sabato 23 novembre 2024

MICHEL NEY: IL LEONE ROSSO CHE SFIDÒ L’IMPERO

L’eroe di mille battaglie, il traditore pentito, il maresciallo che non si piegò mai, nemmeno di fronte ai plotoni d’esecuzione

Quando i fucili crepitarono nel gelido mattino parigino del 7 dicembre, Michel Ney non vacillò. Le cronache riportano che rifiutò la benda, si batté il petto e gridò ai suoi carnefici: «Soldati, quando darò l’ordine: fuoco!». Fu l’ultimo gesto di sfida di un uomo che aveva attraversato le tempeste rivoluzionarie e imperiali come un eroe omerico, sospeso tra gloria e tragedia.

Ney era figlio della terra, nato il 10 gennaio 1769 a Sarrelouis, in Lorena, da una famiglia umile, figlio di un bottaio. Non c’era nulla in lui, all’inizio, che prefigurasse la leggenda. Entrò nell’esercito del Re come usciere e poi dragone, scalando ogni gradino col sudore e la spada. Quando la Rivoluzione travolse la monarchia, Ney si trovò perfettamente a suo agio nel caos del nuovo ordine. Promosso ufficiale per merito sul campo, divenne celebre per la sua audacia senza limiti. Non combatteva: caricava. Non si difendeva: sfondava.

Durante le guerre rivoluzionarie e le prime campagne napoleoniche, Ney si distinse come uno dei più brillanti e temerari comandanti della cavalleria. Era impavido fino all’incoscienza, un uomo che guidava sempre in prima linea. A Elchingen, nel 1805, fu protagonista di una vittoria clamorosa che valse la resa di Ulma e gli guadagnò il titolo di "Duca di Elchingen" e, soprattutto, quello — conferito da Napoleone stesso — di le brave des braves, il più coraggioso tra i coraggiosi.

Le sue gesta in battaglia, però, erano controbilanciate da una scarsa predisposizione alla strategia complessa e dalla sua impulsività. Ney era un uomo d’azione, non un architetto della guerra. Quando Napoleone lo nominò Maresciallo dell’Impero nel 1804, lo fece perché sapeva che Ney era insostituibile quando serviva un pugno di ferro in campo aperto. A Friedland, a Wagram, a Smolensk, Ney fu presente, irruente, sempre in prima linea. Fu a Borodino, però, e nella tragica ritirata da Mosca del 1812, che Ney si guadagnò la sua immortalità.

Designato a comandare la retroguardia, Ney divenne il simbolo stesso della resistenza francese. Marciò per settimane nella neve, respingendo i russi, caricando spesso a piedi tra le rovine ghiacciate, con i vestiti a brandelli e un fucile in mano. Era l’ultimo a lasciare il suolo russo, attraversando il fiume Dniepr su una zattera improvvisata: il Leone Rosso — come lo chiamavano i soldati per la sua capigliatura infuocata — era sopravvissuto all’inferno.

Ma la caduta dell’Impero lo condusse su un sentiero tragico. Nel 1814 Ney fu tra i primi marescialli a chiedere a Napoleone di abdicare. Giurò fedeltà a Luigi XVIII, sperando di salvare la Francia da ulteriore spargimento di sangue. Quando, l’anno dopo, Bonaparte tornò dall’Elba, Ney promise al re di “portarlo in una gabbia di ferro”. Ma al solo vederlo, il vecchio leone cedette: si unì all’Imperatore, guidò le truppe a Waterloo e fu decisivo negli ultimi, furibondi attacchi contro le linee inglesi.

La sconfitta segnò il suo destino. Dopo la seconda Restaurazione, fu arrestato, processato per alto tradimento e condannato a morte. Malgrado gli appelli e le testimonianze dei suoi soldati, Luigi XVIII non volle clemenza. Ney fu fucilato al Jardin du Luxembourg, e anche nel momento finale, diede prova di una dignità che commosse perfino i suoi giustizieri.

La figura di Michel Ney rimane una delle più emblematiche dell’epopea napoleonica. Fu un guerriero puro, incapace di compromessi, fedele più agli uomini che ai regimi. Tradì un Re, poi un Imperatore, poi se stesso. Ma mai tradì la propria natura. Era un soldato e tale volle morire.

