lunedì 21 ottobre 2024

Perché Napoleone divide ancora: la leggenda di Bonaparte tra orgoglio francese e rancore britannico

Duecento anni dopo la sua caduta, Napoleone Bonaparte rimane una figura che accende gli animi e divide le opinioni, specialmente lungo la Manica. Se per molti francesi egli incarna ancora oggi l’ideale del genio politico e militare capace di risollevare una nazione prostrata dalla Rivoluzione, per gli inglesi resta, con poche eccezioni, un tiranno megalomane, un despota bellicoso che minacciò l'equilibrio europeo per puro capriccio personale. A dividere le due sponde non è solo la storia, ma il modo in cui essa viene raccontata, interpretata e tramandata.

In Francia, il nome di Napoleone suscita ancora un misto di rispetto e nostalgia. A partire dal Codice Civile — che continua a influenzare i sistemi giuridici in tutto il mondo — fino alla riorganizzazione dell’amministrazione pubblica, delle scuole e dell’esercito, Bonaparte è percepito come l’uomo che diede ordine al caos post-rivoluzionario. Dopo anni di ghigliottine, instabilità politica e corruzione dilagante, il suo arrivo al potere fu accolto da molti come una restaurazione dell'autorità e della razionalità. Per questo, molti francesi sono disposti a perdonargli — o almeno a comprendere — le guerre interminabili e le ambizioni imperiali. Vederlo come un "dittatore" appare riduttivo; più spesso viene descritto come un "riformatore con la spada", un Cesare moderno con un senso missionario della storia.

Dall'altra parte del Canale, il giudizio è ben diverso. Per la Gran Bretagna, Napoleone fu il nemico per antonomasia: un despota straniero che tenne il continente sotto scacco, sfidò ogni coalizione che Londra cercava di costruire e per anni minacciò l’invasione delle isole britanniche. La Royal Navy poté cantare vittoria a Trafalgar, ma ci vollero vent’anni e sette coalizioni prima che Wellington potesse trionfare a Waterloo. È comprensibile, quindi, che la memoria collettiva inglese abbia trasformato Bonaparte in un incubo storico: il simbolo dell’ambizione sfrenata che mette a rischio la civiltà stessa.

A complicare la faccenda, vi è anche il personaggio stesso: carismatico, brillante, instancabile, ma anche incapace di mettere un freno alle proprie ossessioni. Le guerre napoleoniche non furono inevitabili, e molti storici concordano oggi che Bonaparte fallì nel comprendere le dinamiche geopolitiche a lungo termine. Spinto dal desiderio di dominare e forse, come suggeriscono alcune fonti, anche da un senso patologico di grandezza, Napoleone si alienò ogni possibile alleato. Le sue stesse trattative di pace furono spesso minate da un entourage instabile, in particolare dal suo abile ma ambiguo ministro degli Esteri, Charles-Maurice de Talleyrand. A quest’ultimo la storia attribuisce tanto il merito di aver salvato la Francia dopo la caduta dell’Imperatore quanto la colpa di averne sabotato le ambizioni.

Eppure, nonostante le sconfitte, la figura di Napoleone continua a esercitare un fascino innegabile. Non è un caso che venga talvolta paragonato agli eroi del cinema moderno — qualcuno ha ironicamente suggerito che l’universo cinematografico Marvel impallidisce davanti alla complessità e all’epicità della sua epopea. Dalla Corsica al trono imperiale, da Austerlitz a Elba, fino al tragico epilogo di Sant’Elena, la parabola napoleonica conserva tutti gli elementi del grande dramma: ascesa, gloria, caduta.

Per gli inglesi, tuttavia, ogni parentesi di ammirazione è velata di diffidenza. Anche quando ne riconoscono il genio militare, tendono a sottolineare che la vera vittoria non fu quella di Austerlitz, ma la loro: una vittoria morale, culturale, strategica. Quando perdono, gli inglesi — si dice — lo fanno sempre con stile, ma quando vincono, rivendicano anche la lezione di civiltà. Ed è proprio questo uno dei punti cardine del confronto: Napoleone, per la mentalità britannica del tempo e forse anche di oggi, rappresentava un pericolo non tanto militare quanto culturale. La sua visione del potere, accentratore e autoritario, era l’antitesi del parlamentarismo inglese e delle libertà consolidate a Westminster.

