sabato 2 novembre 2024

E se Napoleone non avesse venduto la Louisiana? Un bivio dimenticato che avrebbe potuto ridisegnare l’America — e il mondo

È uno dei grandi “e se” della storia: cosa sarebbe accaduto se Napoleone Bonaparte non avesse venduto la Louisiana agli Stati Uniti nel 1803? In quell’anno, per una cifra relativamente modesta – 15 milioni di dollari, all’epoca una somma ragguardevole ma ben inferiore al valore reale della terra coinvolta – la giovane repubblica americana raddoppiava di fatto la propria estensione territoriale, acquisendo una vastissima area che si estendeva dal Mississippi alle Montagne Rocciose. La decisione di Bonaparte, dettata da urgenze geopolitiche e militari, cambiò radicalmente il volto del continente nordamericano. Ma se avesse scelto diversamente, il mondo che conosciamo oggi sarebbe profondamente diverso.

Napoleone vendette la Louisiana non per calcolo espansionistico, ma per necessità: il fallimento della spedizione a Saint-Domingue (oggi Haiti), culminato nella sconfitta francese contro gli schiavi ribelli guidati da Toussaint Louverture e poi da Dessalines, aveva spezzato i sogni imperiali francesi nei Caraibi. Senza la base strategica haitiana, la Louisiana – vasta, remota, difficile da difendere – perdeva valore militare. Inoltre, la guerra imminente con la Gran Bretagna richiedeva fondi liquidi. Da qui, la decisione di cedere il territorio a Thomas Jefferson, che colse l’opportunità con entusiasmo.

Ma se Napoleone avesse resistito alla tentazione di vendere?

Non è difficile immaginare che, in assenza della cessione, la Louisiana sarebbe diventata un bersaglio primario della Royal Navy e dell’espansionismo britannico in Nord America. In effetti, la Francia, priva del controllo dei mari dopo la sconfitta di Trafalgar, non avrebbe potuto difendere il territorio. L'Inghilterra, già padrona del Canada e degli snodi commerciali del Nord Atlantico, avrebbe probabilmente assalito la Louisiana occidentale, trovandovi scarsa resistenza. Questo avrebbe potuto portare a una “canadizzazione” del centro-nord del continente: un enorme territorio anglofono (o anglo-canadese) che si sarebbe esteso dal Labrador al bacino del Mississippi.

Una simile espansione britannica avrebbe bloccato l’espansione americana verso ovest. Senza l'acquisto della Louisiana, il concetto di Manifest Destiny – l’idea secondo cui gli Stati Uniti fossero destinati a occupare l’intero continente – avrebbe avuto vita breve, se mai fosse nato. Il Missouri non sarebbe mai stato uno Stato americano. La corsa all’Ovest si sarebbe scontrata con potenze europee consolidate. Il Texas, in assenza della pressione statunitense, sarebbe probabilmente rimasto un'entità indipendente o avrebbe oscillato tra influenze spagnole, messicane e persino britanniche.

La geopolitica del continente americano sarebbe stata frammentata, forse simile a quella europea: un’America del Nord divisa tra entità linguistiche, culturali e giuridiche diverse. Una Louisiana francofona – magari limitata territorialmente, ma simbolicamente forte – avrebbe potuto sopravvivere come Stato autonomo o colonia de facto. I nativi americani, la cui sorte storica fu segnata dalle ondate di colonizzazione bianca verso ovest, avrebbero forse trovato in questo scenario maggior spazio di manovra. Alleanze con una Louisiana francese o con un Texas indipendente non sarebbero state impossibili. Trattati, enclave autonome, forse persino confederazioni indigene avrebbero avuto più tempo per consolidarsi prima di essere assorbite o annientate.

L'idea di un "super-Canada" ha un fascino logico, ma storicamente complesso. Il Canada, fino alla fine del XIX secolo, era un dominio coloniale britannico frammentato e poco popolato. Un’espansione nella Louisiana francese non l’avrebbe trasformato automaticamente in una superpotenza, ma certamente avrebbe garantito all’Impero britannico un controllo quasi assoluto sull’America del Nord. Gli Stati Uniti, confinati a est del Mississippi, sarebbero rimasti una potenza regionale, forse simile al Brasile imperiale nel XIX secolo, piuttosto che emergere come potenza globale.

