lunedì 18 aprile 2022

Assemblea nazionale costituente

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L'Assemblea nazionale costituente (in francese: Assemblée nationale constituante), nota anche come Assemblea costituente del 1789 (in francese: Assemblée constituante de 1789), fu la prima assemblea costituente della storia francese.
Venne ufficialmente istituita il 9 luglio 1789, dopo che i rappresentanti del Terzo Stato - già convocati il 5 maggio negli Stati generali, insieme ai rappresentanti del Clero e della Nobiltà - si erano proclamati "Assemblea nazionale" (17 giugno), impegnandosi solennemente a non separarsi prima di aver dato una costituzione alla Francia (giuramento della Pallacorda, 20 giugno). Ebbe da qui origine un grande movimento rivoluzionario, il cui primo atto simbolico fu la presa della Bastiglia (14 luglio) da parte del popolo parigino insorto a difesa dell'Assemblea.
Nei suoi due anni circa di esistenza i deputati dell'Assemblea costituente discussero e approvarono molte riforme, destinate a mutare radicalmente il volto della Francia. Ebbe inizio con l'Assemblea un'altra società, del tutto innovativa rispetto a quella dell’Ancien Régime: una società amministrata e diretta dalla borghesia.
L'Assemblea nazionale approvò come suo atto finale la Costituzione (3 settembre 1791); il 30 settembre dello stesso anno, avendo adempiuto al suo compito, l'Assemblea nazionale si sciolse e venne sostituita dall'Assemblea legislativa, eletta a suffragio censitario.

Nascita dell'Assemblea costituente
L'origine dell'Assemblea nazionale costituente è negli Stati Generali, convocati l'8 agosto 1788 per volontà dei due ordini privilegiati, ovvero Nobiltà e Clero, alle quali il re, in notevoli difficoltà economiche, voleva imporre il pagamento delle tasse fino ad allora gravanti unicamente sul Terzo Stato. Istituiti nel Medioevo, gli Stati generali costituivano l'assemblea dei rappresentanti dei tre ordini (Clero, Nobiltà, Terzo Stato), riunita saltuariamente e con poteri soltanto consultivi per esprimere un parere sull'operato del sovrano.
L'intenzione dei nobili e degli ecclesiastici, dunque, è di fare degli Stati generali uno strumento per ribadire i propri privilegi. Fin dall'inizio, tuttavia, la situazione sfugge loro di mano: la campagna elettorale per scegliere i deputati da inviare agli Stati generali diventa una grande occasione per il Terzo Stato di discutere, acquistare coscienza di sé e reclamare tutti i diritti negati. Appena insediati, il 5 maggio 1789 a Versailles, gli Stati generali si dividono sulla questione del voto: i combattivi deputati del Terzo Stato, assai più numerosi di quelli degli altri due stati messi insieme, richiedono che si voti per testa (secondo il principio "un voto per ogni eletto") mentre Clero e Nobiltà vogliono mantenere la tradizionale votazione per ordine, che consentirebbe loro di mantenere la supremazia nell'assemblea. Nell'impossibilità di raggiungere un accordo, il 17 giugno i rappresentanti del Terzo Stato si proclamano Assemblea nazionale (il termine "costituente" viene ufficialmente aggiunto il 9 luglio) e tre giorni dopo, radunati nella sala della Pallacorda, giurano di non separarsi finché non avranno dato una costituzione alla Francia (giuramento della Pallacorda, 20 giugno). Forzato dalle circostanze, il 27 giugno re Luigi XVI invita i rappresentanti degli altri due ordini a riunirsi con i rappresentanti del Terzo Stato.
Nonostante i buoni propositi dei suoi artefici, questa rivoluzione nelle aule assembleari non avrebbe avuto però il successo sperato se non fosse stato per l'intervento a suo favore del grosso del Terzo Stato, ovvero quello del popolo comune. In un primo momento, insorge il popolo parigino, che il 14 luglio 1789 assedia ed espugna la fortezza - prigione della Bastiglia, odiato simbolo dell'assolutismo regio: è l'avvio di una seconda fase, definita dagli storici "rivoluzione cittadina", fondamentale perché segna l'irruzione delle masse popolari sulla scena politica (non a caso in Francia si festeggia il 14 luglio come data d'inizio della rivoluzione). A distanza di pochi giorni insorgono anche le campagne; questa "rivoluzione contadina" si dirige contro i cosiddetti diritti feudali. Le due rivoluzioni popolari dell'estate 1789 mostrano sia ai rappresentanti del Terzo Stato che agli altri due stati la diffusa ostilità nei confronti dell'ancien régime e il consenso popolare verso il progetto di dare una costituzione allo stato francese.