Il suo nome è inciso sull’Arco di Trionfo, ma vive soprattutto nei cuori dei veterani che lo videro caricare nella tempesta di fuoco, urlare contro la morte, sfidare la sorte. Michel Ney non fu mai un politico né un cortigiano: fu, fino all’ultimo respiro, il più coraggioso tra i coraggiosi.

venerdì 22 novembre 2024

ANDRÉ MASSÉNA: IL FIGLIO PREDILETTO DELLA VITTORIA

 


Dai bassifondi di Nizza al vertice dell’Impero, l’uomo che fu terrore dei nemici e spina nel fianco dell’Imperatore

Vi sono generali nati in accademia e altri forgiati nella polvere delle marce infinite e nel sangue delle baionette. André Masséna appartiene alla seconda stirpe: rozzo, ambizioso, geniale, inarrestabile. Conosciuto dai suoi uomini come “l’enfant chéri de la victoire”, il figlioccio della vittoria, fu tra i pochissimi ufficiali in grado di far tremare i generali nemici e, nei momenti opportuni, anche lo stesso Napoleone.

Nato a Nizza il 6 maggio 1758 da una famiglia poverissima, rimase orfano giovanissimo. A tredici anni si imbarcò come mozzo, poi disertò, poi si arruolò nell’esercito reale e, pur senza una cultura formale, si fece notare per la disciplina feroce e l’abilità nelle manovre. Quando la Rivoluzione spazzò via l’ancien régime, Masséna non esitò un istante: aderì con entusiasmo, risalendo i ranghi grazie al suo coraggio spietato e a una volontà di ferro. Nel 1793 era già generale di divisione, e da lì iniziò la sua leggenda.

Fu a Rivoli, nel 1797, che la sua stella brillò più fulgida. Accerchiato, in inferiorità numerica, resistette e poi travolse gli austriaci, guadagnandosi l’ammirazione eterna del giovane Bonaparte, che lo definì “il miglior generale che abbia mai avuto sotto di me”. Ma Masséna non era solo il soldato perfetto: era anche uno spirito libero, insofferente agli ordini, incapace di servilismo. Combatté per la Repubblica con ardore, ma mai si lasciò irreggimentare dai codici della politica o dell’etichetta.

Nel 1799, fu chiamato a difendere la Svizzera e le Alpi dai colpi congiunti degli austriaci e dei russi. A Zurigo, in uno degli scontri più memorabili delle guerre rivoluzionarie, inflisse una pesante sconfitta al leggendario generale Suvorov, ribaltando le sorti della campagna e consolidando il dominio francese sulla regione. Masséna aveva combattuto con la fame, con le malattie e con truppe allo stremo — eppure aveva vinto. La sua capacità di ispirare i soldati, di tirare fuori risorse dall’impossibile, fu paragonata a quella degli antichi condottieri.

Nel 1804, fu uno dei primi ad essere insigniti del titolo di Maresciallo dell’Impero. Ma col passaggio dall’epopea rivoluzionaria alla struttura imperiale, cominciarono anche le tensioni. Masséna si adattò a fatica al nuovo ordine. Abituato a saccheggiare per mantenere le truppe e sé stesso, fu accusato di arricchimenti illeciti — dicerie che contribuirono alla sua fama leggendaria di uomo avido ma ineguagliabile in battaglia.

Durante la campagna d’Italia del 1805, e poi a Wagram nel 1809, confermò il suo valore con manovre geniali. Ma fu in Portogallo, nel 1810, che la sua parabola subì una flessione. Inviato a guidare la campagna contro Wellington, Masséna si trovò di fronte a un nemico ostinato, ben trincerato e sostenuto da una popolazione in rivolta. La sua avanzata fino a Lisbona fu ostacolata dalle famigerate Linee di Torres Vedras. Senza rifornimenti, con un esercito allo stremo, dovette ritirarsi. Non fu una sconfitta onorevole, ma nemmeno un crollo: Masséna riuscì comunque a preservare gran parte delle sue forze, dimostrando ancora una volta la sua eccezionale tenacia.

Napoleone, però, non perdonava gli insuccessi. La relazione fra i due, già tesa per divergenze personali e stili inconciliabili, si deteriorò irrimediabilmente. L’Imperatore lo accusò d’incapacità e Masséna, ferito nell’orgoglio, replicò in privato con dure parole. Fu progressivamente allontanato dagli incarichi più importanti, pur mantenendo il titolo e il rispetto del corpo degli ufficiali.