Un’America così ridimensionata non avrebbe avuto la stessa forza industriale né la stessa influenza diplomatica nel XX secolo. Senza la conquista dell’Ovest, senza la corsa all’oro californiano, senza il Pacifico come nuovo orizzonte, gli Stati Uniti non sarebbero diventati il “poliziotto del mondo”. La Seconda Guerra Mondiale, la Guerra Fredda, persino lo sbarco sulla Luna – tutto ciò avrebbe preso una piega diversa.

In Europa, un Napoleone che avesse mantenuto la Louisiana avrebbe potuto disporre di una carta negoziale importante nei confronti degli inglesi. Avrebbe potuto usarla come leva diplomatica o tentare di militarizzarla – anche se, come detto, il dominio francese su quelle terre era logisticamente fragile.

In definitiva, la vendita della Louisiana fu un gesto di pragmatismo, ma anche di rinuncia. In quel momento, Bonaparte decise che l’Europa valeva più dell’America, che le sorti del continente si giocavano a Ulm, a Jena, a Wagram – non sulle rive fangose del Missouri. Ma proprio in quel gesto si celava una svolta storica dirompente: rinunciando alla Louisiana, la Francia consegnava al mondo la futura superpotenza americana.

E se l’avesse tenuta, il mondo che conosciamo oggi sarebbe irriconoscibile.





venerdì 1 novembre 2024

L’illusione dell’invincibilità: la disfatta di Napoleone in Russia come tragedia dell’hybris

Quando Napoleone Bonaparte varcò il fiume Niemen con la Grande Armée, al comando di oltre 600.000 uomini, pochi potevano immaginare che quella monumentale impresa militare si sarebbe trasformata in un disastro di proporzioni epiche. Il fallimento della campagna di Russia, troppo spesso riassunto frettolosamente con la frase “fu il freddo a distruggere l’esercito francese”, merita una lettura più complessa, che tenga conto non solo delle condizioni climatiche ma anche delle premesse strategiche, delle convinzioni ideologiche e dell’eccessiva fiducia nelle proprie capacità da parte dell’Imperatore.

Napoleone non “permise” la disfatta; al contrario, la subì come conseguenza diretta della sua stessa grandezza. Per comprendere questa affermazione apparentemente paradossale, bisogna risalire al contesto: un uomo che, sin dalla giovinezza, aveva collezionato una serie quasi ininterrotta di vittorie – da Arcole ad Austerlitz, da Marengo a Jena – si trovava al vertice del potere europeo. La Francia aveva sconfitto coalizioni su coalizioni, i più potenti imperi d’Europa erano stati piegati, umiliati o forzati a scendere a patti. Gli Asburgo avevano firmato il trattato di Schönbrunn, la Prussia si era inginocchiata dopo il disastro di Eylau e Friedland, e persino lo Zar Alessandro aveva aderito alla pace di Tilsit.

Era dunque logico, per Napoleone, ritenere che anche la Russia avrebbe ceduto secondo il medesimo schema: avanzata rapida, scontro decisivo, caduta della capitale simbolica (Mosca), firma della pace. Il problema, tuttavia, è che i russi avevano imparato la lezione. Non accettarono la battaglia nei termini imposti da Napoleone. Bruciarono le risorse, abbandonarono le città, si ritirarono nell’immensità delle loro terre, e lasciarono che fosse la geografia – oltre che la guerra – a logorare l’invasore. Kutuzov, comandante dell’esercito russo, comprese che non serviva vincere Napoleone sul campo: bastava non perdere, e lasciarlo logorare sé stesso.

In altre parole, fu lo stesso schema che, un secolo dopo, avrebbe affondato un altro impero europeo nella steppa: una guerra di logoramento, senza vittorie decisive, dove le linee di rifornimento si allungano, i soldati muoiono più di fame e di freddo che per mano nemica, e la distanza diventa un nemico più feroce delle armate zariste.

La battaglia di Borodino, sanguinosa ma inconcludente, aprì la strada a Mosca. Ma una volta giunto nella capitale – svuotata e data alle fiamme dagli stessi russi – Napoleone si trovò privo del premio atteso: né un trattato, né una resa, solo rovine. Rimase per settimane nella città in attesa di una risposta diplomatica che non arrivò mai. Quando infine ordinò la ritirata, era troppo tardi. Le provviste erano esaurite, i cavalli morivano, le truppe erano decimate dalle malattie e dal gelo. Dei 600.000 uomini che avevano varcato il Niemen, ne tornarono in Francia meno di 100.000.