In ultima analisi, le divergenze su Napoleone non sono solo un fatto di storia, ma di identità nazionale. Per la Francia, egli incarna il genio incompreso, il sovrano legislatore, il patriota. Per la Gran Bretagna, resta l’archetipo dell’usurpatore, del tiranno brillante ma autodistruttivo. Due visioni inconciliabili che, pur affondando le radici nel passato, continuano a plasmare il modo in cui i due popoli leggono la propria storia — e forse anche il proprio futuro.

Napoleone è morto da secoli. Ma la battaglia per la sua memoria è tutt’altro che finita.



domenica 20 ottobre 2024

Quando finì l’era delle uniformi napoleoniche? Il lento tramonto del colore sul campo di battaglia

 

Per oltre un secolo, l’immagine del soldato europeo fu dominata da uniformi vivaci: giubbe scarlatte, pantaloni blu, galloni dorati e copricapi elaborati. Questi abiti sgargianti — eredi diretti delle uniformi napoleoniche — erano simboli di disciplina, orgoglio nazionale e visibilità in battaglia. Ma con l’avvento della guerra moderna, la moda militare fu costretta a sottomettersi alla logica crudele della sopravvivenza. Quando, quindi, la maggior parte dei paesi abbandonò definitivamente lo stile napoleonico? La risposta breve: tra il 1914 e il 1916, nel cuore della Prima Guerra Mondiale.

Quando l’Europa piombò nel conflitto nell’agosto 1914, molti eserciti indossavano ancora uniformi che poco si distinguevano da quelle viste a Waterloo un secolo prima. La Francia è l’esempio più emblematico. L’esercito repubblicano marciava verso la frontiera con l’entusiasmo patriottico dei pantaloni rossi carminio (“les pantalons rouges”) e dei kepì vermigli, simboli della fierezza nazionale. I pantaloni rossi erano “la Francia stessa”, affermava il ministro della guerra Adolphe Messimy nel 1911, opponendosi con forza alle proposte di uniformi più mimetiche. Una scelta tragica.

Nelle prime settimane del conflitto, le truppe francesi furono falciate a migliaia dalle mitragliatrici tedesche Maxim e dai fucili Mauser 98. Le uniformi vistose, perfette per essere identificate dagli ufficiali sul campo nell’epoca delle manovre lineari, si rivelarono disastrose sotto il fuoco incrociato delle armi automatiche. Come disse un osservatore britannico:

"Sembrava di sparare su bersagli da tiro vestiti per una parata."

La Gran Bretagna, pur più pragmatica, aveva comunque ereditato un certo gusto per il colore dai suoi reggimenti coloniali. Ma già prima della guerra aveva adottato il khaki, introdotto con successo durante le guerre boere, e dimostratosi molto più adatto alla guerra moderna.

Le perdite insostenibili e il fallimento delle offensive condussero a un rapido mutamento. Nel 1915, l’esercito francese introdusse la famosa "uniforme horizon blue", una tinta grigio-azzurra che si fondeva meglio con la nebbia e il fango delle trincee. I copricapi rigidi furono progressivamente sostituiti con elmetti d’acciaio, come l’Adrian, il primo elmetto moderno introdotto su larga scala.

Anche la Germania, che nel 1914 vestiva ancora tuniche blu scuro per alcuni corpi, virò rapidamente verso il feldgrau, un grigio-verde smorzato che divenne lo standard fino alla fine della Seconda guerra mondiale. Altri eserciti seguirono, come quelli dell’Austria-Ungheria, dell’Italia (che nel 1915 adottò il grigioverde) e della Russia imperiale, che introdusse il kaki chiaro.

