Dopo la clamorosa fuga dall'isola d'Elba e il breve, ma turbolento, ritorno al potere noto come i "Cento Giorni", gli inglesi non intendevano correre altri rischi. Quando Napoleone Bonaparte fu sconfitto definitivamente a Waterloo nel giugno del 1815, la sua custodia divenne una questione di sicurezza internazionale. Il luogo scelto per il suo secondo e ultimo esilio fu l’isola di Sant’Elena, una minuscola macchia vulcanica dispersa nell’Oceano Atlantico meridionale. Per Londra, quell’isola remota non era semplicemente un luogo di detenzione: era una fortezza naturale concepita per l’impossibilità della fuga.
A differenza dell’Elba, Sant’Elena non offriva alcuna possibilità realistica di evasione. Situata a circa 1.900 chilometri dalla costa africana e più di 2.800 dal Brasile, l’isola era priva di porti naturali accessibili e circondata quasi interamente da scogliere a picco sull’oceano. Le condizioni geografiche erano già di per sé sufficienti a scoraggiare qualsiasi tentativo di fuga, ma gli inglesi non si limitarono a questo.
Fu istituito un sistema di sorveglianza tra i più rigidi mai concepiti per un prigioniero politico. Il compito fu affidato a Sir Hudson Lowe, un ufficiale di carriera che prese il suo incarico con zelo implacabile. Napoleone fu confinato nella residenza di Longwood House, un edificio freddo, umido e infestato da muffe, lontano dal mare e costantemente presidiato. L’intera isola fu trasformata in un campo di detenzione, con pattuglie mobili, punti di osservazione e stazioni militari collocate strategicamente per prevenire ogni contatto non autorizzato.
Ogni notte, un ufficiale britannico doveva accertarsi personalmente della presenza dell’ex imperatore. La sua corrispondenza fu sottoposta a censura sistematica: ogni lettera in uscita o in arrivo veniva aperta, letta e talvolta trattenuta. Persino le sue conversazioni con visitatori erano sottoposte a condizioni rigide, con la presenza obbligatoria di ufficiali britannici.
Il mare stesso fu trasformato in un muro: una flotta britannica stazionava regolarmente nei pressi dell’isola per monitorare ogni imbarcazione sospetta. L’ammiragliato stabilì rotazioni continue di navi da guerra nei dintorni, rendendo impossibile ogni intervento esterno, anche ipotetico. La scelta di Sant’Elena fu infatti dettata dalla certezza che nessuna potenza europea, né alleata né simpatizzante, potesse raggiungerla senza essere intercettata.
Napoleone stesso comprese presto che ogni speranza di fuga era vana. Nei primi mesi, coltivò la flebile speranza di un trasferimento negli Stati Uniti o persino in Inghilterra, ma fu rapidamente disilluso. Gli inglesi avevano imparato la lezione dell’Elba, e questa volta non ci sarebbe stato alcun margine d’errore. Se a Elba bastò una manciata di uomini fedeli e una barca per riscrivere la storia, a Sant’Elena anche i suoi fedelissimi più devoti furono ridotti all’impotenza.
L’isolamento non era solo fisico, ma psicologico. Circondato da guardie diffidenti, separato dal mondo, Napoleone visse gli ultimi anni della sua vita in un lento logoramento morale, aggravato dalle tensioni continue con il governatore Lowe, che si guadagnò l’odio dell’imperatore e dei suoi seguaci. Le restrizioni, severe e spesso umilianti, erano finalizzate a un solo obiettivo: annientare ogni spiraglio di speranza.
Morì a Sant’Elena il 5 maggio 1821, sei anni dopo il suo arrivo. Aveva 51 anni. Nessun piano di fuga fu mai tentato. Nessuna cospirazione riuscì a penetrare quella che, nei fatti, fu una prigione perfetta.
Con Sant’Elena, gli inglesi non solo esiliarono un uomo: sigillarono un’epoca. Napoleone, che aveva incendiato l’Europa con le sue ambizioni e rivoluzionato il volto della guerra, fu ridotto all’impotenza dalla forza più banale e brutale della storia: la logistica. Gli inglesi non lo sconfissero solo sul campo di battaglia, ma nel calcolo freddo e minuzioso della sorveglianza. Nessun colpo di cannone, nessuna carica di cavalleria: solo mare, distanza e disciplina.