Chi parla di "errore di calcolo", dunque, ha in parte ragione. Ma non si trattò di un semplice sbaglio logistico, bensì di una forma più insidiosa di autoinganno: Napoleone, nella sua grandezza, finì col credere alla narrazione della propria infallibilità. La propaganda imperiale – che lo aveva trasformato da generale a divinità laica – finì col influenzare anche lui. Quando si combattono e si vincono guerre per oltre un decennio contro le maggiori potenze continentali, è facile convincersi che la vittoria sia inevitabile.

A questa hybris – la tracotanza dell’uomo che sfida i limiti imposti dalla realtà – si aggiungeva un ulteriore fattore: la mancanza di una visione strategica globale. Se sul campo di battaglia Napoleone eccelleva con colpi di genio tattico, nei rapporti internazionali il suo approccio era spesso rigido, autoritario, incapace di conciliazione. Anziché integrare gli Stati vinti in un sistema duraturo, li schiacciava sotto un controllo oppressivo, fomentando risentimento e ribellione. L’Inghilterra, irriducibile nemico, restava fuori dalla sua portata; la Spagna, consumata da una guerra di guerriglia feroce; l’Europa centrale, dominata ma ostile.

La Russia fu solo il detonatore. Il tracollo seguente – la sesta e poi la settima coalizione, Lipsia, Waterloo – era già scritto nella struttura imperiale creata da Napoleone. Una struttura brillante ma fragile, in cui la fedeltà era garantita dalla paura o dalla forza, non dal consenso.

Oggi, gli storici riconoscono in Napoleone uno dei più grandi militari della storia. Ma al tempo stesso, iniziano a emergere con chiarezza i limiti di quella grandezza: la difficoltà nel distinguere il potere dalla saggezza, la vittoria dalla pace, la gloria dall’equilibrio. Il genio militare e il fallimento strategico non sono opposti, ma due facce dello stesso uomo.

Ed è forse proprio in questo che risiede la sua eredità più ambigua: nel ricordarci che anche i più grandi possono cadere, non per mano di un nemico, ma per eccesso di fiducia nei propri mezzi. Non fu il freddo a sconfiggere Napoleone, ma la convinzione che nulla potesse sconfiggerlo.



giovedì 31 ottobre 2024

Napoleone III: il nipote che riportò in vita l’Impero

La storia della dinastia Bonaparte non finì con la caduta di Napoleone I a Waterloo. Anzi, mezzo secolo dopo, un altro imperatore con lo stesso nome salì al potere in Francia: Napoleone III. Ma chi era esattamente? E come era legato al grande Napoleone?

Napoleone Bonaparte (1769–1821), fondatore del Primo Impero francese, ebbe un solo figlio legittimo: Napoleone II (1811–1832), nato dal matrimonio con Maria Luisa d’Austria.

Un "regno" di due settimane: Dopo la sconfitta di Waterloo (1815), Napoleone I abdicò in favore del figlio, che tecnicamente divenne "Napoleone II". Ma il bambino, allora aveva solo quattro anni, non regnò mai: i Borboni ripresero il potere, e lui visse in esilio in Austria, morendo giovane di tubercolosi.

Con la morte di Napoleone II nel 1832, il movimento bonapartista cercò un nuovo leader. Lo trovò in Carlo Luigi Napoleone Bonaparte (1808–1873), figlio di Luigi Bonaparte, fratello minore di Napoleone I.

Un passato da esule e cospiratore: Dopo il crollo dell’Impero, la famiglia Bonaparte fu bandita dalla Francia. Luigi Napoleone crebbe tra Svizzera e Italia, sognando di emulare lo zio.

Due tentativi falliti di golpe: Nel 1836 e 1840 provò a rovesciare la monarchia, finendo in prigione. Fuggì nel 1846, rifugiandosi in Inghilterra.

La Rivoluzione del 1848 gli diede una chance:

Eletto presidente della Seconda Repubblica (1848), sfruttò la nostalgia per Napoleone I.

Colpo di Stato del 1851: Sciolse l’Assemblea Nazionale e si autoproclamò imperatore nel 1852, fondando il Secondo Impero Francese.

Napoleone III fu molto diverso dallo zio:

Politica interna: Modernizzò la Francia con ferrovie, banche e la ristrutturazione di Parigi (grazie al barone Haussmann).

Politica estera: Ambiziosa ma disastrosa. Vittorie in Crimea e in Italia (alleato con Cavour contro l’Austria), ma la disfatta contro la Prussia nel 1870 (battaglia di Sedan) pose fine al suo regno.