La lentezza con cui gli eserciti abbandonarono le divise colorate è dovuta a più fattori:

  • Orgoglio nazionale e conservatorismo: le uniformi erano simboli culturali, e cambiarle era percepito come un atto di rinuncia.

  • Tradizione militare: gli ufficiali veterani delle guerre coloniali avevano difficoltà ad adattarsi alla nuova dimensione industriale del conflitto.

  • Psicologia della guerra: la visibilità serviva anche a mantenere il morale e la coesione delle truppe, specie in battaglie confuse.

La Seconda Guerra Mondiale vide eserciti completamente uniformati secondo criteri funzionali e mimetici. Il camouflage diventò la norma, i colori accesi sparirono del tutto, e le uniformi si fusero con l’ambiente piuttosto che spiccare su di esso. I soldati francesi del 1940 non indossavano più pantaloni rossi né kepì: portavano caschi d’acciaio, tuniche grigioverdi e fucili semiautomatici. Ma tutto questo non bastò: la disfatta fu causata più dalla tattica tedesca e dai limiti strategici francesi che dall’abbigliamento.

L’epoca delle uniformi napoleoniche terminò realmente nelle trincee della Prima Guerra Mondiale. Non fu la Seconda guerra mondiale a sancirne la fine, ma piuttosto le mitragliatrici, il filo spinato e l’artiglieria del 1914–1918. Il rosso, il blu acceso e l’oro cedettero il passo al grigio, al verde oliva e al marrone: la sobrietà prese il posto dell’ornamento, e la sopravvivenza prevalse sulla gloria estetica.

Oggi, le uniformi moderne continuano a evolversi, ma la lezione appresa nel fango della Somme e di Verdun rimane scolpita nella memoria collettiva delle forze armate di tutto il mondo.



sabato 19 ottobre 2024

Chi fu il vero maestro degli assedi: Napoleone o Wellington?

Quando si parla di strategia e grandezza militare nel lungo XIX secolo, i nomi di Napoleone Bonaparte e del Duca di Wellington (Arthur Wellesley) emergono con forza quasi mitologica. Due menti geniali del campo di battaglia, due stili opposti: l’uno fulmineo, ardito, quasi impulsivo; l’altro metodico, calcolatore, implacabile. Ma se restringiamo il campo al difficile terreno della guerra d’assedio, la bilancia pende chiaramente a favore del comandante britannico.

Napoleone fu un maestro del movimento, un artista della manovra. Il suo genio brillava nelle battaglie campali, dove poteva orchestrare marce forzate, aggiramenti improvvisi e colpi di mano che lasciavano gli avversari disorientati. Ma quando si trattava di guerre d’assedio — lente, logoranti, legate più all’ingegneria e alla tenacia che all’intuizione — la sua impazienza lo tradiva.

Lo dimostra uno dei primi fallimenti della sua carriera: l’assedio di Acri nel 1799, durante la campagna d’Egitto e Siria. Napoleone, ancora giovane generale della Repubblica francese, si lanciò all’assalto della città ottomana con foga, ma senza adeguata preparazione logistica né artiglieria d’assedio sufficiente. Il piccolo contingente britannico guidato da Sir Sidney Smith aiutò i difensori ottomani a respingere i francesi, e Napoleone, frustrato, fu costretto al ritiro dopo settimane di assedi infruttuosi e pesanti perdite. Egli stesso avrebbe poi affermato:

“Se non fosse stato per quel maledetto forte, avrei conquistato tutto il Medio Oriente!”

Durante il resto della sua carriera, Napoleone evitò per quanto possibile lunghi assedi, preferendo invece manovrare i nemici in campo aperto. Anche a Danzica, Mantova o Saragozza, il suo coinvolgimento fu spesso marginale, delegato a generali di fiducia, proprio perché la guerra d’assedio non si conciliava con la sua visione di guerra rapida e decisiva.

Il Duca di Wellington, al contrario, si distinse proprio nella Peninsular War (1808–1814) per la sua abilità nel condurre assedi metodici, pur se spesso sanguinosi. In Spagna e Portogallo, la guerra contro le truppe napoleoniche richiese una strategia di logoramento, e Wellington rispose con una combinazione di disciplina ferrea, meticolosa pianificazione ingegneristica e un uso accorto delle risorse.