Durante i Cento Giorni, Masséna restò in disparte. Troppo orgoglioso per mendicare il favore imperiale, troppo lucido per inseguire un sogno già spezzato. Morì il 4 aprile 1817 a Parigi, lasciando un’eredità complessa ma imponente. Era stato un guerriero senza scrupoli, un comandante geniale, un uomo impossibile da incasellare.

Il suo nome è inciso sull’Arco di Trionfo tra i più grandi. Ma la sua memoria resta viva soprattutto nei racconti delle battaglie dove, tra fango, fumo e sangue, si gridava il suo nome con reverenza e terrore. Masséna fu l’anima indomita della guerra rivoluzionaria, il ponte tra il disordine creativo del Terrore e la disciplina glaciale dell’Impero. Non un eroe classico, ma un vincitore, nella forma più ruvida e pura che la storia possa concedere.

giovedì 21 novembre 2024

JEAN LANNES: IL LEONE DELLA REPUBBLICA E DELL’IMPERO

Il più coraggioso tra i marescialli di Napoleone, morto in piedi, come un eroe dell’antichità

In un’epoca in cui gli uomini sembravano forgiati nel bronzo e nel fuoco, Jean Lannes si distinse per un tratto che nessun nemico, battaglia o strategia poté mai offuscare: il coraggio puro, viscerale, assoluto. Non quello calcolato dei comandanti da scrivania, né quello sbandierato a fini di gloria, ma il coraggio istintivo, animale, che lo trascinava sempre un passo più avanti dei suoi soldati, al centro del fragore delle cannonate, dove la morte era una possibilità costante e accettata. Fu il più temerario, il più umano e forse il più amato tra i marescialli dell’Impero. E proprio per questo fu anche uno dei più rimpianti.

Nato nel 1769 a Lectoure, nel cuore della Guienna, Lannes venne al mondo in un’umile famiglia di artigiani tintori. Nessuna accademia militare, nessuna educazione formale: solo forza fisica, spirito indomito e un patriottismo viscerale che lo portò ad arruolarsi nel 1792, quando la Rivoluzione chiamava i suoi figli più coraggiosi. All’inizio fu un semplice volontario, poi caporale, sergente, tenente… e nel giro di pochi anni, generale. Ogni promozione se la guadagnò sul campo, con le unghie e con il sangue, guadagnandosi la stima dei suoi superiori e l’adorazione dei soldati.

Fu durante le campagne d’Italia, sotto il comando di Bonaparte, che Lannes si affermò come uno dei più brillanti comandanti del giovane esercito francese. A Arcole, prese la bandiera e la portò avanti sotto il fuoco nemico. A Rivoli, condusse cariche disperate con una calma e una ferocia impressionanti. Napoleone, che non regalava mai parole superflue, lo definì “l’uomo più coraggioso che abbia mai conosciuto”.

Durante le campagne d’Egitto, fu tra i primi a sbarcare, tra i primi a combattere, tra i pochi a non lamentarsi. E quando la Repubblica lasciò il posto all’Impero, fu tra i primi a essere nominati Maresciallo, nel 1804. Ma a differenza di altri, non dimenticò mai le sue origini popolari. Lannes restò semplice, diretto, schietto, talvolta persino volgare, ma autentico. Disprezzava l’arroganza degli aristocratici e non esitava a dire in faccia a Napoleone ciò che pensava, anche a costo di perdere favori.

Il suo talento non era solo coraggio: era anche intuito tattico, rapidità di manovra, capacità di improvvisare in condizioni impossibili. A Austerlitz, comandò l’ala sinistra con una determinazione che contribuì in modo decisivo alla vittoria. A Jena e a Friedland si confermò tra i più affidabili dei capi. Ma fu nella campagna di Spagna che Lannes iniziò a soffrire: non per le sconfitte, bensì per le atrocità, per la brutalità inutile, per la guerra senza onore. Scrisse lettere amare, disilluse, in cui traspariva un animo ormai segnato.

Nel 1809, durante la campagna contro l’Austria, Lannes fu richiamato per contribuire a fermare l’offensiva nemica. A Eckmühl, come sempre, guidò i suoi uomini dal fronte. Ma fu a Aspern-Essling, nei pressi di Vienna, che si consumò la tragedia. Il 22 maggio, mentre organizzava la difesa sul ponte del Danubio, un colpo di cannone gli tranciò entrambe le gambe. Fu trasportato via tra le lacrime dei suoi soldati, ancora cosciente, ancora impavido.