Dopo Sedan, la Francia proclamò la Terza Repubblica. Napoleone III, catturato dai prussiani, andò in esilio in Inghilterra, dove morì nel 1873. Suo figlio, Luigi Napoleone, morì combattendo per i britannici in Africa (1879), chiudendo per sempre la saga imperiale.

Perché Napoleone III riuscì dove Napoleone II fallì?

Carisma e opportunismo: Se Napoleone II fu una pedina della storia, il cugino seppe sfruttare il mito del grande zio.

Un’epoca diversa: La Francia post-1848 era instabile, e molti vedevano in lui un garante di stabilità.


Curiosità

L’ultimo monarca francese: Napoleone III fu l’ultimo sovrano a regnare sulla Francia. Dopo di lui, solo repubbliche.

Un’eredità duratura: Nonostante la sconfitta, il Secondo Impero trasformò la Francia in una potenza industriale.

Insomma, se Napoleone I fu un genio militare, Napoleone III fu un abile politico, dimostrando che il nome "Bonaparte" aveva ancora potere. Ma la storia, alla fine, premiò la democrazia.




mercoledì 30 ottobre 2024

Il destino dell'esercito napoleonico dopo Waterloo: scioglimento e restaurazione borbonica

Dopo la sconfitta di Waterloo (18 giugno 1815), l’esercito di Napoleone cessò di esistere come forza organizzata. Con l’abdicazione dell’imperatore e il ritorno di Luigi XVIII al potere, i vincitori—soprattutto gli inglesi e i prussiani—si assicurarono che la Francia rivoluzionaria e napoleonica non potesse più minacciare l’Europa.


Lo scioglimento dell’esercito imperiale

Smobilitazione forzata: Luigi XVIII, appoggiato dalle potenze della Settima Coalizione, sciolse l’esercito napoleonico per evitare nuovi colpi di stato.

Epurazione dei bonapartisti: I generali fedeli a Napoleone furono esiliati, processati o costretti al ritiro. Alcuni, come Ney, furono giustiziati per tradimento.

Integrazione dei soldati: I veterani furono in parte assorbiti nel nuovo esercito reale borbonico, ma molti finirono disoccupati o emarginati.


L’occupazione alleata e il controllo militare

Il Duca di Wellington supervisionò l’occupazione della Francia (1815-1818), garantendo che non sorgessero nuove insurrezioni.

Taglio delle forze armate: La Francia fu costretta a ridurre il suo esercito a soli 150.000 uomini, con severe restrizioni sulle armi e le fortificazioni.

Risarcimenti di guerra: Il governo francese dovette pagare 700 milioni di franchi alle potenze vincitrici.


Luigi XVIII, consapevole di dovere il trono agli alleati, cercò di ripulire l’esercito da ogni influenza rivoluzionaria:

Ritorno dei nobili emigrati: Ufficiali aristocratici esiliati durante la Rivoluzione furono reintegrati, causando tensioni con i veterani napoleonici.

Nuova guardia reale: Creò unità fedeli alla monarchia, ma l’esercito rimase debole e diviso.


Wellington, pur essendo cruciale per la restaurazione borbonica, disprezzava il re: lo considerava un inetto fisicamente decadente (sofferente di gotta e obesità), soprannominandolo con sarcasmo "Oyster Louis" ("Luigi Ostrica") per la sua passività.


Dopo Waterloo, l’esercito napoleonico scomparve come istituzione, e la Francia tornò a essere una monarchia controllata dalle potenze straniere. Tuttavia, il mito di Napoleone e il malcontento verso i Borboni portarono, pochi anni dopo, a nuove rivolte—fino alla Rivoluzione del 1830 che spazzò via per sempre la dinastia restaurata.

Lo stesso esercito borbonico, purgato dai napoleonici, si rivoltò nel 1830 in nome della gloria imperiale, dimostrando che l’eredità di Waterloo era più duratura del trono di Luigi XVIII.




martedì 29 ottobre 2024

Alessandro I come generale a Borodino: avrebbe potuto sconfiggere Napoleone?

La battaglia di Borodino (7 settembre 1812) è spesso considerata uno dei più sanguinosi scontri delle guerre napoleoniche, un confronto brutale che lasciò entrambi gli eserciti stremati. Ma cosa sarebbe successo se lo zar Alessandro I, invece di affidare il comando al generale Michail Kutuzov, avesse guidato personalmente le truppe russe? Avrebbe potuto infliggere una sconfitta decisiva a Napoleone?