Destra e Sinistra
L'Assemblea costituente è formata da 1145 deputati. Fra questi: il generale La Fayette, che aveva combattuto nella Rivoluzione Americana; il conte di Mirabeau, nobile ma anti-assolutista; l'astronomo Jean Sylvain Bailly, che sarebbe poi diventato il primo sindaco di Parigi; l'abate Sieyès, autore dell'opuscolo Che cos'è il Terzo Stato? nel quale veniva identificato il popolo come vera nazione e gli altri due ordini (nobiltà e clero) come pesi morti del Paese. Per il momento poco conosciuto, ma destinato a un futuro di leader, è Robespierre, giovane avvocato di Arras. La sede dell'Assemblea inizialmente è a Versailles, ma dopo che il re, il 6 ottobre 1789, è obbligato dai rivoltosi a trasferirsi a Parigi, anche la Costituente si sposta nella capitale, nella sala del Maneggio, dove per quasi 2 anni condurrà un'attività duplice e contemporanea. Viene infatti affidato ad alcune apposite commissioni il compito di stendere la nuova costituzione; nel frattempo nelle sedute ordinarie si svolge una vera e propria attività di tipo legislativo.
Nel corso delle riunioni si impone pian piano l'usanza di identificare i diversi gruppi parlamentari con i termini "destra" o "sinistra": a destra si siedono i nobili e i membri del clero che avevano in principio cercato senza risultato di opporsi all'abolizione dell'ancien régime, mentre nel centro e a sinistra prendono posto i rappresentanti del Terzo Stato e tutti i deputati contrari ai privilegi, a loro volta distinti fra monarchici e repubblicani, liberali e democratici. La maggioranza dell'Assemblea la detengono comunque deputati contrari all'assolutismo ma di tendenze moderate, fautori di una monarchia costituzionale, diffidenti nei confronti del movimento popolare e delle sue richieste di giustizia sociale ed economica.

L'abolizione della feudalità
Dopo la presa della Bastiglia, il 14 luglio, scoppiano gravi disordini nelle campagne francesi. Come già accennato, i contadini, esasperati dalla crisi economica e ancora sotto il giogo feudale, attaccano i castelli dei nobili, bruciano gli archivi in cui sono annotati i diritti signorili, uccidono chi gli resiste. È un grande vento di protesta contro "l'oppressione feudale". Per arginare la rivolta nella notte del 4 agosto 1789 l'Assemblea costituente decreta di abolire immediatamente i diritti feudali, le esenzioni fiscali, la giustizia signorile, le decime. Certo, i signori non vengono espropriati del tutto dei loro diritti, considerati come una proprietà privata, e in quanto tale inviolabili; infatti i contadini dovranno riscattare in denaro i loro obblighi. Tuttavia si tratta di una decisione storica, che segna la fine dell'ancien régime e l'avvio di una nuova legislazione fondata sull'uguaglianza civile dei singoli.
L'Assemblea, approvando a gran voce il decreto, si è spogliata volontariamente dei suoi privilegi. Questa scelta rafforza la posizione, all'interno dell'Assemblea, del Terzo Stato che controlla sistematicamente gli altri ordini. Tuttavia alcuni deputati del Terzo Stato non hanno gradito il decreto; il loro leader, il carismatico Dupont de Nemours, appartenente al centro-destra, sostiene che si tratta una violazione dei diritti dei cittadini. Per comprendere questa opposizione bisogna considerare che, oltre ai nobili, anche i borghesi hanno delle proprietà terriere che vogliono difendere. Dupont viene comunque messo a tacere dall'assemblea. In conclusione la notte del 4 agosto è, come osserva lo storico Ernest Labrousse, «...la grande notte antifeudale per eccellenza...», nonché «...la grande conquista del popolo delle campagne...»; d'altronde «...con questi testi che promettono molto di più di quanto diano, sparisce unicamente o quasi la feudalità formale; in complesso la feudalità reale, la feudalità economica rimane. L'aristocrazia, moltiplicando le rinunce, ha conservato il meglio del patrimonio...».

La Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino
Pochi giorni dopo, il 26 agosto 1789, l'Assemblea approva il preambolo della futura legge fondamentale dello stato, la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino, documento che riassume al suo interno i valori del 1789, affermando in modo chiaro e puntuale i concetti di libertà e uguaglianza che avevano fino a quel momento guidato il moto rivoluzionario. Il bersaglio polemico del testo, come d'altronde quello dell'Assemblea e più in generale della rivoluzione, è infatti l'ancien régime basato sul privilegio. Tenendo conto che la proprietà è definita come un diritto inalienabile e sacro, si capisce comunque che l'uguaglianza proclamata dalla Dichiarazione è solo di tipo giuridico e civile, non economico. Il testo è articolato in una breve premessa e 17 articoli, dei quali i primi 3 sono i più importanti in quanto sanciscono i principi fondamentali: l'uguaglianza degli uomini (art. 1); l'esistenza di diritti naturali e inalienabili di ogni singolo individuo - libertà, proprietà, sicurezza e resistenza all'oppressione -, che nemmeno lo stato può calpestare (art. 2); la sovranità popolare (art.3).
La restante parte della Dichiarazione ha il fine di dare concretezza, nei vari campi della vita associata, a questi principi: si affermano così la libertà di religione, di parola e di stampa; la tutela da arresti e da condanne arbitrarie; il divieto di tortura; la presunzione di innocenza finché non c'è una condanna definitiva. Il principio della volontà generale come fonte della legge, l'equità e il criterio del merito per l'accesso agli incarichi pubblici sono solennemente affermati nell'articolo 6 con queste parole: «La legge è l'espressione della volontà generale. Tutti i cittadini hanno diritto di concorrere, personalmente o mediante i loro rappresentanti, alla sua formazione. Essa deve essere uguale per tutti, sia che protegga, sia che punisca. Tutti i cittadini essendo uguali ai suoi occhi, sono ugualmente ammissibili a tutte le dignità, posti ed impieghi pubblici secondo le loro capacità, e senza altra distinzione che quella delle loro virtù o dei loro talenti.»

Confisca dei beni della Chiesa e risposta del papa
Un grande problema che i membri dell'Assemblea devono affrontare è quello finanziario, che aveva messo in moto il meccanismo di convocazione degli Stati generali. In primo luogo si decide che, per sanare almeno in parte i gravosi debiti statali, vengano confiscate tutte le terre del clero; Viene così votata il 2 novembre 1789 la legge sulla nazionalizzazione dei beni del clero, che dichiara disponibili per la nazione tutti i beni della Chiesa. Questa decisione è ben accolta dalla popolazione, in particolare dalla borghesia, alla quale viene venduto gran parte dell'immenso patrimonio terriero (circa il 6-10% del territorio nazionale).
La nazionalizzazione crea però uno stato di tensione fra l'Assemblea rivoluzionaria e la Chiesa cattolica, che si aggrava dopo la decisione presa dai deputati il 13 febbraio 1790 di sciogliere tutti gli ordini religiosi che non sono dediti all'assistenza e all'insegnamento. Dopodiché viene firmata, il 12 luglio, la Costituzione civile del clero che trasforma i sacerdoti in funzionari stipendiati al servizio dello Stato, sottoponendo a rigido controllo la loro attività e impedendo così ogni interferenza del papa. Ne consegue la condanna ufficiale della rivoluzione da parte del pontefice e la divisione del clero in preti giurati o costituzionali, che giurano fedeltà alla costituzione, e preti refrattari, che invece si schierano contro.

Altre riforme
Anche se la Costituzione e l'abolizione della feudalità hanno la precedenza nel lavoro dei deputati, vengono comunque decise altre riforme. Sul piano amministrativo, l'Assemblea opera una semplificazione, dividendo il paese in 83 dipartimenti, a loro volta divisi in distretti, cantoni, comuni, retti da organi elettivi (decreto del 22 dicembre 1789). Sotto un profilo economico l'Assemblea erige le basi per un sistema di stampo capitalistico. Va ricordata a questo proposito la liberalizzazione degli scambi commerciali, con l'abolizione del monopolio della compagnia francese delle Indie orientali e di altre compagnie privilegiate e la soppressione delle dogane interne. Inoltre, con la Legge Le Chapelier, del 14 giugno 1791, vengono abolite le antiche corporazioni dei mestieri e proibiti sindacati e il diritto di sciopero, dando così minori garanzie ai lavoratori e liberando i capitalisti da responsabilità e vincoli.