Napoleone, scosso come raramente gli accadde, andò a trovarlo personalmente. Si dice che pianse. Lannes, conscio della fine imminente, affrontò la morte con la stessa fierezza con cui aveva affrontato la guerra. Morì il 31 maggio 1809, a 40 anni, lasciando un vuoto incolmabile.

La sua morte segnò un punto di svolta. Senza Lannes, l’Impero perse non solo un comandante formidabile, ma anche una coscienza morale. Era l’unico, forse, che poteva parlare all’Imperatore come a un pari, l’unico che riusciva a mescolare onore e violenza, gloria e pietà. L’esercito perse il suo cuore, Napoleone perse il suo migliore amico, la Francia perse un eroe autentico.

Il suo nome è inciso sotto l’Arco di Trionfo, ma il vero monumento a Jean Lannes è la memoria collettiva di chi, sui campi di battaglia, vide in lui qualcosa che andava oltre la guerra: vide l’incarnazione del coraggio, dell’onore e della dedizione assoluta.

mercoledì 20 novembre 2024

LOUIS-NICOLAS DAVOUT: IL MARESCIALLO DI FERRO CHE NON CONOBBE SCONFITTA

Precisione, disciplina e lealtà assoluta: l’unico generale invincibile di Napoleone

In un’epoca dominata da personalità turbolente, impavide e spesso votate all’eccesso, Louis-Nicolas Davout rappresentò l’eccezione silenziosa e letale. Non amava i riflettori né le corti; non cercava il plauso degli aristocratici o i favori delle donne. Fu il più austero, il più disciplinato e, secondo molti storici militari, il più competente tra i Marescialli dell’Impero. Non perse mai una battaglia, e la sua dedizione cieca alla causa napoleonica lo rese tanto temuto quanto rispettato. Per questo fu soprannominato, con timore reverenziale, “il Maresciallo di Ferro”.

Nato a Annoux, in Borgogna, nel 1770, Davout proveniva da una famiglia nobile decaduta. Studiò all’École Royale Militaire e, dopo un precoce congedo, si arruolò nuovamente all'inizio della Rivoluzione, aderendo con convinzione agli ideali repubblicani. Durante le prime campagne rivoluzionarie mostrò subito qualità non comuni: freddezza nei momenti critici, lucidità strategica, rigore incrollabile.

Fu a cavallo tra il 1796 e il 1800, sotto l’occhio vigile di Bonaparte, che Davout cominciò ad affermarsi. Ma fu con l’ascesa dell’Impero che il suo talento si manifestò con forza. Nominato Maresciallo nel 1804, Davout divenne il comandante del III Corpo d’Armata, una delle unità più efficienti dell’intero esercito imperiale. Mentre altri marescialli brillavano per coraggio impetuoso o senso scenico, Davout si distingueva per l’arte della guerra applicata con precisione matematica.

Il suo capolavoro assoluto fu la battaglia di Auerstädt, 14 ottobre 1806. Con soli 27.000 uomini, affrontò e sconfisse l’esercito prussiano, forte di oltre 60.000 soldati, comandato dal duca di Brunswick. Fu una vittoria tanto spettacolare quanto decisiva, che consacrò Davout come genio tattico. Napoleone stesso, mai incline all’elogio generoso verso i subordinati, fu costretto ad ammettere: “Davout ha vinto una battaglia da solo”.

Da quel momento, la sua fama crebbe. Partecipò con distacco e efficienza alle campagne di Eylau, Wagram, Smolensk, Borodino. Ovunque il suo corpo d’armata passasse, l’ordine e la disciplina regnavano. Nessuna violenza gratuita, nessuna rapina, nessun disordine tollerato: Davout era severo, persino spietato, ma giusto. L’esercito lo temeva più dei nemici. Ed è proprio questa integrità assoluta che lo rese impopolare a corte: non adulava, non trafficava, non complottava.

Nel 1812, durante la tragica campagna di Russia, fu tra i pochi a mantenere l’ordine tra le fila in ritirata. Nonostante le perdite immense, il suo corpo rientrò in condizioni relativamente dignitose. Questo senso del dovere, unito a un odio dichiarato per l’incapacità e la corruzione, lo isolò politicamente. Dopo Lipsia, nel 1813, fu uno degli ultimi a cedere il passo.