Alessandro I, pur essendo un sovrano coinvolto nelle questioni militari, non era un comandante esperto come Kutuzov o Barclay de Tolly. La sua unica diretta esperienza in battaglia risaliva ad Austerlitz (1805), dove la sua presenza—insieme a quella dello zar Francesco II d’Austria—contribuì alla disastrosa sconfitta della coalizione. Se avesse preso il comando a Borodino, avrebbe probabilmente ripetuto errori simili: troppa fiducia in attacchi frontali e poca attenzione alla logistica e alla ritirata strategica, elementi che invece Kutuzov gestì con pragmatismo.

Napoleone, nonostante la sua fama, commise gravi errori a Borodino:

Nessuna manovra avvolgente: invece di aggirare le difese russe, lanciò attacchi frontali contro la Grande Ridotta, subendo perdite catastrofiche.

La Guardia Imperiale tenuta in riserva: un’unità d’élite che avrebbe potuto sfondare le linee russe, ma che Napoleone conservò inutilmente.

Stanchezza e indecisione: alcuni storici ipotizzano che soffrisse di problemi di salute (calcoli renali o emorroidi), ma ciò non giustifica la mancanza di audacia tattica.

Se Alessandro avesse avuto l’esperienza di un generale veterano, avrebbe potuto sfruttare questi errori? Forse, ma è improbabile. Anche con un comando più aggressivo, i russi non avevano la superiorità numerica per annientare la Grande Armata.

Le cifre parlano chiaro:

Francia: ~35.000 perdite (su 130.000 uomini).

Russia: ~52.000 perdite (su 120.000 uomini).

Napoleone tenne il campo, ma i russi si ritirarono in ordine, mantenendo intatto il grosso dell’esercito. Questo permise a Kutuzov di sacrificare Mosca per logorare i francesi, portando alla catastrofica ritirata del 1812.

Anche con più esperienza, Alessandro I difficilmente avrebbe ottenuto una vittoria decisiva. Borodino fu uno scontro di logoramento, non una battaglia di annientamento come Austerlitz o Jena. La vera sconfitta di Napoleone arrivò dopo, con la strategia della terra bruciata e l’inverno russo—elementi che nessun generale, nemmeno uno zar più esperto, avrebbe potuto controllare meglio di Kutuzov.

Napoleone perse la campagna di Russia non per un singolo errore a Borodino, ma per aver sottovalutato la resistenza russa. E se c’è una lezione che la storia ci ha insegnato, è che nessun imperatore o generale, per quanto brillante, può vincere contro un intero popolo deciso a resistere.




lunedì 28 ottobre 2024

Napoleone e la Louisiana: una vendita strategica o una necessità economica?

 

Nel 1803, Napoleone Bonaparte, non ancora incoronato imperatore di Francia, si trovò di fronte a una decisione cruciale: mantenere il vasto territorio della Louisiana o cederlo agli Stati Uniti per rafforzare le sue ambizioni europee. Ma cosa spinse realmente il futuro imperatore a rinunciare a un possedimento così esteso? Fu una scelta dettata dalla convinzione che quel territorio non valesse la pena, o piuttosto una mossa calcolata per concentrarsi sull'Europa?

Thomas Jefferson, allora presidente degli Stati Uniti, era principalmente interessato all’acquisto di New Orleans, un porto strategico per il commercio americano. La sua offerta iniziale di 3 milioni di dollari per la città, però, si trasformò in un’opportunità irripetibile quando Napoleone rispose con una controproposta sorprendente: l’intero territorio della Louisiana per 15 milioni di dollari.

Perché questa svolta? Napoleone aveva bisogno urgente di liquidità. Con l’Europa in subbuglio e la minaccia britannica sempre più pressante (grazie anche all’ammiraglio Horatio Nelson), il generale francese preferì rinunciare a un territorio lontano e difficile da difendere pur di finanziare il suo esercito. Gli Stati Uniti, seppur inizialmente spiazzati, colsero al volo l’occasione, ottenendo un’acquisizione che avrebbe raddoppiato la loro superficie.

Tuttavia, la cessione non fu accettata pacificamente da tutti. Nel 1814, durante la Guerra del 1812, gli inglesi tentarono di riconquistare New Orleans, sostenendo che la vendita del 1803 fosse illegittima. Il generale britannico Edward Pakenham guidò un’invasione, ignaro che un trattato di pace fosse già stato firmato a Gand nel dicembre di quell’anno.

