domenica 17 novembre 2024

IL PRIMO ARCHITETTO DELLE VITTORIE DI NAPOLEONE

Louis-Alexandre Berthier, il genio invisibile dello Stato Maggiore imperiale

Tra le figure titaniche che plasmarono il volto militare dell’Europa nel vortice rivoluzionario e imperiale francese, Louis-Alexandre Berthier rimane, forse più di ogni altro, il simbolo del genio metodico, dell’efficienza silenziosa e del rigore assoluto che fecero da colonna vertebrale all’arte della guerra di Napoleone. Dietro le grandi cariche onorifiche — Principe di Neuchâtel, Duca di Valangin, Principe di Wagram — si cela un uomo la cui vera grandezza non si misurò sul campo tra le sabbie e le baionette, ma tra carte, dispacci e carte topografiche.

Berthier non fu un condottiero nel senso classico. Non incantava le truppe con proclami o gesti teatrali. Eppure, senza di lui, l’epopea napoleonica avrebbe probabilmente vacillato ancor prima di Marengo. Nato nel 1753 a Versailles, figlio di un ufficiale del Genio sotto Luigi XVI, Berthier fu allevato nel culto della precisione e dell’ordine. Entrò nell’esercito a diciassette anni, e dopo un decennio trascorso in Nord America, al fianco delle truppe francesi nella guerra d’indipendenza americana, tornò in patria con il grado di colonnello. Ma fu la Rivoluzione a dargli l’occasione di distinguersi definitivamente.

All’inizio fu comandante della Guardia nazionale a Versailles, legato ancora a un certo idealismo monarchico, tanto da aiutare nella fuga le sorelle del re. Ma presto si adattò ai nuovi tempi. Nella campagna delle Argonne si fece notare per la lucidità operativa. Quando nel 1796 Napoleone Bonaparte ottenne il comando dell’Armata d’Italia, fu proprio Berthier a diventare la sua ombra e il suo doppio organizzativo. Lo resterà per quasi vent’anni.

La sintonia tra i due uomini era perfetta: Napoleone dettava l’idea, Berthier la traduceva in un piano. L’imperatore descrisse il suo collaboratore come “indispensabile”, un elogio rarissimo da parte sua. In effetti, senza la struttura operativa ideata da Berthier, le geniali intuizioni strategiche di Napoleone sarebbero spesso rimaste sulla carta. Berthier conosceva a memoria ogni reparto, ogni ufficiale, ogni esigenza logistica delle armate imperiali. Coordinava marce su scala continentale con una rapidità che lasciava disorientati anche i più scettici strateghi avversari. Il segreto? Rigorosa pianificazione, chiarezza d’intenti, e una dedizione ossessiva al dettaglio.

Dopo la pace di Campoformio, fu lui a occupare Roma, proclamando la Repubblica Romana nel 1798. Partecipò alla campagna d’Egitto e fu tra i registi del colpo di Stato del 18 Brumaio, che segnò la fine del Direttorio e l’ascesa di Bonaparte al Consolato. Come Ministro della Guerra, riorganizzò l’esercito francese prima della campagna del 1800, dove a Marengo, pur non avendo un comando diretto, si distinse ancora una volta nella logistica dell'Armata di Riserva, traversando le Alpi con migliaia di uomini e cannoni — impresa memorabile per precisione e tempismo.

Berthier fu nominato Maresciallo dell’Impero nel 1804, primo nella lista per anzianità e merito. Seguì Napoleone in tutte le principali campagne — da Austerlitz a Jena, da Friedland a Wagram — sempre come capo di Stato Maggiore. La sua influenza crebbe fino a ottenere titoli principeschi. Eppure rimase un uomo schivo, privo della vanità di molti suoi colleghi marescialli.

Nel 1812, nella disastrosa campagna di Russia, fu ancora una volta al centro della macchina militare francese, ma fu lì che cominciarono a manifestarsi segni di esaurimento: l’immensità del teatro di guerra, l’impossibilità di mantenere comunicazioni efficaci, e la dispersione delle truppe misero in crisi anche la sua leggendaria efficienza. Lo stesso accadde in Germania e in Francia nel 1813-1814. Dopo l’abdicazione di Napoleone, Berthier si ritirò nei suoi feudi, accompagnando Luigi XVIII a Parigi, ma mantenendosi defilato.