Con la caduta di Napoleone nel 1814, Davout si ritirò, ma durante i Cento Giorni tornò al servizio dell’Imperatore con feroce energia. Fu nominato Ministro della Guerra, incarico che svolse con una dedizione quasi maniacale. Quando tutto crollò a Waterloo, fu lui a difendere Parigi sino all’ultimo. Mentre altri marescialli cercavano scappatoie o negoziati, Davout si preparava a combattere fino alla fine, pur sapendo che la causa era persa. Solo l’ordine diretto di Napoleone gli impedì una resistenza che avrebbe trasformato Parigi in un campo di rovine.

Dopo la Restaurazione, fu esiliato dalla vita militare, ma non perseguitato come altri suoi colleghi. Forse i Borbone temevano il suo rigore, ma non potevano imputargli eccessi. Nel 1817 gli fu concesso di tornare alla vita pubblica come Pari di Francia, ma morì prematuramente nel 1823, a soli 53 anni.

Il suo nome, inciso sull’Arco di Trionfo, non richiama l’immaginario romantico di Murat né l’impeto furioso di Ney. Ma per chi studia l’arte della guerra, Davout rappresenta l’eccellenza assoluta: colui che, più di ogni altro, coniugò la dottrina con la pratica, il comando con la morale, la lealtà con l’efficienza. In lui, Napoleone trovò non un semplice esecutore, ma un alter ego militare, immune da ambizioni personali, capace di vincere per dovere, non per vanità.

La sua eredità, come quella dei più grandi strateghi, non si misura nei proclami, ma nei risultati: e Davout non perse mai una battaglia. Questo, in un’epoca di giganti e illusioni, resta il suo monumento più alto.

martedì 19 novembre 2024

JOACHIM MURAT, IL CAVALIERE DELL’IMPERO: ASCESA E CADUTA DEL RE CHE VOLEVA VOLARE TROPPO IN ALTO

Dalle scuderie di Cahors al trono di Napoli, il destino leggendario del maresciallo più audace di Napoleone

Fra tutti i marescialli dell’Impero napoleonico, nessuno incarna con maggiore intensità lo spirito romantico, impetuoso e contraddittorio dell’epoca quanto Joachim Murat. Fu il più spettacolare, il più teatrale, forse il più coraggioso, certamente il più ambizioso. Cavaliere impavido, re per volere imperiale, infine traditore e martire: la sua vita fu una parabola straordinaria, che si elevò sulle ali della gloria per poi schiantarsi nella polvere dell'esilio e del piombo.

Nato nel 1767 a Labastide-Fortunière, nel cuore dell’Occitania, figlio di un modesto oste, Murat avrebbe dovuto farsi frate. Ma il destino, e la Rivoluzione, avevano altri piani. Sedotto dall’ideale rivoluzionario e attratto da tutto ciò che scintillava di gloria e pericolo, si arruolò nella cavalleria francese nel 1787. Il suo talento era innato: eccelleva nel comando come nell’audacia, e la sua figura slanciata, i lunghi capelli neri, l’uniforme sgargiante lo rendevano una presenza scenica irresistibile. Era il ritratto vivente del nuovo eroe francese: guerriero, patriota, conquistatore.

Fu al fianco di Bonaparte sin dagli albori della sua folgorante carriera: a Tolone, a Lodi, in Egitto, dove la sua cavalleria sbaragliò la resistenza mamelucca al Cairo. Il generale còrso lo notò, lo valorizzò, se ne innamorò quasi. E non solo militarmente: Murat sposò nel 1800 Carolina Bonaparte, la più ambiziosa delle sorelle dell’Imperatore. Il legame con la famiglia imperiale consolidò la sua posizione e ne accelerò l’ascesa.

Nel 1804 fu insignito del bastone di Maresciallo dell’Impero, e due anni dopo ricevette il trono di Napoli, succedendo a Giuseppe Bonaparte. Da allora, Murat non fu più soltanto un comandante di cavalleria, ma un sovrano. E non un sovrano qualsiasi: volle essere un monarca moderno, amato dal popolo, riformatore, illuminato. Fece costruire strade, riorganizzò l’esercito napoletano, promosse l’istruzione, abbellì la capitale. Ma l’anima del guerriero non conobbe mai pace: Murat restava un soldato in cerca di battaglie, più che un politico in cerca di stabilità.

