giovedì 24 ottobre 2024

Napoleone vs Cromwell: duello tra titani militari di epoche diverse

Se esistesse un’arena astratta in cui mettere a confronto i grandi condottieri della storia, il nome di Napoleone Bonaparte dominerebbe indiscutibilmente la conversazione. Tuttavia, ogni epoca genera i propri giganti, e nel XVII secolo inglese nessuno ha esercitato una forza più decisiva, militare e politica, di Oliver Cromwell. Il paragone tra i due non è soltanto una questione di bilancio tra vittorie e sconfitte, ma di ciò che rappresentarono come soldati, capi politici e simboli dei rispettivi secoli.

Napoleone Bonaparte (1769–1821), figlio di una Corsica appena annessa alla Francia, non era predestinato alla gloria. Ma il giovane ufficiale d'artiglieria seppe distinguersi sin dai primi incarichi nella Francia rivoluzionaria. A soli 24 anni era già generale, e nel giro di un decennio fu imperatore. Le sue campagne – dall’Italia all’Egitto, da Austerlitz a Jena – furono studiate nei secoli a venire come esempio di arte operativa. Fu un maestro nella guerra di movimento, nell’uso della massa di manovra, nell’accentramento del comando. Entro il 1812, la mappa d’Europa parlava francese, e non per diplomazia.

Napoleone però non fu solo un militare. Riformò il diritto (il Code Napoléon), la pubblica amministrazione, la scuola e la società francese. Ma fu anche vittima del suo titanismo. L’invasione della Russia nel 1812, condotta senza logistica invernale adeguata e con una sottovalutazione del nemico, fu il principio della fine. Waterloo nel 1815 fu l’epilogo, ma l’eco del suo genio continua a risuonare nei manuali di strategia e nei cuori francesi. Ancora oggi, il suo corpo riposa con onore agli Invalides, nel cuore di Parigi.

Oliver Cromwell (1599–1658), invece, fu un uomo di altra tempra e altra epoca. Nacque nella piccola nobiltà terriera e non ricevette alcuna formazione militare. Divenne comandante per necessità, nel contesto della Guerra Civile Inglese. Ma ciò che gli mancava in istruzione lo compensava con disciplina, rigore morale e una fede incrollabile nella causa puritana. Fondò i “New Model Army”, una forza moderna, meritocratica, disciplinata. Fu in grado di sconfiggere l’esercito reale e far giustiziare un re – un evento senza precedenti in Europa occidentale.

Cromwell fu il primo a governare l’Inghilterra senza un re, assumendo il ruolo di “Lord Protettore”, una forma di dittatura repubblicana, fondata su rigore morale, ordine e repressione. Le sue campagne in Irlanda e Scozia furono brutali, ma efficaci. Sotto il suo comando, l’Inghilterra fu temuta come potenza navale e rispettata come nuova forza protestante in Europa. Tuttavia, la sua morte segnò la fine del suo esperimento politico: nel 1660 fu restaurata la monarchia, e il suo cadavere subì la damnatio memoriae. La sua testa fu esposta a Westminster per decenni, simbolo vivente della vendetta regale.

Mettere a confronto i due significa confrontare due concetti diversi di “soldato”: Napoleone come figura totalizzante del genio militare, artefice della guerra moderna e della mobilitazione di massa; Cromwell come comandante moralista, emerso dal caos della guerra civile per riformare – o purificare – la nazione. Uno brillò sulla scena internazionale, l’altro si impose nel conflitto intestino più radicale della storia inglese.

Chi fu il miglior soldato? Se parliamo di abilità tattica, innovazione strategica e scala operativa, la palma spetta indiscutibilmente a Napoleone. Se, invece, si valuta la trasformazione politica e sociale generata da un leader militare, Cromwell ha pochi rivali. Napoleone fu sconfitto, ma rimane un colosso della memoria storica. Cromwell fu cancellato, ma il suo esperimento repubblicano ha lasciato il seme di una nuova visione dello Stato.