Quando giunse la notizia del ritorno di Napoleone dall’Elba, Berthier esitò. Non si unì all’Imperatore, né si schierò apertamente contro di lui. Poco dopo si ritirò nel suo castello di Bamberga, dove il 1º giugno 1815 morì in circostanze mai chiarite: cadde da una finestra del terzo piano. Fu un incidente? Un suicidio? O un assassinio orchestrato per impedirgli di riabbracciare il suo antico signore? La verità resta sepolta con lui.

Napoleone, da Sant’Elena, non ebbe dubbi: la sua assenza fu decisiva. “Se Berthier fosse stato con me a Waterloo, l’esito della battaglia sarebbe potuto essere diverso”. È difficile stabilirlo con certezza, ma ciò che è certo è che nessun altro maresciallo impersonò la razionalità dell’Impero come Louis-Alexandre Berthier. Non era il volto della guerra, ma la mente che la rendeva possibile.

sabato 16 novembre 2024

Guillaume Brune: l’ultimo eroe della Repubblica travolto dalla furia della Restaurazione

Guillaume Marie Anne Brune, Maresciallo di Francia e patriota della prima ora, cadde non sul campo di battaglia, ma sotto i colpi di una nazione ormai lacerata dalla vendetta politica e dal fanatismo restauratore. Il suo assassinio, avvenuto nell’estate del 1815, rappresenta uno dei più tragici epiloghi del Terrore bianco che infiammò la Francia dopo la disfatta di Waterloo. A distanza di oltre due secoli, la vicenda di Brune merita di essere riletta nella sua interezza: non solo per l’influenza che egli esercitò sul corso della Rivoluzione e delle guerre napoleoniche, ma anche per la brutale ingratitudine con cui la Storia gli ha chiuso il conto.

Nato nel 1763 a Brive-la-Gaillarde, figlio di un magistrato, Brune ricevette un’istruzione borghese e raffinata, culminata nello studio del diritto a Parigi. Spirito inquieto e amante delle lettere, affiancò all’apprendistato giuridico un’attività editoriale e letteraria che culminò con la pubblicazione – sotto pseudonimo – di un’opera in prosa dal titolo Voyage pittoresque et sentimental dans les provinces occidentales de la France. Ma sarà il fragore della Rivoluzione a strapparlo ai salotti per condurlo alla milizia.

Arruolatosi con entusiasmo tra i ranghi dei patrioti, Brune divenne presto capitano, imponendosi come uno dei fondatori del Club dei Cordiglieri. Fu in questi circoli radicali, assieme a figure come Jean-Paul Marat, che maturò la sua adesione piena ai principi rivoluzionari. Fu, nondimeno, proprio l’integralismo repubblicano a forgiarne la fama ambivalente: acclamato per il coraggio, temuto per l’intransigenza. Incaricato della repressione dei controrivoluzionari a partire dal 1792, Brune assolse con zelo ai compiti di polizia, mostrando una durezza che ancora oggi divide gli storici.

Le sue prime prove militari furono segnate dal fuoco della repressione interna: nel 1796, al fianco di Bonaparte, sedò con metodi feroci i moti nel sud della Francia, guadagnandosi l'odio eterno degli avignonesi. Tuttavia, sul piano strettamente militare, seppe distinguersi per valore e capacità tattica. Dopo essersi distinto sotto Massena in Italia, fu promosso generale di divisione e, nel 1798, guidò con successo la campagna di conquista della Svizzera. La sua efficienza gli valse la guida dell’Armata d’Italia e, successivamente, il comando supremo nei Paesi Bassi, dove sconfisse le truppe anglo-russe nella decisiva battaglia di Castricum (6 ottobre 1799), costringendo Londra a rinunciare all’invasione.

Ma con l’ascesa di Napoleone e la centralizzazione del potere, Brune – spirito ribelle e repubblicano convinto – divenne una figura scomoda. Fedelissimo agli ideali del 1789, accettò a fatica il nuovo ordine bonapartista. Nonostante ciò, fu nominato Maresciallo dell’Impero nel 1804, forse più come omaggio simbolico alla memoria rivoluzionaria che per reale convinzione. Emarginato dalla scena principale, fu relegato a incarichi secondari: dapprima ambasciatore a Istanbul, dove non riuscì a impressionare il sultano, poi governatore delle città anseatiche. La gloria delle grandi battaglie gli fu preclusa, e quando si ritirò a vita privata fu con l’amaro in bocca.