Nel frattempo, la guerra contro le monarchie europee si intensificava. Murat fu protagonista assoluto delle campagne del 1805 e 1807, distinguendosi a Jena, Eylau, Friedland. La sua cavalleria, lanciata a briglia sciolta sul campo di battaglia, era la quintessenza dello stile murattiano: tempestosa, teatrale, travolgente. A Eylau, si racconta che la sua carica disperata salvò l’esercito francese dall’annientamento.

Eppure, dietro lo sfarzo dell’uniforme ricamata d’oro, Murat coltivava un’ambizione pericolosa: sognava di essere non il braccio di Napoleone, ma un sovrano indipendente, un re d’Italia, forse persino un successore dell’Imperatore. Quando l’Impero iniziò a vacillare, Murat rivelò il volto tragico del suo carattere: la sua lealtà cominciò a vacillare.

Nel 1814, temendo per il proprio trono e fiutando il crollo imminente di Napoleone, Murat negoziò in segreto con gli austriaci, passando al nemico. Fu un gesto che gli garantì qualche mese di sovranità, ma gli costò l’onore. Quando Napoleone fuggì dall’Elba, Murat tentò disperatamente di riconciliarsi con lui e lanciò una nuova campagna per l’unificazione italiana, nel sogno di trasformarsi da vassallo a protagonista. Ma l’Italia non rispose al suo appello, e l’esercito napoletano fu annientato a Tolentino nel maggio 1815.

Fuggitivo, braccato, abbandonato persino dalla moglie Carolina, Murat tentò l’ultimo, folle colpo di scena: sbarcare in Calabria, sollevare il Sud e riconquistare il trono. Il piano si rivelò suicida. Arrestato a Pizzo, in Calabria, fu processato sommariamente e fucilato il 13 ottobre 1815. Chiese di morire in piedi, senza benda sugli occhi, e comandò lui stesso il plotone d’esecuzione: “Soldati, mirate al cuore, risparmiate il volto!”, furono le sue ultime parole.

Così morì Joachim Murat, re di Napoli, cavaliere dell’Impero, figlio della Rivoluzione e vittima della propria ambizione. Il suo nome campeggia sull’Arco di Trionfo, ma il suo mito sopravvive soprattutto nel Sud, dove il suo sogno di indipendenza nazionale, benché tardivo e contraddittorio, anticipò le future lotte del Risorgimento.

In Murat si specchia l’epoca napoleonica in tutta la sua vertigine: grandezza e caduta, gloria e tradimento, idealismo e vanità. Fu un uomo troppo audace per la prudenza, troppo romantico per la politica, troppo solo per sopravvivere. Eppure, nella sua morte spettacolare, riconquistò quella nobiltà che le sue scelte politiche gli avevano negato.

lunedì 18 novembre 2024

IL CAVALIERE DELL’AQUILA: JEAN-BAPTISTE BESSIÈRES, L’EROE LEALE DI NAPOLEONE

Dall’altopiano d’Alvernia al cuore dell’Impero, l’ascesa di un soldato fedele fino alla morte

In un’epoca dominata da ambizione e tradimenti, Jean-Baptiste Bessières rappresentò un raro esempio di fedeltà incrollabile. Nobile d’animo prima che di nascita, maresciallo dell’Impero e duca d’Istria, egli incarna quella cavalleria che sopravvisse — anzi, brillò — nell’età della polvere da sparo e dei colpi di Stato. Se Berthier fu la mente dell’Impero, Bessières ne fu il cuore pulsante sul campo: coraggioso, diretto, irreprensibile, ma mai arrogante.

Nato nel 1768 a Prayssac, nel dipartimento del Lot, da una modesta famiglia di provincia, il giovane Bessières fu inizialmente avviato alla carriera ecclesiastica. Ma i tempi erano impietosi per le vocazioni, e l’esplosione rivoluzionaria lo spinse verso il mestiere delle armi. Arruolatosi come semplice volontario, mise ben presto in luce qualità tanto rare quanto preziose: audacia, spirito di sacrificio, senso della disciplina e un’innata capacità di guidare gli uomini.