La storia non sempre onora con equità i suoi protagonisti. Ma entrambi, in modi profondamente diversi, hanno scolpito il mondo moderno con la forza delle loro convinzioni e delle loro armate.



mercoledì 23 ottobre 2024

Sant’Elena: la prigione perfetta per l’imperatore dei francesi

Dopo la clamorosa fuga dall'isola d'Elba e il breve, ma turbolento, ritorno al potere noto come i "Cento Giorni", gli inglesi non intendevano correre altri rischi. Quando Napoleone Bonaparte fu sconfitto definitivamente a Waterloo nel giugno del 1815, la sua custodia divenne una questione di sicurezza internazionale. Il luogo scelto per il suo secondo e ultimo esilio fu l’isola di Sant’Elena, una minuscola macchia vulcanica dispersa nell’Oceano Atlantico meridionale. Per Londra, quell’isola remota non era semplicemente un luogo di detenzione: era una fortezza naturale concepita per l’impossibilità della fuga.

A differenza dell’Elba, Sant’Elena non offriva alcuna possibilità realistica di evasione. Situata a circa 1.900 chilometri dalla costa africana e più di 2.800 dal Brasile, l’isola era priva di porti naturali accessibili e circondata quasi interamente da scogliere a picco sull’oceano. Le condizioni geografiche erano già di per sé sufficienti a scoraggiare qualsiasi tentativo di fuga, ma gli inglesi non si limitarono a questo.

Fu istituito un sistema di sorveglianza tra i più rigidi mai concepiti per un prigioniero politico. Il compito fu affidato a Sir Hudson Lowe, un ufficiale di carriera che prese il suo incarico con zelo implacabile. Napoleone fu confinato nella residenza di Longwood House, un edificio freddo, umido e infestato da muffe, lontano dal mare e costantemente presidiato. L’intera isola fu trasformata in un campo di detenzione, con pattuglie mobili, punti di osservazione e stazioni militari collocate strategicamente per prevenire ogni contatto non autorizzato.

Ogni notte, un ufficiale britannico doveva accertarsi personalmente della presenza dell’ex imperatore. La sua corrispondenza fu sottoposta a censura sistematica: ogni lettera in uscita o in arrivo veniva aperta, letta e talvolta trattenuta. Persino le sue conversazioni con visitatori erano sottoposte a condizioni rigide, con la presenza obbligatoria di ufficiali britannici.

Il mare stesso fu trasformato in un muro: una flotta britannica stazionava regolarmente nei pressi dell’isola per monitorare ogni imbarcazione sospetta. L’ammiragliato stabilì rotazioni continue di navi da guerra nei dintorni, rendendo impossibile ogni intervento esterno, anche ipotetico. La scelta di Sant’Elena fu infatti dettata dalla certezza che nessuna potenza europea, né alleata né simpatizzante, potesse raggiungerla senza essere intercettata.

Napoleone stesso comprese presto che ogni speranza di fuga era vana. Nei primi mesi, coltivò la flebile speranza di un trasferimento negli Stati Uniti o persino in Inghilterra, ma fu rapidamente disilluso. Gli inglesi avevano imparato la lezione dell’Elba, e questa volta non ci sarebbe stato alcun margine d’errore. Se a Elba bastò una manciata di uomini fedeli e una barca per riscrivere la storia, a Sant’Elena anche i suoi fedelissimi più devoti furono ridotti all’impotenza.

L’isolamento non era solo fisico, ma psicologico. Circondato da guardie diffidenti, separato dal mondo, Napoleone visse gli ultimi anni della sua vita in un lento logoramento morale, aggravato dalle tensioni continue con il governatore Lowe, che si guadagnò l’odio dell’imperatore e dei suoi seguaci. Le restrizioni, severe e spesso umilianti, erano finalizzate a un solo obiettivo: annientare ogni spiraglio di speranza.

Morì a Sant’Elena il 5 maggio 1821, sei anni dopo il suo arrivo. Aveva 51 anni. Nessun piano di fuga fu mai tentato. Nessuna cospirazione riuscì a penetrare quella che, nei fatti, fu una prigione perfetta.