Nel 1815, con il ritorno di Napoleone dall’Elba, Brune tornò brevemente alla ribalta, ma non per servire l’Impero, quanto per tentare ancora una volta di riportare un fragile equilibrio fra la Francia e il suo passato rivoluzionario. Il suo proclama ai soldati, ispirato e pacificatore, fu la sua ultima testimonianza pubblica. Ma la furia della Restaurazione lo travolse. Dopo Waterloo, ormai privo di protezioni e isolato politicamente, fu assalito da una folla armata ad Avignone. Rifiutò di fuggire. «Fate pure», disse scoprendosi il petto. Guindon de la Roche, un veterano monarchico, gli sparò a bruciapelo. Il suo cadavere fu oltraggiato e gettato nel Rodano, come quello di un traditore qualunque.

Napoleone, dall’esilio di Sant’Elena, lo ricordò con queste parole: «Brune fu un eroe della Repubblica, non dell’Impero». In questa affermazione si legge l’essenza di un uomo rimasto fedele, fino all’ultimo respiro, ai princìpi di libertà e giustizia sociale per i quali aveva combattuto. Il suo nome, inciso al 14º posto sulla colonna 23 dell’Arco di Trionfo, resta uno dei pochi omaggi ufficiali a un personaggio che la Storia ha preferito dimenticare.

In un tempo in cui le democrazie moderne affrontano nuove minacce, la parabola tragica di Guillaume Brune ci ammonisce: i principi non si barattano, e la fedeltà alla coscienza è spesso più pericolosa della guerra stessa.

venerdì 15 novembre 2024

GLI UOMINI DELL’IMPERO: BESSIÈRES E LA LEALTÀ ALLE ARMI DI NAPOLEONE

Da allievo modello a duca d'Istria, il destino di Jean-Baptiste Bessières fu forgiato tra le tempeste della Rivoluzione francese e le glorie dell’Impero. Il ritratto di un comandante fedele, valoroso, ma segnato da un’ambivalenza decisiva nei momenti critici.

Pochi uomini seppero incarnare, con la stessa fierezza e tragica coerenza, lo spirito militare dell’età napoleonica come Jean-Baptiste Bessières, duca d’Istria. Nato nel 1768 da una famiglia borghese – figlio di un barbiere agiato – fu la Rivoluzione a spalancargli le porte di una carriera altrimenti inaccessibile. Ma se la Repubblica gli offrì il trampolino, fu Napoleone Bonaparte a scolpire il suo destino, trasformandolo in uno dei pilastri dell’Armata imperiale.

Studente brillante al collegio reale di Cahors, Bessières fu travolto dall’entusiasmo rivoluzionario e si arruolò nella Guardia nazionale insieme a Gioacchino Murat, l’amico di sempre, che come lui sarebbe emerso dalle battaglie per diventare re. La sua adesione agli ideali rivoluzionari fu sincera, ma non disgiunta da un lucido calcolo: nella nuova era, i talenti militari avevano finalmente modo di emergere, indipendentemente dalla nascita.

La svolta arrivò nel 1795, con l’ingresso nell’Armata d’Italia. Fu lì che conobbe Bonaparte. Rapidamente conquistò la sua fiducia con un misto di audacia e disciplina, tanto da essere nominato comandante delle sue guardie del corpo. Ad Arcole e poi in Egitto, Bessières non brillò tanto per imprese spettacolari quanto per la sua instancabile devozione alla figura del generale corso. Al suo ritorno in Francia, la fedeltà fu premiata: durante il colpo di Stato del 18 brumaio (9 novembre 1799), sostenne decisivamente Napoleone, ottenendo il comando della nuova Guardia Consolare, divenuta poi Guardia Imperiale.

Le campagne del primo impero segnarono l’ascesa definitiva del futuro maresciallo. A Marengo, nel 1800, fu uno degli artefici del successo. Nel 1804 ricevette la dignità di Maresciallo dell’Impero, un’onorificenza che suggellava non solo la sua bravura militare ma anche un legame personale, intimo e privilegiato con l’Imperatore.

