domenica 15 dicembre 2024

I Tre Consoli e l'Alba di un Nuovo Potere: Il Giuramento dei Presidenti nella Francia Post-Rivoluzionaria


Parigi, 26 dicembre 1799 — Nella solenne cornice del Palazzo del Lussemburgo, oggi cuore nevralgico del nuovo governo francese, si è consumato un evento destinato a segnare un profondo spartiacque nella storia della Repubblica. I tre consoli, Bonaparte, Cambacérès e Lebrun, hanno ricevuto il giuramento dei presidenti delle nuove sezioni governative, suggellando ufficialmente l’assetto politico emerso dal colpo di Stato del 18 brumaio (9 novembre 1799). Un momento denso di significato istituzionale, ma anche carico di simbolismo, che rappresenta il passaggio definitivo dalla caotica stagione rivoluzionaria a una nuova forma di ordine repubblicano, centralizzato e tecnocratico.

Il Consolato nasce dalle ceneri del Direttorio, il regime che, tra il 1795 e il 1799, tentò invano di mantenere la stabilità in un Paese dilaniato da guerre, carestie e instabilità politica. Il colpo di Stato guidato dal generale Napoleone Bonaparte — all'epoca ancora acclamato come "salvatore della patria" per le sue campagne in Italia ed Egitto — ha portato all’instaurazione di una nuova Costituzione (quella dell’anno VIII), la quale ha trasferito il potere esecutivo a tre consoli: il Primo Console, Napoleone stesso, figura dominante del triumvirato; il secondo console, Jean-Jacques-Régis de Cambacérès, giurista raffinato e moderato repubblicano; e il terzo console, Charles-François Lebrun, intellettuale e amministratore esperto, già collaboratore di Malesherbes e sostenitore delle riforme tardo-monarchiche.

Il giuramento dei presidenti delle sezioni amministrative — Consiglio di Stato, Tribunat, Corpo Legislativo e Senato conservatore — rappresenta dunque l’atto formale di adesione delle nuove istituzioni alla guida del Consolato, ponendo fine alle ambiguità e alle resistenze residue nei ranghi politici ancora legati al passato giacobino o termidoriano.

La cerimonia si è svolta in modo ordinato, severo, senza la pompa monarchica ma nemmeno con l’ostentata frugalità rivoluzionaria. Alle ore dieci del mattino, i tre consoli sono apparsi nella grande sala del Consiglio di Stato, vestiti in abiti cerimoniali sobri ma eleganti. Bonaparte, come sempre, ha attirato su di sé ogni sguardo. Il volto severo, quasi marmoreo, non ha mai lasciato trapelare emozione; l’unico movimento frequente era quello delle mani, che serrava dietro la schiena con la tipica impazienza del comandante abituato a dare ordini più che a riceverli.

Il primo a prestare giuramento è stato Pierre Daunou, uno dei redattori della nuova Costituzione, ora incaricato di presiedere il Tribunato. La formula è stata pronunciata con voce ferma: “Giuro fedeltà alla Repubblica, obbedienza alla Costituzione e rispetto per l’autorità dei Consoli.” A seguire, ciascun presidente ha replicato le parole, ponendo la mano destra sul testo della Costituzione dell’anno VIII.

Il silenzio nella sala era assoluto. Ogni parola, ogni inflessione, risuonava come un impegno irrevocabile verso il futuro della nazione. La retorica rivoluzionaria, un tempo intrisa di fervore ideologico, ha lasciato il posto a un linguaggio giuridico, amministrativo, quasi tecnico. Non più “virtù” e “terrore”, ma “ordine”, “efficienza”, “stabilità”. La rivoluzione, pare, ha finalmente trovato un linguaggio che le consenta di sopravvivere alla propria foga distruttiva.