Con Sant’Elena, gli inglesi non solo esiliarono un uomo: sigillarono un’epoca. Napoleone, che aveva incendiato l’Europa con le sue ambizioni e rivoluzionato il volto della guerra, fu ridotto all’impotenza dalla forza più banale e brutale della storia: la logistica. Gli inglesi non lo sconfissero solo sul campo di battaglia, ma nel calcolo freddo e minuzioso della sorveglianza. Nessun colpo di cannone, nessuna carica di cavalleria: solo mare, distanza e disciplina.



martedì 22 ottobre 2024

La campagna di Russia del 1812 è da tempo scolpita nella memoria collettiva europea come il classico esempio di arroganza strategica che sfocia nella tragedia. Per molti, essa rappresenta l'inizio della fine per Napoleone Bonaparte, considerato da molti il più grande genio militare della storia moderna. Ma se era davvero un genio, ci si chiede, come ha potuto commettere un errore tanto prevedibile come l'invasione della Russia senza prepararsi all'inverno?

La risposta più comune — "fu sconfitto dal freddo" — è una semplificazione fuorviante, quasi mitologica. La verità, come sempre, è più complessa. Napoleone non fu vittima dell’inverno russo in quanto tale, bensì della sua incapacità di concepire la possibilità di un fallimento. E fu questa presunzione, più che le temperature gelide, a distruggere la Grande Armée.

Per cominciare, l’invasione della Russia non avvenne in inverno, ma all’inizio dell’estate. Il 24 giugno 1812, Napoleone attraversò il fiume Niemen con un esercito imponente, circa 600.000 uomini provenienti da tutta Europa. L’idea era quella di dare una lezione rapida allo zar Alessandro I, costringendolo alla pace entro poche settimane. Il piano presupponeva una campagna veloce, una battaglia decisiva, una vittoria schiacciante — in linea con la brillante tradizione napolenica di Austerlitz e Jena.

Ma la Russia, con la sua vastità e la sua strategia, aveva altri piani. I russi si ritirarono, costantemente, bruciando i villaggi, i granai e le scorte dietro di sé. Una tattica nota come “terra bruciata”, che aveva lo scopo preciso di privare l’invasore di ogni risorsa. Napoleone, abituato a guerre di movimento dove l’esercito viveva dei territori conquistati, si ritrovò improvvisamente senza approvvigionamenti. Più i russi si ritiravano, più la Grande Armée era costretta a inoltrarsi nel cuore di un territorio ostile, lungo linee di rifornimento insostenibili.

Quando infine Bonaparte raggiunse Mosca a settembre, trovò la città abbandonata e incendiata. I russi avevano deliberatamente distrutto la loro stessa capitale pur di impedirgli di trarne vantaggio. A quel punto, l’intera impresa cominciò a crollare sotto il peso della sua stessa illusione: la battaglia decisiva non c’era stata, la pace era lontana, e l’inverno era ormai alle porte. Il ritorno verso ovest, avviato tardivamente a ottobre, fu un’odissea di fame, malattie, diserzioni e disperazione. Le temperature scesero, certo, ma il vero gelo era già calato nel cuore dell'esercito: quello della sconfitta annunciata.

A rendere tutto più tragico fu l’inadeguatezza dell’equipaggiamento. Le truppe francesi non erano preparate per l’inverno russo, ma non perché Napoleone ne ignorasse la rigidità. Piuttosto, non aveva previsto che l’inverno potesse diventare una variabile rilevante. Aveva pianificato per un trionfo rapido, non per una lunga permanenza. Il genio strategico che aveva sconfitto coalizioni intere non concepiva un mondo in cui i suoi piani potessero fallire.

Questo episodio non mette in dubbio la straordinarietà del talento militare di Napoleone, ma ne sottolinea il limite umano: l’hybris, la tracotanza. Come Alessandro Magno prima di lui, e come Adolf Hitler un secolo dopo, Bonaparte commise l’errore fatale di sottovalutare la vastità, la resilienza e la volontà di autodistruzione del popolo russo in difesa della propria terra.