La battaglia di New Orleans (8 gennaio 1815) si risolse in una schiacciante vittoria americana, grazie al generale Andrew Jackson e a un’improvvisata milizia di volontari. La sconfitta britannica e la successiva ratifica del trattato sancirono definitivamente il controllo statunitense sulla Louisiana, nonostante i tentativi di rivendicazione.

Napoleone, in definitiva, non sottovalutò il valore della Louisiana in sé, ma priorizzò le sue campagne europee, dove riteneva che il destino della Francia fosse in gioco. La vendita gli permise di finanziare le guerre continentali, mentre gli Stati Uniti ottennero un’espansione territoriale senza precedenti.

Ironia della sorte, proprio quella regione sarebbe diventata cruciale per la potenza americana, dimostrando che, a volte, ciò che sembra un affare vantaggioso per una parte può rivelarsi una svolta storica per l’altra. E mentre oggi Stati Uniti e Canada discutono di tariffe commerciali, il confine sul 49° parallelo ricorda come anche le grandi conquiste possano essere negoziate… con un po’ di pragmatismo e un pizzico di fortuna.












domenica 27 ottobre 2024

“Dopo di me, il nulla”? Il vero volto di Napoleone tra mito e memoria

 


L’attribuzione a Napoleone Bonaparte della frase “Dopo di me, non ci sarà più niente” ha tutto il sapore di un’espressione postuma, carica di suggestione, ma priva di fondamento storico documentato. Nell’immaginario collettivo, il corso fulmineo della sua ascesa e la portata delle sue riforme alimentano la leggenda di un uomo che si percepiva come l’ultima grande figura della civiltà occidentale. Tuttavia, le parole realmente pronunciate da Napoleone rivelano un tono molto diverso: meno apocalittico, più introspettivo. E in alcuni casi, persino umile.

Durante il suo esilio a Sant’Elena, negli ultimi anni della sua vita, Napoleone ebbe modo di riflettere amaramente sul proprio destino e sull’eredità lasciata alla Francia e all’Europa. Disse:

“Il mio vero crimine è stato quello di aver distrutto l’anarchia e posto l’autorità sul trono, di aver amato sinceramente il popolo francese e di aver voluto la sua gloria.”
Mémorial de Sainte-Hélène

Questa dichiarazione, riportata da Emmanuel de Las Cases, suo confidente e memorialista, restituisce un Napoleone profondamente consapevole del proprio ruolo storico, ma ben lontano dalla figura megalomane che avrebbe potuto proclamare la fine del mondo dopo sé. Il tono è quello di un uomo che si vede come un riformatore tradito, non come l’ultimo baluardo della civiltà.

Diversa è la celebre affermazione “Après moi, le déluge” ("Dopo di me, il diluvio"), attribuita a Luigi XV o alla sua amante Madame de Pompadour. Questa frase, ben documentata e pronunciata nel contesto della disfatta di Rossbach nel 1757, suona come un’ammissione disillusa che l’Ancien Régime non sarebbe sopravvissuto al suo regno. E, in effetti, la storia gli diede ragione: la monarchia francese fu travolta da rivoluzioni, ghigliottine e guerre che cambiarono il volto dell’Europa.

Napoleone, pur consapevole della forza del proprio mito, non si espresse mai in modo tanto lapidario. La sua visione del futuro era in realtà più complessa: era convinto che le sue riforme – in particolare il Codice Civile, l’unificazione del sistema legale, la razionalizzazione dell’amministrazione statale – avrebbero avuto un impatto duraturo. E così è stato. Anche dopo Waterloo e l’esilio definitivo, molti Stati europei conservarono parti del sistema napoleonico, e l’eco delle sue trasformazioni si sente ancora oggi.

La frase “Dopo di me, non ci sarà più niente” può essere letta, forse, come una sintesi drammatica dello strappo che Bonaparte rappresentò con il passato. Ma è una costruzione apocrifa, un effetto della narrazione mitica che, nel tempo, ha sovrapposto l’uomo alla leggenda. In realtà, Napoleone non negava il futuro: lo progettava, e anzi aspirava a plasmarlo.

Ironia della storia, fu proprio la vastità della sua ambizione a renderlo un simbolo così potente. Perché anche se non disse mai quelle parole, molti, all’indomani della sua caduta, ebbero la sensazione che qualcosa di unico fosse finito per sempre.