Tra i suoi assedi più noti figura Badajoz (1812), un’operazione lunga e costosa, culminata in un assalto finale che costò la vita a migliaia di soldati britannici. L’immagine di Wellington che piange tra i corpi dei suoi uomini ha attraversato la storia come simbolo del dolore personale del comandante davanti al prezzo della vittoria. Nonostante le perdite, la presa di Badajoz fu decisiva per aprire la strada verso Madrid e minare la posizione francese in Iberia.

Anche negli assedi di Ciudad Rodrigo, San Sebastián e Burgos, Wellington mostrò padronanza di tempi e strumenti bellici, adattando la tradizione dell’assedio francese del XVIII secolo a un teatro bellico nuovo, fatto di colline, guerriglia e logistica estrema.

In definitiva, i due generali rappresentano approcci opposti alla guerra:

  • Napoleone puntava sull’offensiva rapida, sull’effetto shock, sulla sorpresa strategica. Gli assedi erano una parentesi indesiderata, un freno alla sua concezione “totale” della battaglia.

  • Wellington, invece, eccelleva nella tenacia, nell’organizzazione, nella capacità di piegare il nemico lentamente, anche a costo di sacrifici elevati.

Non a caso, mentre Napoleone vedeva la guerra come un’arte del lampo, Wellington la trattava come un mestiere da ingegnere militare: più faticoso, ma altrettanto decisivo.

A chi va dunque il titolo di miglior condottiero negli assedi?
Se si considera la fredda efficacia, il rispetto delle tempistiche, la capacità di coordinare truppe e ingegneri, la pazienza strategica e il risultato ottenuto, il giudizio degli storici tende a premiare Wellington.
Napoleone, invece, resta l’indiscusso maestro del campo aperto, dell’audacia, del colpo d’occhio — ma non degli assedi, che considerava “un lavoro da secondi ufficiali”.

Entrambi furono giganti del loro tempo. Ma tra i bastioni di pietra e i crateri d’artiglieria, fu Wellington a reggere meglio il peso della storia.



venerdì 18 ottobre 2024

Jackson a New Orleans: la battaglia che salvò il cuore d’America — e arrivò dopo la pace

8 gennaio 1815. Alle porte di New Orleans si consuma una delle più spettacolari — e ironiche — vittorie militari della giovane repubblica americana. Un’armata britannica esperta, dotata e ben guidata, viene letteralmente annientata da un esercito improvvisato, composto da miliziani, creoli, cacciatori di frontiera e pirati. A guidarli, un uomo temprato dalla vita e mosso da una vendetta personale: il Maggior Generale Andrew Jackson, destinato a diventare il settimo Presidente degli Stati Uniti.

Eppure, al momento dello scontro, la guerra era già finita. Il Trattato di Gand, firmato il 24 dicembre 1814 in Belgio, aveva posto formalmente fine al conflitto anglo-americano, anche noto come la guerra del 1812. Ma nell’era delle comunicazioni a vela, la notizia impiegò settimane per attraversare l’Atlantico. Così, mentre i diplomatici brindavano alla pace a Bruxelles, i cannoni tuonavano ancora tra le paludi della Louisiana.

Per Londra, la conquista di New Orleans rappresentava un obiettivo strategico cruciale. Il controllo della città significava dominare l’intero sistema idrografico del Mississippi, arteria vitale per il commercio e la sopravvivenza economica degli Stati Uniti occidentali. Se avesse avuto successo, l’attacco britannico avrebbe potuto riscrivere la geografia geopolitica del Nord America, tagliando in due il giovane Paese e mettendo in discussione l’acquisizione più importante della sua breve storia: la Louisiana Purchase del 1803.