Non è un caso che proprio la campagna del 1812 sia spesso accostata a quella hitleriana del 1941. Entrambi avanzarono convinti di un rapido successo. Entrambi trovarono un nemico che si ritirava, bruciava e aspettava. Entrambi persero, più che per il freddo, per la propria superbia.

Napoleone, certo, vinse più battaglie di quante ne abbia mai perse qualsiasi altro generale moderno. Ma la Russia non gli offrì una battaglia. E fu proprio in quell’assenza — in quel vuoto strategico trasformato in trappola logistica — che il mito del condottiero infallibile iniziò a incrinarsi.

Forse, dopotutto, il vero nemico non fu l’inverno, né i russi. Fu l’idea stessa dell’invincibilità. E quando un genio comincia a credere alla propria leggenda, il rischio non è solo il fallimento: è l’autodistruzione.


lunedì 21 ottobre 2024

Perché Napoleone divide ancora: la leggenda di Bonaparte tra orgoglio francese e rancore britannico

Duecento anni dopo la sua caduta, Napoleone Bonaparte rimane una figura che accende gli animi e divide le opinioni, specialmente lungo la Manica. Se per molti francesi egli incarna ancora oggi l’ideale del genio politico e militare capace di risollevare una nazione prostrata dalla Rivoluzione, per gli inglesi resta, con poche eccezioni, un tiranno megalomane, un despota bellicoso che minacciò l'equilibrio europeo per puro capriccio personale. A dividere le due sponde non è solo la storia, ma il modo in cui essa viene raccontata, interpretata e tramandata.

In Francia, il nome di Napoleone suscita ancora un misto di rispetto e nostalgia. A partire dal Codice Civile — che continua a influenzare i sistemi giuridici in tutto il mondo — fino alla riorganizzazione dell’amministrazione pubblica, delle scuole e dell’esercito, Bonaparte è percepito come l’uomo che diede ordine al caos post-rivoluzionario. Dopo anni di ghigliottine, instabilità politica e corruzione dilagante, il suo arrivo al potere fu accolto da molti come una restaurazione dell'autorità e della razionalità. Per questo, molti francesi sono disposti a perdonargli — o almeno a comprendere — le guerre interminabili e le ambizioni imperiali. Vederlo come un "dittatore" appare riduttivo; più spesso viene descritto come un "riformatore con la spada", un Cesare moderno con un senso missionario della storia.

Dall'altra parte del Canale, il giudizio è ben diverso. Per la Gran Bretagna, Napoleone fu il nemico per antonomasia: un despota straniero che tenne il continente sotto scacco, sfidò ogni coalizione che Londra cercava di costruire e per anni minacciò l’invasione delle isole britanniche. La Royal Navy poté cantare vittoria a Trafalgar, ma ci vollero vent’anni e sette coalizioni prima che Wellington potesse trionfare a Waterloo. È comprensibile, quindi, che la memoria collettiva inglese abbia trasformato Bonaparte in un incubo storico: il simbolo dell’ambizione sfrenata che mette a rischio la civiltà stessa.

A complicare la faccenda, vi è anche il personaggio stesso: carismatico, brillante, instancabile, ma anche incapace di mettere un freno alle proprie ossessioni. Le guerre napoleoniche non furono inevitabili, e molti storici concordano oggi che Bonaparte fallì nel comprendere le dinamiche geopolitiche a lungo termine. Spinto dal desiderio di dominare e forse, come suggeriscono alcune fonti, anche da un senso patologico di grandezza, Napoleone si alienò ogni possibile alleato. Le sue stesse trattative di pace furono spesso minate da un entourage instabile, in particolare dal suo abile ma ambiguo ministro degli Esteri, Charles-Maurice de Talleyrand. A quest’ultimo la storia attribuisce tanto il merito di aver salvato la Francia dopo la caduta dell’Imperatore quanto la colpa di averne sabotato le ambizioni.