Austerlitz (1805) e Eylau (1807) furono i campi su cui la sua fama crebbe. Alla guida della Guardia, Bessières incarnava lo spirito più puro dell’élite militare napoleonica: rigore, disciplina, prontezza. Ma fu in Spagna, teatro aspro e incerto della resistenza popolare e della guerriglia, che emerse un lato meno noto del comandante. A Medina de Rio Seco (1808), inflisse una dura sconfitta alle forze anglo-spagnole di Joaquín Blake, dimostrando determinazione e spietatezza. Ma proprio in questa guerra logorante affiorarono i limiti di Bessières: la sua riluttanza ad assumersi la piena responsabilità strategica, un’indecisione operativa che rese evidente l’inadeguatezza a comandare eserciti in autonomia.

Sostituito temporaneamente, tornò in scena durante la campagna d’Austria del 1809. Ad Aspern-Essling, con i suoi cavalleggeri della riserva, salvò dall’accerchiamento i marescialli Lannes e Masséna. Ma ancora una volta si vide la dicotomia del personaggio: grande esecutore, fedele e brillante nell’azione, ma incapace di gestire con energia le complessità del comando supremo. Era, in fondo, l’uomo perfetto per una posizione subordinata – fedele esecutore, mai leader carismatico.

Rientrato in Spagna nel 1811, il suo compito si rivelò impossibile: truppe scarse, logistica in crisi, l’avanzata anglo-portoghese guidata da Wellington. Bessières fece quello che poté. Fu richiamato in patria, e con la campagna di Russia (1812) il suo ruolo fu ridotto al comando della cavalleria della Guardia. La ritirata segnò un punto di rottura in tutta la struttura dell’armata imperiale, ma Bessières sopravvisse, pronto a servire ancora.

Il 1º maggio 1813, durante la campagna di Germania, mentre ispezionava le posizioni nemiche nei pressi di Lützen, fu colpito da una granata. Morì sul colpo. La sua perdita, in un momento critico per l’Impero, fu un colpo durissimo anche per lo stesso Napoleone, che da Sant’Elena rievocò con amarezza quell’assenza: «Se avessi avuto Bessières a Waterloo, la mia Guardia mi avrebbe dato la vittoria».

Quella frase, più che un elogio postumo, è la testimonianza della fiducia assoluta che Napoleone riponeva in lui. Bessières non fu mai un genio tattico come Davout, né un trascinatore di eserciti come Masséna. Ma fu, con ogni evidenza, uno dei pochissimi che rimasero sempre e solo suoi. Senza ambizioni politiche, senza tradimenti, senza doppiezze. Morì soldato, come era vissuto. E nella sua figura si specchia tutta la parabola dell’epopea napoleonica: dall’entusiasmo rivoluzionario al crollo finale, passando per la gloria, la lealtà e, in fondo, la solitudine del comando.

giovedì 14 novembre 2024

Louis Alexandre Berthier: l’ombra perfetta di Napoleone e l’enigma di una morte senza verità

Architetto silenzioso delle più grandi vittorie napoleoniche, Berthier fu lo stratega invisibile dell’Impero. Il suo genio logistico, la sua discrezione e la sua tragica fine gettano ancora oggi una lunga ombra sull’epopea di Bonaparte.

Nella sterminata galleria di figure che popolarono l’epopea napoleonica, poche furono tanto decisive e al contempo tanto elusivamente silenziose quanto Louis Alexandre Berthier. Uomo di numeri più che di retorica, genio dell’organizzazione più che delle cariche a cavallo, Berthier fu l’indispensabile braccio destro di Napoleone Bonaparte in ogni campagna dall’Italia all’Egitto, dalla Spagna alla Russia, sino all’ultimo crollo dell’Impero. Morì in circostanze oscure nel giugno del 1815, appena prima di Waterloo, lasciando dietro di sé un vuoto che molti storici ritengono abbia pesato sull’epilogo della parabola imperiale.

Nato a Versailles il 20 novembre 1753, in un’epoca in cui l’assolutismo monarchico sembrava scolpito nella pietra, Berthier fu avviato alla carriera militare dal padre, ufficiale del Genio, e presto manifestò un talento raro per la pianificazione e la precisione. A diciassette anni era già nell’esercito; nel 1773 fu inviato in Nord America, dove si distinse durante la Guerra d’Indipendenza e maturò un’esperienza che si sarebbe rivelata cruciale nella tempesta rivoluzionaria.