Fu proprio Napoleone Bonaparte, in un colpo di teatro geopolitico, a cedere quel vasto territorio agli americani per 15 milioni di dollari, finanziati in parte — con una punta di beffardo pragmatismo — da banche londinesi. Una transazione che, se da un lato indebolì Parigi, dall’altro alimentò malumori a Whitehall, dove non tutti erano favorevoli a vedere gli ex sudditi rafforzarsi nell’ombra dell’Impero.

Contro l’armata di Sua Maestà, scese in campo un comandante sui generis: Andrew Jackson, ex senatore del Tennessee, veterano di guerre contro i Creek e i Cherokee, ma soprattutto un uomo che odiava visceralmente gli inglesi. All’età di 14 anni fu catturato durante la Guerra d’Indipendenza. Sua madre morì assistendo prigionieri americani su una nave britannica. I suoi fratelli perirono in guerra. Jackson non dimenticò mai.

Nel dicembre 1814, all’arrivo della flotta britannica nel Golfo del Messico, Jackson agì con determinazione. Mobilitò volontari, strinse alleanze improbabili con pirati come Jean Lafitte, e costruì una linea di difesa solida lungo il Rodriguez Canal, a pochi chilometri a sud di New Orleans.

Il giorno dello scontro, l’8 gennaio, le forze britanniche sotto il generale Sir Edward Pakenham avanzarono frontalmente contro le fortificazioni americane. Mal coordinati, mal guidati e sotto il fuoco preciso dei tiratori del Kentucky e del Tennessee, i britannici subirono una disfatta epocale: oltre 2.000 uomini persi, tra cui lo stesso Pakenham, contro meno di un centinaio di perdite americane.

La battaglia di New Orleans non cambiò i termini del trattato di Gand — che non prevedeva né concessioni territoriali né riparazioni — ma fu fondamentale per il morale nazionale. Gli Stati Uniti, ancora percepiti come una nazione fragile e frammentata, riscoprirono un’unità patriottica. La vittoria trasformò Jackson in un eroe nazionale e rafforzò il senso d’identità americana, avviando un’era di crescente espansione e fiducia.

Da un punto di vista strategico, la vittoria impedì un’occupazione britannica nel Sud, mantenne intatto l’accesso americano al Mississippi e consolidò il legame tra le regioni occidentali e la costa atlantica. Fu, paradossalmente, la battaglia più significativa di una guerra finita, ma non ancora “arrivata”.

La battaglia di New Orleans è il paradigma perfetto dell’imprevedibilità della guerra e del potere della volontà individuale. Jackson, uomo del popolo e della frontiera, sfruttò ogni risorsa a disposizione per fermare la forza più temuta del tempo. Non fu solo una vittoria militare: fu una dichiarazione di sopravvivenza e autonomia.

E se le banche londinesi avevano contribuito, anni prima, a finanziare la cessione della Louisiana, ironia della storia volle che l’Impero Britannico vi lasciasse, nel fango della Louisiana, uno dei suoi generali migliori e migliaia di uomini, sconfitti da una banda di coloni e contrabbandieri.

Il giovane Paese, appena sfuggito alla morsa coloniale, non era più in vendita.



giovedì 17 ottobre 2024

Il miglior Maresciallo di Napoleone? Non Davout, né Soult. Ma Louis-Gabriel Suchet

Quando si evocano i grandi Marescialli di Napoleone, i nomi che affiorano immediatamente sono quelli celebrati dalla storiografia più consolidata: Louis-Nicolas Davout, il “maresciallo di ferro”, che a Auerstädt nel 1806 sconfisse da solo un intero esercito prussiano; Jean Lannes, il leone del campo, morto troppo giovane ma brillante a Ratisbona e Arcole; Michel Ney, l’eroe di Borodino e il tragico protagonista del ritorno da Mosca; e naturalmente Alexandre Berthier, lo stratega metodico, cuore tecnico dello Stato Maggiore imperiale.

Eppure, se si cambia lente d’osservazione — non il carisma, non la spettacolarità, ma l’efficienza pura e la coerenza dei risultati in uno dei teatri più logoranti delle guerre napoleoniche — allora emerge una figura solida, lucida, priva di macchie: Louis-Gabriel Suchet, duca d'Albufera, forse il più sottovalutato e allo stesso tempo più efficace tra i 26 Marescialli dell’Impero.