Eppure, nonostante le sconfitte, la figura di Napoleone continua a esercitare un fascino innegabile. Non è un caso che venga talvolta paragonato agli eroi del cinema moderno — qualcuno ha ironicamente suggerito che l’universo cinematografico Marvel impallidisce davanti alla complessità e all’epicità della sua epopea. Dalla Corsica al trono imperiale, da Austerlitz a Elba, fino al tragico epilogo di Sant’Elena, la parabola napoleonica conserva tutti gli elementi del grande dramma: ascesa, gloria, caduta.

Per gli inglesi, tuttavia, ogni parentesi di ammirazione è velata di diffidenza. Anche quando ne riconoscono il genio militare, tendono a sottolineare che la vera vittoria non fu quella di Austerlitz, ma la loro: una vittoria morale, culturale, strategica. Quando perdono, gli inglesi — si dice — lo fanno sempre con stile, ma quando vincono, rivendicano anche la lezione di civiltà. Ed è proprio questo uno dei punti cardine del confronto: Napoleone, per la mentalità britannica del tempo e forse anche di oggi, rappresentava un pericolo non tanto militare quanto culturale. La sua visione del potere, accentratore e autoritario, era l’antitesi del parlamentarismo inglese e delle libertà consolidate a Westminster.

In ultima analisi, le divergenze su Napoleone non sono solo un fatto di storia, ma di identità nazionale. Per la Francia, egli incarna il genio incompreso, il sovrano legislatore, il patriota. Per la Gran Bretagna, resta l’archetipo dell’usurpatore, del tiranno brillante ma autodistruttivo. Due visioni inconciliabili che, pur affondando le radici nel passato, continuano a plasmare il modo in cui i due popoli leggono la propria storia — e forse anche il proprio futuro.

Napoleone è morto da secoli. Ma la battaglia per la sua memoria è tutt’altro che finita.



domenica 20 ottobre 2024

Quando finì l’era delle uniformi napoleoniche? Il lento tramonto del colore sul campo di battaglia

 

Per oltre un secolo, l’immagine del soldato europeo fu dominata da uniformi vivaci: giubbe scarlatte, pantaloni blu, galloni dorati e copricapi elaborati. Questi abiti sgargianti — eredi diretti delle uniformi napoleoniche — erano simboli di disciplina, orgoglio nazionale e visibilità in battaglia. Ma con l’avvento della guerra moderna, la moda militare fu costretta a sottomettersi alla logica crudele della sopravvivenza. Quando, quindi, la maggior parte dei paesi abbandonò definitivamente lo stile napoleonico? La risposta breve: tra il 1914 e il 1916, nel cuore della Prima Guerra Mondiale.

Quando l’Europa piombò nel conflitto nell’agosto 1914, molti eserciti indossavano ancora uniformi che poco si distinguevano da quelle viste a Waterloo un secolo prima. La Francia è l’esempio più emblematico. L’esercito repubblicano marciava verso la frontiera con l’entusiasmo patriottico dei pantaloni rossi carminio (“les pantalons rouges”) e dei kepì vermigli, simboli della fierezza nazionale. I pantaloni rossi erano “la Francia stessa”, affermava il ministro della guerra Adolphe Messimy nel 1911, opponendosi con forza alle proposte di uniformi più mimetiche. Una scelta tragica.

Nelle prime settimane del conflitto, le truppe francesi furono falciate a migliaia dalle mitragliatrici tedesche Maxim e dai fucili Mauser 98. Le uniformi vistose, perfette per essere identificate dagli ufficiali sul campo nell’epoca delle manovre lineari, si rivelarono disastrose sotto il fuoco incrociato delle armi automatiche. Come disse un osservatore britannico:

"Sembrava di sparare su bersagli da tiro vestiti per una parata."

La Gran Bretagna, pur più pragmatica, aveva comunque ereditato un certo gusto per il colore dai suoi reggimenti coloniali. Ma già prima della guerra aveva adottato il khaki, introdotto con successo durante le guerre boere, e dimostratosi molto più adatto alla guerra moderna.