Durante la Rivoluzione francese, Berthier si mostrò fedele al nuovo ordine pur mantenendo una linea prudente e defilata. Fu comandante della Guardia nazionale a Versailles, svolgendo un ruolo ambiguo nell’aiutare la fuga delle sorelle di Luigi XVI, ma senza mai compromettersi apertamente. Nel 1793, dopo un breve esilio dalla vita militare a seguito della fuga del generale La Fayette verso gli austriaci, si arruolò volontariamente nell’Armata dell’Ovest e si distinse nella guerra delle Vandea.

La vera svolta avvenne nel 1796, quando fu nominato capo di Stato Maggiore dell’Armata d’Italia, sotto il comando di un giovane e ambizioso generale corso: Napoleone Bonaparte. Tra i due si instaurò un rapporto di perfetta complementarità. Bonaparte dettava visione e strategia, Berthier eseguiva con rigore, velocità e precisione. Se il genio del futuro imperatore fu la scintilla delle vittorie, Berthier ne fu il motore organizzativo: compilava ordini, spostava armate, faceva muovere centinaia di migliaia di uomini come pedine su una scacchiera.

Dopo la vittoriosa campagna d’Italia, fu incaricato nel 1797 dell’occupazione di Roma, esautorando papa Pio VI e proclamando la Repubblica Romana. Al fianco di Bonaparte in Egitto, sostenne anche il colpo di Stato del 18 brumaio e fu ricompensato con il Ministero della Guerra nel nuovo regime. A Marengo, guidò l’Armata di Riserva con abilità e fu ferito in combattimento. Fu il primo maresciallo dell’Impero, il depositario della macchina bellica napoleonica.

Berthier non fu mai un condottiero carismatico, ma seppe dare forma concreta ai sogni di grandezza dell’Imperatore. Lo dimostrò ad Austerlitz, Jena, Friedland, nella campagna di Spagna, in quella d’Austria e in Russia, dove orchestrò la logistica di un’armata che si sarebbe infranta contro l’inverno e l’ostilità del territorio. Dal 1806 al 1809 fu nominato duca di Valengin, principe di Neuchâtel e infine principe di Wagram, titoli che sancivano il suo ruolo chiave nell’Impero.

Ma dietro la dedizione totale alla causa napoleonica, Berthier mantenne sempre una singolare prudenza politica. Quando Napoleone abdicò nel 1814, egli accompagnò Luigi XVIII nella sua solenne entrata a Parigi, evitando scelte che lo potessero compromettere. Tuttavia, la notizia della fuga di Napoleone dall’Elba nel marzo 1815 lo colse impreparato. Non vi sono prove certe della sua reazione: pare si sia ritirato nei suoi possedimenti a Bamberga, in Baviera, isolandosi.

La sua morte, avvenuta il 1º giugno 1815 — caduta da una finestra del terzo piano del castello — resta tuttora un enigma. Ufficialmente considerata accidentale, la dinamica ha lasciato spazio a ipotesi inquietanti: suicidio? Omicidio? Un incidente orchestrato da chi voleva impedirgli di raggiungere Napoleone? In assenza di prove, la storiografia tende a escludere il suicidio, incompatibile con il carattere lucido e metodico del maresciallo.

Quel che è certo è che a Waterloo Napoleone si trovò per la prima volta senza il suo fedele capo di Stato Maggiore. Le cronache della battaglia parlano di confusione negli ordini, di ritardi nei movimenti delle truppe, di una macchina militare che, priva del suo perno, non funzionava più come un tempo. Molti, da allora, hanno ipotizzato che l’assenza di Berthier abbia giocato un ruolo determinante nella sconfitta.

Figura tanto centrale quanto trascurata, Louis Alexandre Berthier fu l’artefice silenzioso del sistema napoleonico. Non cercò gloria personale, né si distinse per ambizione politica. Fu un soldato dell’efficienza, un maestro della logistica, l’uomo che trasformò la visione bellica di Bonaparte in realtà operativa. La sua parabola, come quella dell’Impero, si chiude con un’ombra: l’ombra del mistero, e quella più profonda della dimenticanza.

mercoledì 13 novembre 2024

Da Rivoluzionario a Re: l’incredibile ascesa di Jean-Baptiste Bernadotte, il soldato che sfidò Napoleone e conquistò la corona di Svezia

Storia di un uomo che, dal caos della Rivoluzione francese, scalò l’Olimpo monarchico europeo, trasformandosi da nemico del trono a monarca costituzionale.