La guerra di Spagna — o più precisamente, la guerra peninsulare (1808–1814) — fu un pantano strategico per la Grande Armée. Nessun altro fronte consumò più uomini, più risorse e più tempo per ottenere meno. Lì, Napoleone vide sgretolarsi la sua immagine di invincibilità, grazie alla resistenza spagnola, all’insurrezione costante delle popolazioni civili, alla tattica della guerriglia e alla presenza risoluta delle forze britanniche guidate da Wellington. In questo inferno amministrativo e militare, molti Marescialli brillarono meno che altrove. André Masséna, vincitore a Zurigo e Rivoli, fallì nel portare a termine l’assedio di Lisbona. Soult, sebbene brillante in Germania, fu spesso costretto a retrocedere. Ney, il “più valoroso dei valorosi”, si scontrò con difficoltà logistiche insormontabili.

Solo uno seppe non solo sopravvivere, ma prosperare: Suchet.

Napoleone stesso lo aveva notato già durante le prime campagne italiane. Promosso a Maresciallo nel 1811, Suchet fu l’unico a ricevere il bastone sul suolo spagnolo. Il suo approccio combinava durezza militare con una rara sensibilità amministrativa. Stabilì rapporti relativamente cooperativi con la popolazione locale nella regione di Aragona e Catalogna, fece restaurare i sistemi fiscali, mantenne l’ordine pubblico e — cosa ancora più rara — seppe garantire i rifornimenti alle sue truppe senza dover necessariamente ricorrere al saccheggio sistemico che alienava la popolazione civile. Vinse la guerra non solo con i fucili, ma con la stabilità.

Militarmente, Suchet si distinse in battaglie decisive come Lérida, Tortosa, Tarragona e Valencia, quest’ultima considerata da molti analisti la più importante vittoria francese sul suolo iberico. Nessun altro Maresciallo fu capace di conquistare e mantenere sotto controllo una regione così estesa e turbolenta per un periodo così lungo.

Il confronto con gli altri grandi Marescialli è illuminante. Davout fu certamente un genio tattico, ma la sua azione fu soprattutto brillante nei grandi scontri frontali delle campagne centrali. Soult mancava spesso del tatto politico e amministrativo. Berthier fu un formidabile burocrate bellico, ma non un comandante di campo. Lannes, seppur straordinario, operò sempre sotto la supervisione diretta di Napoleone. Suchet, invece, operò per lunghi anni lontano dagli occhi dell’Imperatore, con risultati sistemici e stabili.

Inoltre, mentre molti Marescialli tornarono dalla Spagna con carriere offuscate o compromesse, Suchet tornò con un curriculum immacolato, tanto da ottenere incarichi ancora più rilevanti negli ultimi anni dell’Impero. Nel 1815, Napoleone — che pure nominò Soult come capo di Stato Maggiore per i Cento Giorni — avrebbe probabilmente beneficiato di una scelta diversa. La freddezza organizzativa, l’equilibrio, la competenza logistica di Suchet erano esattamente ciò che mancava nella campagna di Waterloo.

Dopo la caduta di Napoleone, Suchet non si arruolò tra i cospiratori né tra i restauratori. Morì nel 1826, con una reputazione intatta, stimato sia dai bonapartisti che dagli avversari. Le sue memorie, poco lette ma dense di dettagli, restano una fonte preziosa per comprendere la complessità del comando sul campo.

In un’epoca di colpi di genio e colpi di teatro, Suchet fu l’artefice silenzioso della stabilità. Non il più audace, né il più celebrato, ma forse il più affidabile e, paradossalmente, il più moderno tra i Marescialli di Francia.