Fu nell’Armata d’Italia, sotto il comando di Bonaparte, che Bessières si distinse per la prima volta, guadagnandosi la fiducia del futuro Imperatore. Non per caso, nel 1796 fu scelto per guidare la Guardia Consolare, che diventerà poi la leggendaria Guardia Imperiale: un’unità d’élite, temuta dagli avversari e venerata dai compagni d’arme. In questa carica, Bessières fu più che un comandante: fu il custode dell’onore stesso dell’Impero.

La sua figura spicca in numerose battaglie fondamentali: a Marengo, quando la Guardia Consolare resistette al momento più critico dello scontro, salvando l’esercito dalla disfatta; a Austerlitz, dove la sua cavalleria contribuì alla rottura decisiva delle linee austro-russe; a Friedland, dove guidò cariche spettacolari con la risolutezza di un antico paladino. In ogni occasione, Bessières non mancò mai al dovere e divenne presto uno degli uomini di fiducia più stretti di Napoleone, quasi un fratello d’armi.

Nel 1804 fu nominato Maresciallo dell’Impero, e nel 1809, dopo la campagna d’Austria, fu insignito del titolo di Duca d’Istria. Nonostante la crescente ambizione di molti colleghi marescialli — da Murat a Bernadotte, da Masséna a Ney — Bessières rimase leale, alieno da ogni velleità politica, concentrato unicamente sull’adempimento del proprio compito. Questa sua fedeltà fu forse la sua più grande virtù, ma anche, in un certo senso, il limite della sua ascesa. Mai tentò di offuscare Napoleone; mai cospirò per ottenere un regno; mai antepose il proprio tornaconto all’interesse della causa imperiale.

Nel 1812 prese parte alla disastrosa campagna di Russia, distinguendosi ancora una volta per coraggio e sangue freddo, riuscendo a mantenere l’ordine tra le fila francesi in rotta durante la tragica ritirata. Ma fu nel 1813, durante la campagna di Germania, che il destino decise di congedarlo dal mondo dei vivi.

Il 1º maggio, a pochi giorni dalla battaglia di Lützen, mentre effettuava un’ispezione sul campo nei pressi di Rippach, un colpo di cannone lo colpì in pieno. Morì sul colpo, senza clamore, senza retorica. La notizia della sua morte giunse a Napoleone poche ore prima dello scontro: l’Imperatore rimase profondamente scosso. “È una grande perdita per me”, dichiarò, “ha vissuto come Bayard ed è morto come Turenne”.

La morte di Bessières privò la Francia di uno dei suoi marescialli più equilibrati e amati. La Guardia lo pianse come un padre; Napoleone come un fratello. Non a caso volle che il suo corpo fosse sepolto con tutti gli onori nel Panthéon, anche se le esequie solenni avvennero solo sotto Luigi XVIII, quando l’odio monarchico verso i generali dell’Impero si era ormai stemperato nel rispetto.

Il nome di Jean-Baptiste Bessières è inciso sull’Arco di Trionfo, eppure la sua memoria vive soprattutto nel rispetto silenzioso che gli fu tributato dai suoi pari. Egli non cercò mai la gloria per sé, ma ne fu inondato proprio per la sua modestia, la sua disciplina, la sua integrità.

Mentre molti dei marescialli dell’Impero finirono per tradire, fallire o tentennare, Bessières rimase ciò che era stato fin dall’inizio: un soldato onesto, devoto e giusto. In un secolo di spade affilate e lingue biforcute, questo lo rese straordinario.

domenica 17 novembre 2024

IL PRIMO ARCHITETTO DELLE VITTORIE DI NAPOLEONE

Louis-Alexandre Berthier, il genio invisibile dello Stato Maggiore imperiale

Tra le figure titaniche che plasmarono il volto militare dell’Europa nel vortice rivoluzionario e imperiale francese, Louis-Alexandre Berthier rimane, forse più di ogni altro, il simbolo del genio metodico, dell’efficienza silenziosa e del rigore assoluto che fecero da colonna vertebrale all’arte della guerra di Napoleone. Dietro le grandi cariche onorifiche — Principe di Neuchâtel, Duca di Valangin, Principe di Wagram — si cela un uomo la cui vera grandezza non si misurò sul campo tra le sabbie e le baionette, ma tra carte, dispacci e carte topografiche.