Quando Jean-Baptiste Jules Bernadotte spirò l’8 marzo 1844 nel suo palazzo reale svedese, la mano del destino aveva già inciso da tempo il suo nome tra le figure più singolari della storia europea. Nato a Pau, nei Pirenei francesi, figlio di un procuratore e cresciuto nella Francia prerivoluzionaria, Bernadotte non sembrava destinato a far tremare gli imperi. Eppure, in poco più di mezzo secolo, fu soldato, rivoluzionario, maresciallo dell’Impero francese, principe di Pontecorvo e infine re di Svezia e Norvegia. La sua parabola, che sfida ogni schema storico, fu tanto straordinaria quanto emblematica di un’epoca in cui il mondo antico cedeva al nuovo, e poi, paradossalmente, si fondeva con esso.

Arruolatosi nell’esercito reale nel 1780, Bernadotte seppe farsi notare fin dai primi scontri della Rivoluzione francese grazie al suo coraggio, alla sua disciplina e alla sua imponenza fisica. Ma fu anche un ardente sostenitore delle idee giacobine, un militante della nuova Francia che si faceva largo con la spada e la legge. L’ascesa fu rapida: da sergente a generale in meno di dieci anni, un’ascesa favorita da un talento militare non comune e da un fiuto politico che, sebbene spesso ambiguo, si dimostrò straordinariamente efficace.

Durante le guerre rivoluzionarie si distinse sia sul fronte tedesco sia su quello italiano, guadagnandosi la fama di comandante affidabile e tenace. Ma fu anche in questi anni che maturò un contrasto profondo con Napoleone Bonaparte, allora astro nascente della Repubblica. Le ragioni erano tanto personali quanto politiche: Bernadotte non condivideva l’ambizione accentratrice del corso, né la sua visione dell’autorità. Eppure, nonostante attriti e sospetti — inclusa un’implicazione mai completamente chiarita in trame contro il Primo Console — fu proprio Bonaparte, nel 1804, a nominarlo maresciallo dell’Impero.

Il rapporto tra i due rimase però irrisolto. Bernadotte partecipò con onore alle campagne napoleoniche, ma rimase sempre ai margini del ristretto cerchio del potere bonapartista. La sua inclinazione all’autonomia e una certa inclinazione per la diplomazia più che per l’obbedienza cieca lo resero una figura atipica nel gotha militare dell’Impero. Nel 1809, dopo un comportamento controverso in battaglia, Napoleone lo destituì dal comando. Quello che sembrava il tramonto di una carriera divenne, invece, l’inizio di una nuova e imprevedibile ascesa.

Quell’anno, la Svezia – nazione allora travagliata da instabilità interna e dalla perdita della Finlandia – cercava un nuovo erede al trono dopo l’abdicazione forzata di re Gustavo IV Adolfo. Gli svedesi, attratti dalla fama militare e dalla reputazione di moderazione di Bernadotte, offrirono al maresciallo francese il ruolo di principe ereditario. Egli accettò, convertendosi al luteranesimo e assumendo il nome di Carlo Giovanni.

Nel giro di pochi anni, il giacobino rivoluzionario si trovò a governare come reggente del Regno di Svezia, e nel 1818 fu ufficialmente incoronato re. Non fu una figura di transizione: governò per oltre venticinque anni, consolidando l’autorità monarchica in senso costituzionale, modernizzando lo Stato e mantenendo la pace in un’Europa segnata da guerre e rivoluzioni. Ma la svolta più significativa avvenne nel 1812, quando, rompendo ogni residua lealtà nei confronti dell’Impero francese, Bernadotte guidò la Svezia nella Sesta Coalizione contro Napoleone, diventando uno dei protagonisti della campagna di Germania e della decisiva battaglia di Lipsia.

Combatté, dunque, contro i suoi ex compagni d’armi. Molti lo accusarono di tradimento, ma egli rivendicò la scelta come necessaria per gli interessi della Svezia. In effetti, sotto il suo regno, il Paese conobbe una lunga stagione di stabilità e sviluppo. Fu, a tutti gli effetti, il fondatore della moderna dinastia Bernadotte, tuttora regnante.

La storia di Jean-Baptiste Bernadotte resta, nella memoria europea, una delle più affascinanti metamorfosi della modernità. Emblema vivente dell’ascensore sociale rivoluzionario, simbolo di una mobilità senza precedenti, Bernadotte dimostrò che nella Francia post-1789 anche un borghese del sud poteva ascendere ai vertici dell’aristocrazia continentale, e perfino sedere su un trono nordico.