Un titolo ambito, conteso, ma che nella luce della Storia, potrebbe davvero spettare a lui.



mercoledì 16 ottobre 2024

Due rivoluzioni, due destini: perché quella americana prosperò e quella francese si divorò da sola

Due rivoluzioni nate a pochi anni di distanza l’una dall’altra, entrambe animate dagli ideali di libertà, autodeterminazione e rottura con il vecchio ordine monarchico. Eppure, mentre la Rivoluzione americana generò una repubblica relativamente stabile e duratura, quella francese precipitò in un vortice di violenza, decapitazioni e terrore. La differenza non sta solo nella geografia o nella fortuna: è il cuore stesso delle due rivoluzioni ad aver battuto ritmi diversi.

La Rivoluzione americana (1775–1783) fu, in sostanza, una guerra di secessione. Le colonie nordamericane rifiutarono il controllo fiscale e politico di una madrepatria lontana — la Gran Bretagna — e, con l’appoggio decisivo della Francia, riuscirono a ottenere l’indipendenza. Ma dal punto di vista sociale e istituzionale, la rottura fu contenuta: gli uomini che guidarono la rivoluzione erano gli stessi che detenevano il potere economico e sociale prima della guerra, e lo conservarono anche dopo. Non vi fu abbattimento della gerarchia sociale: i latifondisti rimasero tali, gli schiavi rimasero schiavi, le élite continuarono a guidare. La rivoluzione fu radicale sul piano politico — l’abolizione della monarchia e la nascita di una repubblica rappresentativa — ma conservatrice sul piano sociale.

La Rivoluzione francese (1789–1799), al contrario, fu un terremoto politico e sociale. Non si trattava solo di rovesciare un re lontano, ma di abbattere un sistema millenario fondato su privilegi nobiliari, disuguaglianza legale e potere assoluto. Quando la monarchia fu abolita nel 1792, non rimase nulla di certo o stabilito: ogni istituzione doveva essere reinventata. La Francia fu scossa da un ciclo di estremismi, in cui ogni nuova fazione rivoluzionaria eliminava fisicamente la precedente. Non a caso, la ghigliottina divenne il simbolo della nuova era.

A differenza degli Stati Uniti, dove le istituzioni nacquero in un contesto relativamente stabile e condiviso da una classe dirigente coesa, la Francia rivoluzionaria vide l’ascesa e la caduta rapidissima di governi, convenzioni, comitati e direttori. Il terrore giacobino non fu un incidente di percorso, ma l’esito logico di una rivoluzione che cercava di rifondare tutto da zero. A ciò si aggiunse la minaccia esterna: l’Europa monarchica temeva il contagio rivoluzionario e invase la Francia per soffocarlo. Il paese rispose con la leva di massa e la radicalizzazione.

Fu in questo clima di disillusione e bisogno di ordine che emerse Napoleone Bonaparte. Non fu il figlio naturale della rivoluzione, ma il suo epilogo coerente: un leader forte che promise stabilità, gloria e fine dell’anarchia. E lo fece, ironicamente, restituendo alla Francia una forma di autoritarismo, pur sotto il vessillo dell’uguaglianza civile.

In breve: la rivoluzione americana fu una rottura con un’autorità esterna, mentre quella francese fu una guerra civile contro sé stessi e contro la storia. La prima ebbe successo perché non mise in discussione l’intera struttura sociale; la seconda fallì nel breve termine proprio perché osò farlo.







martedì 15 ottobre 2024

Napoleone e la Campagna di Russia: un genio militare tradito dalla logistica e dalla volontà imperiale

Parigi, 1812. Napoleone Bonaparte, l’uomo che aveva riscritto le regole della guerra in Europa, si preparava a marciare su Mosca alla testa di quella che veniva definita la “Grande Armée”, la più imponente forza militare mai messa in campo fino ad allora. Tre mesi dopo, quell’esercito sarebbe stato distrutto non da un generale rivale, ma dalla strategia della ritirata russa, dal gelo siberiano e da un nemico antico quanto la guerra stessa: la fame. Com’è possibile che uno dei più acuti strateghi militari della storia abbia sottovalutato un pericolo tanto prevedibile quanto l’inverno russo?