Le perdite insostenibili e il fallimento delle offensive condussero a un rapido mutamento. Nel 1915, l’esercito francese introdusse la famosa "uniforme horizon blue", una tinta grigio-azzurra che si fondeva meglio con la nebbia e il fango delle trincee. I copricapi rigidi furono progressivamente sostituiti con elmetti d’acciaio, come l’Adrian, il primo elmetto moderno introdotto su larga scala.

Anche la Germania, che nel 1914 vestiva ancora tuniche blu scuro per alcuni corpi, virò rapidamente verso il feldgrau, un grigio-verde smorzato che divenne lo standard fino alla fine della Seconda guerra mondiale. Altri eserciti seguirono, come quelli dell’Austria-Ungheria, dell’Italia (che nel 1915 adottò il grigioverde) e della Russia imperiale, che introdusse il kaki chiaro.

La lentezza con cui gli eserciti abbandonarono le divise colorate è dovuta a più fattori:

  • Orgoglio nazionale e conservatorismo: le uniformi erano simboli culturali, e cambiarle era percepito come un atto di rinuncia.

  • Tradizione militare: gli ufficiali veterani delle guerre coloniali avevano difficoltà ad adattarsi alla nuova dimensione industriale del conflitto.

  • Psicologia della guerra: la visibilità serviva anche a mantenere il morale e la coesione delle truppe, specie in battaglie confuse.

La Seconda Guerra Mondiale vide eserciti completamente uniformati secondo criteri funzionali e mimetici. Il camouflage diventò la norma, i colori accesi sparirono del tutto, e le uniformi si fusero con l’ambiente piuttosto che spiccare su di esso. I soldati francesi del 1940 non indossavano più pantaloni rossi né kepì: portavano caschi d’acciaio, tuniche grigioverdi e fucili semiautomatici. Ma tutto questo non bastò: la disfatta fu causata più dalla tattica tedesca e dai limiti strategici francesi che dall’abbigliamento.

L’epoca delle uniformi napoleoniche terminò realmente nelle trincee della Prima Guerra Mondiale. Non fu la Seconda guerra mondiale a sancirne la fine, ma piuttosto le mitragliatrici, il filo spinato e l’artiglieria del 1914–1918. Il rosso, il blu acceso e l’oro cedettero il passo al grigio, al verde oliva e al marrone: la sobrietà prese il posto dell’ornamento, e la sopravvivenza prevalse sulla gloria estetica.

Oggi, le uniformi moderne continuano a evolversi, ma la lezione appresa nel fango della Somme e di Verdun rimane scolpita nella memoria collettiva delle forze armate di tutto il mondo.



sabato 19 ottobre 2024

Chi fu il vero maestro degli assedi: Napoleone o Wellington?

Quando si parla di strategia e grandezza militare nel lungo XIX secolo, i nomi di Napoleone Bonaparte e del Duca di Wellington (Arthur Wellesley) emergono con forza quasi mitologica. Due menti geniali del campo di battaglia, due stili opposti: l’uno fulmineo, ardito, quasi impulsivo; l’altro metodico, calcolatore, implacabile. Ma se restringiamo il campo al difficile terreno della guerra d’assedio, la bilancia pende chiaramente a favore del comandante britannico.

Napoleone fu un maestro del movimento, un artista della manovra. Il suo genio brillava nelle battaglie campali, dove poteva orchestrare marce forzate, aggiramenti improvvisi e colpi di mano che lasciavano gli avversari disorientati. Ma quando si trattava di guerre d’assedio — lente, logoranti, legate più all’ingegneria e alla tenacia che all’intuizione — la sua impazienza lo tradiva.