Ma fu anche un maestro della prudenza e della dissimulazione, capace di navigare le correnti più tempestose della politica europea senza mai naufragare del tutto. Un re senza sangue reale, un maresciallo senza esercito, un rivoluzionario che finì per difendere la monarchia: in lui si condensano tutte le contraddizioni di un’epoca in cui la Storia si faceva con la spada, ma si governava con l’intelligenza.

martedì 12 novembre 2024

L’ombra del tradimento sull’aquila imperiale: la parabola del Maresciallo Augereau

Di un uomo forgiato nel fuoco della Rivoluzione, elevato dal genio di Bonaparte, e infine spezzato dal peso delle proprie ambizioni.

Pierre François Charles Augereau, duca di Castiglione, non fu semplicemente uno dei tanti uomini che seguirono Napoleone nei suoi trionfi e nelle sue disfatte. Fu piuttosto un emblema vivente delle contraddizioni dell’epoca: figlio del popolo e protagonista della Rivoluzione, divenne uno dei primi e più feroci generali della Repubblica, per poi ascendere agli onori imperiali come Maresciallo di Francia. Ma fu anche un uomo il cui declino morale rifletté il tramonto stesso dell’Impero.

Nato il 21 ottobre 1757 nei sobborghi parigini, Augereau portava nel sangue l’irrequietezza di una generazione che non accettava il proprio destino. Di origini umili, con una giovinezza segnata dall’instabilità e da un’avventurosa militanza nei ranghi di eserciti stranieri, emerse come figura centrale nelle guerre rivoluzionarie, distinguendosi per brutalità ed energia. Fu la Rivoluzione a dargli la sua prima vera armatura politica: fervente giacobino, si affermò rapidamente tra i generali della nuova Repubblica, incanalando la sua irruenza in una causa che gli offriva al contempo potere e legittimità.

La svolta arrivò con la Prima Campagna d’Italia del 1796, dove l’incontro con Napoleone Bonaparte fu fatale per entrambi. Augereau, allora generale di divisione, si distinse a Lodi, a Castiglione e ad Arcole, guadagnandosi la fiducia del giovane comandante corso. Di lui Napoleone disse: “Era un braccio armato della Rivoluzione”. E tale rimase, almeno fino a quando l’ideale rivoluzionario non cedette il passo all’Impero.

Nel 1804, con la proclamazione dell’Impero, Augereau venne insignito del bastone di maresciallo e, pochi anni più tardi, del titolo nobiliare di duca di Castiglione, in ricordo della battaglia vinta contro gli austriaci. L’ex giacobino era ormai divenuto un principe dell’Impero, ma con il rango giunse anche un cambiamento più sottile, e forse più insidioso: l’uomo che aveva combattuto per la causa della Repubblica divenne sempre più attratto dai simboli del potere che un tempo disprezzava.

Il suo comportamento durante le guerre napoleoniche fu a tratti brillante, a tratti incostante. Dimostrò valore a Jena e a Eylau, ma anche limiti evidenti, specialmente durante la campagna di Spagna e in Germania. Quando il destino dell’Impero cominciò a vacillare, Augereau si mostrò sempre meno il leone indomito della gioventù e sempre più un burocrate d’armi, attento ai propri interessi.

Fu però nel 1814 che la sua figura cadde irrimediabilmente nell’ombra. Con la Francia invasa e Napoleone sull’orlo dell’abdicazione, Augereau passò con fredda decisione al campo borbonico, offrendo la propria fedeltà a Luigi XVIII e contribuendo al disfacimento delle ultime difese dell’Impero. Lo fece in nome della patria, avrebbe sostenuto, ma le sue motivazioni furono lette dai più come opportunismo puro. Per Napoleone, confinato a Sant’Elena, il tradimento del suo antico compagno d’armi fu una ferita personale. “Ha abbandonato la bandiera per qualche miserabile pensione”, scrisse con amarezza. E ancora: “Che ne è del generale d’Arcole? È morto dentro di lui”.