Berthier non fu un condottiero nel senso classico. Non incantava le truppe con proclami o gesti teatrali. Eppure, senza di lui, l’epopea napoleonica avrebbe probabilmente vacillato ancor prima di Marengo. Nato nel 1753 a Versailles, figlio di un ufficiale del Genio sotto Luigi XVI, Berthier fu allevato nel culto della precisione e dell’ordine. Entrò nell’esercito a diciassette anni, e dopo un decennio trascorso in Nord America, al fianco delle truppe francesi nella guerra d’indipendenza americana, tornò in patria con il grado di colonnello. Ma fu la Rivoluzione a dargli l’occasione di distinguersi definitivamente.

All’inizio fu comandante della Guardia nazionale a Versailles, legato ancora a un certo idealismo monarchico, tanto da aiutare nella fuga le sorelle del re. Ma presto si adattò ai nuovi tempi. Nella campagna delle Argonne si fece notare per la lucidità operativa. Quando nel 1796 Napoleone Bonaparte ottenne il comando dell’Armata d’Italia, fu proprio Berthier a diventare la sua ombra e il suo doppio organizzativo. Lo resterà per quasi vent’anni.

La sintonia tra i due uomini era perfetta: Napoleone dettava l’idea, Berthier la traduceva in un piano. L’imperatore descrisse il suo collaboratore come “indispensabile”, un elogio rarissimo da parte sua. In effetti, senza la struttura operativa ideata da Berthier, le geniali intuizioni strategiche di Napoleone sarebbero spesso rimaste sulla carta. Berthier conosceva a memoria ogni reparto, ogni ufficiale, ogni esigenza logistica delle armate imperiali. Coordinava marce su scala continentale con una rapidità che lasciava disorientati anche i più scettici strateghi avversari. Il segreto? Rigorosa pianificazione, chiarezza d’intenti, e una dedizione ossessiva al dettaglio.

Dopo la pace di Campoformio, fu lui a occupare Roma, proclamando la Repubblica Romana nel 1798. Partecipò alla campagna d’Egitto e fu tra i registi del colpo di Stato del 18 Brumaio, che segnò la fine del Direttorio e l’ascesa di Bonaparte al Consolato. Come Ministro della Guerra, riorganizzò l’esercito francese prima della campagna del 1800, dove a Marengo, pur non avendo un comando diretto, si distinse ancora una volta nella logistica dell'Armata di Riserva, traversando le Alpi con migliaia di uomini e cannoni — impresa memorabile per precisione e tempismo.

Berthier fu nominato Maresciallo dell’Impero nel 1804, primo nella lista per anzianità e merito. Seguì Napoleone in tutte le principali campagne — da Austerlitz a Jena, da Friedland a Wagram — sempre come capo di Stato Maggiore. La sua influenza crebbe fino a ottenere titoli principeschi. Eppure rimase un uomo schivo, privo della vanità di molti suoi colleghi marescialli.

Nel 1812, nella disastrosa campagna di Russia, fu ancora una volta al centro della macchina militare francese, ma fu lì che cominciarono a manifestarsi segni di esaurimento: l’immensità del teatro di guerra, l’impossibilità di mantenere comunicazioni efficaci, e la dispersione delle truppe misero in crisi anche la sua leggendaria efficienza. Lo stesso accadde in Germania e in Francia nel 1813-1814. Dopo l’abdicazione di Napoleone, Berthier si ritirò nei suoi feudi, accompagnando Luigi XVIII a Parigi, ma mantenendosi defilato.

Quando giunse la notizia del ritorno di Napoleone dall’Elba, Berthier esitò. Non si unì all’Imperatore, né si schierò apertamente contro di lui. Poco dopo si ritirò nel suo castello di Bamberga, dove il 1º giugno 1815 morì in circostanze mai chiarite: cadde da una finestra del terzo piano. Fu un incidente? Un suicidio? O un assassinio orchestrato per impedirgli di riabbracciare il suo antico signore? La verità resta sepolta con lui.

Napoleone, da Sant’Elena, non ebbe dubbi: la sua assenza fu decisiva. “Se Berthier fosse stato con me a Waterloo, l’esito della battaglia sarebbe potuto essere diverso”. È difficile stabilirlo con certezza, ma ciò che è certo è che nessun altro maresciallo impersonò la razionalità dell’Impero come Louis-Alexandre Berthier. Non era il volto della guerra, ma la mente che la rendeva possibile.