Napoleone un luogo di ritiro e comando, di strategia e rappresentanza. Ma in quel giorno, il palazzo assunse un significato radicalmente diverso: da centro del potere a scenario del congedo. Dopo l’abdicazione firmata il 6 aprile 1814 e il rifiuto dei suoi generali di seguirlo in un’ultima e disperata resistenza, Napoleone si preparava all’esilio nell’isola d’Elba, concessagli dai vincitori della Sesta Coalizione come una sorta di trono in miniatura, malinconico simulacro di gloria passata.
L’evento si svolse davanti a una formazione scelta della Vecchia Guardia. Gli uomini che avevano seguito l’Imperatore da Austerlitz a Mosca, che lo avevano protetto nei deserti d’Egitto e tra le nevi della Beresina, erano lì, schierati, in silenzio. Napoleone, in divisa semplice, visibilmente provato nel fisico e nel volto, si avvicinò a loro con passo incerto ma dignitoso. Le cronache dell’epoca – dai memoriali militari alle testimonianze degli ufficiali – concordano su un elemento: la carica emotiva fu insostenibile.
«Addio, miei figli», disse, toccandosi il cuore. «Vorrei stringervi tutti al petto, ma abbraccerò il vostro generale per tutti voi». E abbracciò il generale Petit, che gli porgeva le mani tremanti. Poi baciò il vessillo imperiale. Era il gesto di un uomo che sapeva di entrare nella leggenda.
La potenza di quella scena va ben oltre la pura commozione. Gli addii di Fontainebleau furono l’atto finale di una narrazione che Napoleone aveva costruito con perizia: quella del condottiero solitario, tradito dai re, ingannato dai potenti, ma ancora amato dai suoi soldati. In quella partenza senza trionfo, l’Imperatore suggellava la propria leggenda come uomo del destino, nonostante la sconfitta. Era un abbandono simbolico, ma anche una promessa di ritorno, mantenuta meno di un anno dopo con lo sbarco a Golfe-Juan e l’inizio dell’epopea dei Cento Giorni.
Ma in quel 20 aprile, prima della resurrezione politica, ciò che colpiva era la dimensione profondamente umana dell’evento. La grandeur imperiale lasciava il posto a un’intimità lacerante. Napoleone, l’uomo che aveva riscritto le mappe d’Europa, che aveva fatto e disfatto monarchie, si ritrovava solo, disarmato, a salutare i pochi fedeli rimasti. Non c’erano più tamburi di vittoria, né proclami. Solo sguardi, lacrime trattenute, e il peso del tempo che cambia volto al potere.
Fontainebleau, in quel giorno, fu anche il luogo della riconciliazione tra il mito e la storia. Il mito dell’eroe invincibile si piegava alla realtà della sconfitta, ma ne usciva, paradossalmente, rafforzato. L’immagine dell’Imperatore che bacia il suo stendardo e monta in carrozza verso l’esilio è diventata uno dei frammenti più potenti della memoria europea, immortalata da pittori, scrittori e cronisti come uno spartiacque tra epoche.
Non si trattò solo di un addio militare. Fu un passaggio epocale. Il XIX secolo stava per cominciare davvero: quello delle restaurazioni, dei moti nazionali, delle Costituzioni e dei compromessi. Ma prima che la Storia potesse riprendere il suo corso, dovette fermarsi, inchinarsi e assistere, per un momento, alla caduta di colui che l’aveva dominata con una forza mai più eguagliata.
Gli addii di Fontainebleau non furono la fine di Napoleone, né la fine del suo sogno. Furono la consacrazione di una figura che, pur abbandonando il trono, entrava definitivamente nella dimensione dell’epico. E da lì, non sarebbe più uscito.
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