Morì a La Houssaye-en-Brie il 12 giugno 1816, dimenticato dai suoi, malvisto dai monarchici, tradito dalla sua stessa ambizione. Nessun epitaffio, nessuna statua, nessuna apologia avrebbe potuto riscrivere la realtà di un uomo che da eroe della Repubblica si era trasformato in una delle figure più controverse del tramonto napoleonico.

Il giudizio su Pierre Augereau resta sospeso tra grandezza e opportunismo. Fu uno dei primi ad aver creduto nella visione militare di Bonaparte, ma anche uno dei primi a rinnegarla quando i venti della Storia cambiarono direzione. Forse, il suo destino era scritto fin dall’inizio: quello di un uomo troppo umano per restare fedele a un’idea, troppo ambizioso per restare nell’ombra, troppo spregiudicato per non cedere alla tentazione del potere.

Come tanti della sua epoca, fu vittima e artefice al tempo stesso della tragedia rivoluzionaria. Una tragedia che, nel suo caso, non ebbe redenzione.


lunedì 11 novembre 2024

La Verità sui Quadrati di Fanteria: Il "Carré" sul Campo di Battaglia

Uno degli spettacoli più iconici delle guerre napoleoniche era la formazione del "carré" (quadrato di fanteria), una tattica disperata ma efficace per respingere la cavalleria. Spesso associato alle truppe di Napoleone, in realtà questo schieramento fu utilizzato da molti eserciti fino alla fine dell’Ottocento. Ma come funzionava esattamente? E quando venne abbandonato?

Il carré era una formazione difensiva in cui la fanteria si disponeva a quadrato, con:

  • Fucilieri su tutti e quattro i lati, pronti a sparare in qualsiasi direzione.

  • Baionette fissate, creando una barriera di punte acuminate contro la cavalleria.

  • Ufficiali e tamburini al centro, per mantenere ordine e comunicare comandi.

Lo scopo era impedire alla cavalleria di sfondare o aggirare l’unità. I cavalieri, infatti, potevano facilmente travolgere una linea sottile, ma un quadrato compatto li costringeva a fermarsi, esponendosi al fuoco dei moschetti.


I Più Famosi Carré della Storia




1. La Battaglia delle Piramidi (1798) – Il Trionfo di Napoleone

Durante la campagna d’Egitto, Napoleone affrontò i temibili mamelucchi, cavalieri esperti e letali. La sua soluzione?

  • Formare grandi carré divisionali, con artiglieria agli angoli.

  • Resistere alle cariche, logorando il nemico con fuoco disciplinato.
    Risultato: Una schiacciante vittoria francese, che dimostrò l’efficacia del quadrato contro forze di cavalleria superiori.

2. Waterloo (1815) – I Britannici Respingono Ney

Uno degli episodi più celebri fu la disperata difesa britannica contro le cariche della cavalleria francese, guidata dal maresciallo Michel Ney.

  • I britannici formarono quadrati a scacchiera, sostenuti dall’artiglieria.

  • Nonostante ripetute cariche, i francesi non riuscirono a spezzarli.

  • La cavalleria di Ney si esaurì, contribuendo alla sconfitta finale di Napoleone.

3. La Guerra Civile Americana – Gli Ultimi Carré

Anche durante la Guerra di Secessione (1861-1865), alcuni reparti dell’Unione usarono quadrati per difendersi dalla cavalleria confederata. Tuttavia, con l’avvento di fucili a ripetizione, la tattica divenne sempre più obsoleta.

Il quadrato di fanteria era efficace contro la cavalleria, ma aveva gravi limiti:

  • Vulnerabile all’artiglieria: Un quadrato compatto era un bersaglio perfetto per i cannoni.

  • Difficile da manovrare: Una volta formato, l’unità non poteva avanzare facilmente.

  • Superato dalla tecnologia: Con l’arrivo di fucili a retrocarica e mitragliatrici, la cavalleria tradizionale perse importanza.

L’ultimo uso significativo del carré avvenne in epoca coloniale, dove truppe europee lo impiegarono contro nemici privi di artiglieria (es. in Africa e India).

Il carré non era un mito, ma una tattica brutale e necessaria, figlia di un’epoca in cui la fanteria doveva sopravvivere a cariche di cavalleria travolgenti. La sua scomparsa segnò la fine di un’era, sostituita dalle trincee e dalle armi automatiche.

Eppure, ancora oggi, è ricordato come un simbolo di disciplina e coraggio—l’ultima difesa di soldati circondati, pronti a resistere fino all’ultimo colpo.