Lo dimostra uno dei primi fallimenti della sua carriera: l’assedio di Acri nel 1799, durante la campagna d’Egitto e Siria. Napoleone, ancora giovane generale della Repubblica francese, si lanciò all’assalto della città ottomana con foga, ma senza adeguata preparazione logistica né artiglieria d’assedio sufficiente. Il piccolo contingente britannico guidato da Sir Sidney Smith aiutò i difensori ottomani a respingere i francesi, e Napoleone, frustrato, fu costretto al ritiro dopo settimane di assedi infruttuosi e pesanti perdite. Egli stesso avrebbe poi affermato:

“Se non fosse stato per quel maledetto forte, avrei conquistato tutto il Medio Oriente!”

Durante il resto della sua carriera, Napoleone evitò per quanto possibile lunghi assedi, preferendo invece manovrare i nemici in campo aperto. Anche a Danzica, Mantova o Saragozza, il suo coinvolgimento fu spesso marginale, delegato a generali di fiducia, proprio perché la guerra d’assedio non si conciliava con la sua visione di guerra rapida e decisiva.

Il Duca di Wellington, al contrario, si distinse proprio nella Peninsular War (1808–1814) per la sua abilità nel condurre assedi metodici, pur se spesso sanguinosi. In Spagna e Portogallo, la guerra contro le truppe napoleoniche richiese una strategia di logoramento, e Wellington rispose con una combinazione di disciplina ferrea, meticolosa pianificazione ingegneristica e un uso accorto delle risorse.

Tra i suoi assedi più noti figura Badajoz (1812), un’operazione lunga e costosa, culminata in un assalto finale che costò la vita a migliaia di soldati britannici. L’immagine di Wellington che piange tra i corpi dei suoi uomini ha attraversato la storia come simbolo del dolore personale del comandante davanti al prezzo della vittoria. Nonostante le perdite, la presa di Badajoz fu decisiva per aprire la strada verso Madrid e minare la posizione francese in Iberia.

Anche negli assedi di Ciudad Rodrigo, San Sebastián e Burgos, Wellington mostrò padronanza di tempi e strumenti bellici, adattando la tradizione dell’assedio francese del XVIII secolo a un teatro bellico nuovo, fatto di colline, guerriglia e logistica estrema.

In definitiva, i due generali rappresentano approcci opposti alla guerra:

  • Napoleone puntava sull’offensiva rapida, sull’effetto shock, sulla sorpresa strategica. Gli assedi erano una parentesi indesiderata, un freno alla sua concezione “totale” della battaglia.

  • Wellington, invece, eccelleva nella tenacia, nell’organizzazione, nella capacità di piegare il nemico lentamente, anche a costo di sacrifici elevati.

Non a caso, mentre Napoleone vedeva la guerra come un’arte del lampo, Wellington la trattava come un mestiere da ingegnere militare: più faticoso, ma altrettanto decisivo.

A chi va dunque il titolo di miglior condottiero negli assedi?
Se si considera la fredda efficacia, il rispetto delle tempistiche, la capacità di coordinare truppe e ingegneri, la pazienza strategica e il risultato ottenuto, il giudizio degli storici tende a premiare Wellington.
Napoleone, invece, resta l’indiscusso maestro del campo aperto, dell’audacia, del colpo d’occhio — ma non degli assedi, che considerava “un lavoro da secondi ufficiali”.

Entrambi furono giganti del loro tempo. Ma tra i bastioni di pietra e i crateri d’artiglieria, fu Wellington a reggere meglio il peso della storia.



venerdì 18 ottobre 2024

Jackson a New Orleans: la battaglia che salvò il cuore d’America — e arrivò dopo la pace

8 gennaio 1815. Alle porte di New Orleans si consuma una delle più spettacolari — e ironiche — vittorie militari della giovane repubblica americana. Un’armata britannica esperta, dotata e ben guidata, viene letteralmente annientata da un esercito improvvisato, composto da miliziani, creoli, cacciatori di frontiera e pirati. A guidarli, un uomo temprato dalla vita e mosso da una vendetta personale: il Maggior Generale Andrew Jackson, destinato a diventare il settimo Presidente degli Stati Uniti.