Sebbene formalmente alla pari con Cambacérès e Lebrun, è chiaro a tutti che Bonaparte sia già molto più che un Primo Console. I documenti sono redatti secondo la sua volontà, i decreti portano il suo stile diretto e decisionista, le nomine rispecchiano le sue strategie. I due consoli che lo accompagnano, pur autorevoli e rispettati, appaiono più come consiglieri scelti che non come pari. Cambacérès, con il suo aplomb giuridico e la profonda conoscenza del diritto romano, svolge un ruolo essenziale nella definizione normativa del regime. Lebrun, d’altra parte, fornisce il trait-d’union con il passato monarchico e l’amministrazione pre-rivoluzionaria, rassicurando le classi proprietarie ancora incerte.

Ma è Bonaparte, e solo lui, a irradiare potere. Durante la cerimonia, ha parlato poco, ma ogni sguardo rivolto a lui dai presidenti testimoniava una reverenza che andava oltre il rispetto costituzionale. Più che un amministratore, più che un legislatore, egli appare come il garante della sopravvivenza della Repubblica stessa. Una figura mitica, per certi versi. Il generale che aveva vinto le armate d’Austria e d’Egitto, che aveva domato l’anarchia parigina senza spargimenti di sangue, ora guida la nazione con mano ferma, ma senza (ancora) la corona.

Molti osservatori stranieri, e alcuni attenti intellettuali francesi, cominciano già a domandarsi se questo nuovo Consolato non sia altro che una monarchia mascherata. Il potere concentrato nelle mani di un solo uomo, la subordinazione delle camere legislative, il controllo della stampa, la riorganizzazione delle amministrazioni locali su base nominativa anziché elettiva: tutti segnali che, presi insieme, delineano una progressiva verticalizzazione del potere. Eppure, per ora, tutto ciò appare funzionale alla ricostruzione del Paese.

Dopo anni di disordine, dopo il Terrore e le guerre civili, dopo la bancarotta e l’insicurezza costante, la Francia sembra disposta a sacrificare parte della sua libertà per ottenere stabilità. “Meglio un padrone che il caos,” ha dichiarato un mercante della Rue Saint-Honoré, sintetizzando in una frase il sentimento diffuso tra le classi produttive e borghesi.

I presidenti che hanno giurato fedeltà oggi rappresentano, almeno sulla carta, le garanzie della legalità costituzionale. Il Tribunato discute le leggi, il Corpo Legislativo le approva, il Senato ne garantisce la conformità ai principi costituzionali. Ma è il Consiglio di Stato — presieduto direttamente da Bonaparte — a elaborare i testi legislativi, in un meccanismo che rafforza ulteriormente l'esecutivo.

Gli uomini scelti per queste cariche sono perlopiù moderati, repubblicani tiepidi, tecnocrati illuminati. Sono stati selezionati più per la loro competenza che per la loro adesione ideologica a una linea politica. In questo, il Consolato mostra una fisionomia nuova: una repubblica di funzionari, piuttosto che una repubblica di tribuni.

La Francia del Consolato, così com’è emersa dalla cerimonia di giuramento, si presenta come una Repubblica riformata e centralizzata, ma ancora ufficialmente fedele ai princìpi del 1789. Non si proclama la monarchia, non si parla di impero, eppure lo spettro del potere personale aleggia, visibile ma ancora tacito.

Nessuno oggi, tra i presidenti che hanno giurato, può davvero sapere se il futuro riserverà nuove libertà o un nuovo trono. Ma in questa giornata storica, in cui il destino della Repubblica si è fuso con la volontà di un solo uomo, la Francia ha compiuto un passo decisivo. Non verso il passato, non ancora verso l’autocrazia, ma certamente verso una nuova concezione del potere: non più espressione delle piazze, ma strumento dell’efficienza.

Il giuramento dei presidenti davanti ai tre consoli non è solo una formalità: è l’atto di nascita di un’epoca in cui il governo sarà più tecnico che politico, più stabile che rappresentativo, più pragmatico che ideologico. Un'epoca che porta già un nome: l'era bonapartista.



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