La domanda affiora regolarmente ogniqualvolta si discute del genio militare di Napoleone. Ma la risposta, come spesso accade in storia, è più complessa della caricatura scolastica che riduce tutto a una semplice “sconfitta per freddo”.

Nel giugno del 1812, Napoleone non aveva alcuna intenzione di rimanere in Russia oltre l’autunno. Il suo piano era tanto ambizioso quanto chiaro: entrare in territorio russo, infliggere una sconfitta devastante all’esercito nemico in una singola, grande battaglia campale e forzare lo zar Alessandro I a negoziare una pace favorevole. Era lo schema già applicato con successo a Ulma, Austerlitz, Jena e Wagram.

Ma lo Stato Maggiore russo, sotto l’influenza di menti fredde e lungimiranti come quella del generale Barclay de Tolly e del principe Kutuzov, rifiutò lo scontro frontale. I russi si ritirarono sistematicamente, bruciando villaggi, magazzini e raccolti dietro di sé. La campagna si trasformò in un estenuante inseguimento attraverso terre sempre più povere e devastate, in cui la Grande Armée – costituita da truppe provenienti da quasi tutta l’Europa continentale – si trovò ben presto senza rifornimenti, stremata dalla fame, dal colera e dalla diserzione.

Napoleone entrò a Mosca il 14 settembre 1812. Non trovò un avversario con cui trattare, ma una città svuotata dai suoi abitanti e in gran parte incendiata. La capitale spirituale della Russia era stata offerta in sacrificio per non cedere alla logica napoleonica della vittoria morale. Mosca era un cadavere fumante. Restare per l’inverno era impossibile: nessuna scorta, nessun rifugio, nessuna prospettiva.

Lo zar Alessandro non rispose agli inviti alla resa. Napoleone, nel frattempo, riceveva notizie allarmanti dalla Polonia, dove minacce si profilavano ai suoi fianchi e alla linea di ritirata. La decisione di ripiegare venne presa il 19 ottobre, quando le temperature iniziavano appena a scendere.

È dunque una leggenda quella secondo cui Napoleone avrebbe “marciato verso la neve”? In larga parte sì. Quando iniziò la ritirata, l’inverno russo non era ancora nel pieno delle sue forze. Il disastro fu il risultato di un logoramento accumulato nei mesi precedenti: la mancanza di viveri, la debolezza fisica dei soldati, le continue imboscate cosacche, l’assedio psicologico. Il gelo fu il colpo di grazia, ma non il carnefice principale.

In questo contesto, è errato affermare che Napoleone “sottovalutò l’inverno”. Il vero errore strategico fu un altro: sopravvalutò la propria capacità di ottenere una vittoria rapida e sottovalutò la determinazione russa a sacrificare ogni cosa pur di evitare lo scontro diretto.

Un capitolo poco noto, ma cruciale, della campagna riguarda Aleksandr Černyšëv, ufficiale dell’intelligence militare russa, che operò a lungo a Parigi prima della guerra. Černyšëv aveva ottenuto informazioni cruciali sui piani strategici dell’Imperatore francese e aveva contribuito a preparare la controstrategia russa basata su logoramento e ritirata. Dopo la guerra, fu elevato a ministro della Guerra ma, ironicamente, passò alla storia per il suo fallimento nella Guerra di Crimea. La sua figura rimane ancora oggi un enigma dimenticato della storia russa, una sorta di “James Bond” ante litteram.

Napoleone fu senza dubbio uno dei più grandi comandanti militari della storia, ma come tutti i geni umani, fu fallibile. La Campagna di Russia non fu una prova di ingenuità meteorologica, bensì un errore di valutazione strategica, amplificato dalla logistica impossibile del tempo, dalla vastità del territorio e dalla spietata lucidità dell’avversario.

Il fallimento russo fu il primo colpo mortale all’aura d’invincibilità dell’Imperatore. Un errore che pagò a caro prezzo, non solo in vite umane, ma in fiducia politica. Forse, più che il gelo, fu l’arroganza a congelare la fortuna di Bonaparte sulle rive della Beresina.