Eppure, al momento dello scontro, la guerra era già finita. Il Trattato di Gand, firmato il 24 dicembre 1814 in Belgio, aveva posto formalmente fine al conflitto anglo-americano, anche noto come la guerra del 1812. Ma nell’era delle comunicazioni a vela, la notizia impiegò settimane per attraversare l’Atlantico. Così, mentre i diplomatici brindavano alla pace a Bruxelles, i cannoni tuonavano ancora tra le paludi della Louisiana.

Per Londra, la conquista di New Orleans rappresentava un obiettivo strategico cruciale. Il controllo della città significava dominare l’intero sistema idrografico del Mississippi, arteria vitale per il commercio e la sopravvivenza economica degli Stati Uniti occidentali. Se avesse avuto successo, l’attacco britannico avrebbe potuto riscrivere la geografia geopolitica del Nord America, tagliando in due il giovane Paese e mettendo in discussione l’acquisizione più importante della sua breve storia: la Louisiana Purchase del 1803.

Fu proprio Napoleone Bonaparte, in un colpo di teatro geopolitico, a cedere quel vasto territorio agli americani per 15 milioni di dollari, finanziati in parte — con una punta di beffardo pragmatismo — da banche londinesi. Una transazione che, se da un lato indebolì Parigi, dall’altro alimentò malumori a Whitehall, dove non tutti erano favorevoli a vedere gli ex sudditi rafforzarsi nell’ombra dell’Impero.

Contro l’armata di Sua Maestà, scese in campo un comandante sui generis: Andrew Jackson, ex senatore del Tennessee, veterano di guerre contro i Creek e i Cherokee, ma soprattutto un uomo che odiava visceralmente gli inglesi. All’età di 14 anni fu catturato durante la Guerra d’Indipendenza. Sua madre morì assistendo prigionieri americani su una nave britannica. I suoi fratelli perirono in guerra. Jackson non dimenticò mai.

Nel dicembre 1814, all’arrivo della flotta britannica nel Golfo del Messico, Jackson agì con determinazione. Mobilitò volontari, strinse alleanze improbabili con pirati come Jean Lafitte, e costruì una linea di difesa solida lungo il Rodriguez Canal, a pochi chilometri a sud di New Orleans.

Il giorno dello scontro, l’8 gennaio, le forze britanniche sotto il generale Sir Edward Pakenham avanzarono frontalmente contro le fortificazioni americane. Mal coordinati, mal guidati e sotto il fuoco preciso dei tiratori del Kentucky e del Tennessee, i britannici subirono una disfatta epocale: oltre 2.000 uomini persi, tra cui lo stesso Pakenham, contro meno di un centinaio di perdite americane.

La battaglia di New Orleans non cambiò i termini del trattato di Gand — che non prevedeva né concessioni territoriali né riparazioni — ma fu fondamentale per il morale nazionale. Gli Stati Uniti, ancora percepiti come una nazione fragile e frammentata, riscoprirono un’unità patriottica. La vittoria trasformò Jackson in un eroe nazionale e rafforzò il senso d’identità americana, avviando un’era di crescente espansione e fiducia.

Da un punto di vista strategico, la vittoria impedì un’occupazione britannica nel Sud, mantenne intatto l’accesso americano al Mississippi e consolidò il legame tra le regioni occidentali e la costa atlantica. Fu, paradossalmente, la battaglia più significativa di una guerra finita, ma non ancora “arrivata”.

La battaglia di New Orleans è il paradigma perfetto dell’imprevedibilità della guerra e del potere della volontà individuale. Jackson, uomo del popolo e della frontiera, sfruttò ogni risorsa a disposizione per fermare la forza più temuta del tempo. Non fu solo una vittoria militare: fu una dichiarazione di sopravvivenza e autonomia.

E se le banche londinesi avevano contribuito, anni prima, a finanziare la cessione della Louisiana, ironia della storia volle che l’Impero Britannico vi lasciasse, nel fango della Louisiana, uno dei suoi generali migliori e migliaia di uomini, sconfitti da una banda di coloni e contrabbandieri.

Il giovane Paese, appena sfuggito alla morsa coloniale, non era più in vendita.