La Costituzione del 1791
Il 13 settembre 1791 il re Luigi XVI è costretto ad accettare la nuova costituzione, elaborata dall'assemblea, la quale presenta molti elementi di continuità con la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino. Un elemento di continuità è la separazione dei poteri: il potere legislativo viene assegnato ad un'unica camera, quello esecutivo al re e al governo, quello giudiziario ad un corpo di magistrati eletti dal popolo. Un altro elemento di continuità è l'abolizione di ogni forma di discriminazione nei confronti delle minoranze religiose, cosicché protestanti ed ebrei diventano cittadini a pieno titolo. La costituzione non è comunque priva di contraddizioni: non viene ad esempio abolita la schiavitù nelle colonie francesi, nonostante tutte le solenni dichiarazioni di uguaglianza e libertà dell'uomo e del cittadino espresse precedentemente nelle sedute dell'Assemblea.
Inoltre si adotta un sistema elettivo a base censitaria, dividendo così i cittadini francesi in attivi e passivi. Per essere definito attivo, e quindi avere diritto di voto, il cittadino deve pagare come minimo tasse equivalenti al prezzo di tre giornate di lavoro; invece i poveri e i nullatenenti rientrano nella categoria dei passivi e sono esclusi dalla vita politica; in questo modo risultano esclusi circa 2-3 milioni di cittadini maschi adulti, una notevole parte della popolazione, mentre gli attivi sono 4.300.000.[senza fonte] Un'altra notevole contraddizione è infine l'esclusione dai diritti politici delle donne: per questo motivo le più attive rivoluzionarie protestano e rispondono con la creazione di club femminili. Tra queste donne coraggiose e colte vale la pena ricordare Olympe de Gouges, che stende provocatoriamente nel 1791 la Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina.
Sul piano dei rapporti famigliari, tuttavia, la Costituzione riconosce diritti alle donne: l'articolo 7 dichiara che il matrimonio è un contratto civile, il che implica la parità dei soggetti contraenti. Terminati i suoi compiti, il 30 settembre 1791, l'Assemblea nazionale costituente si scioglie; le succede l'Assemblea legislativa, eletta a suffragio censitario. Nessuno dei deputati dell'Assemblea nazionale costituente entra a far parte di questa nuova assemblea: un decreto votato il 16 maggio del 1791, per iniziativa di Robespierre, aveva sancito la loro non rieleggibilità.



domenica 17 aprile 2022

Come mai la satira in Francia è così odiata da chi la riceve, per esempio dai musulmani?

Da sempre la satira francese è politicamente scorretta, oscena, scurrile e blasfema contro l'obiettivo di turno, a partire dai re a forma di pera e dalla Signora Pompa Funebre...


Vignetta satirica sulla cessione di Nizza e Savoia alla Francia da parte del Piemonte: l'Italia è una donna afflitta e le due regioni sono i suoi figli che l'imperatore francese Napoleone III (sulla destra) le ha sottratto.

Ma insomma, cosa posso farci se la faccia di Sua Maestà assomiglia a una pera?!? ... Nell'aula austera del tribunale di Parigi la frase oltraggiosa di Charles Philipon esplode come una bomba, strappando mormorii di disapprovazione. Il vignettista francese si trova alla sbarra per una "scandalosa" caricatura di Luigi Filippo d'Orléans, in cui le forme rotonde del volto del re assumono - con una sequenza che è quasi da cartone animato ante litteram - per l'appunto le forme di una pera.


QUELLA PERA DEL RE. L'artista finirà in prigione, ma inutilmente: altri disegnatori satirici riprenderanno il tema della "pera", trasformandolo in un tormentone contro re e governo. L'anno del processo era il lontano 1831: il coraggio e l'impudenza di Charles Philipon con le sue invettive oscene, blasfeme e scurrili, la sua assoluta mancanza di buone maniere e il disprezzo anarcoide per ogni forma di autorità costituita fanno parte della lunga tradizione della satira d'Oltralpe. Un esprit irriverente e dissacratorio le cui origini si perdono nei secoli, e che non trova omologhi in altre più pacate tradizioni parodistiche, per esempio quella anglosassone.

«L'ironia in Francia era sovversiva sin dalle origini», conferma Giuseppe Scaraffia, docente di letteratura francese alla Sapienza di Roma: «sferzate al potere si trovano già in opere medioevali francesi come i fabliaux, racconti sarcastici popolari in versi, o il Roman de Renart, una raccolta di parodie con animali antropomorfi come protagonisti». Anche nel '500 in Francia si rideva e si derideva: gli sfottò di giullari e buffoni divertivano le corti, mentre le guerre di religione che devastavano il Paese (ma sulle quali la satira riuscì a mettere il cappello con il graffiante poema Les Tragiques di Théodore Agrippa d'Aubigné) alimentavano il disincanto verso il sacro.


FUNZIONI CORPORALI. Intanto, dall'ibrido tra la cultura di un grande umanista, François Rabelais (1494-1553), e la lingua triviale del popolo nasceva il ciclo di Gargantua e Pantagruel, capolavoro di comicità spregiudicata dove due re giganti dall'appetito e dalla forza smisurati mettono alla berlina la società francese del XVI secolo. «Un grande precursore, non a caso condannato dai teologi della Sorbona: di fronte a una monarchia per diritto divino come quella francese, Rabelais strappa il velo del potere e ci mostra interessi terreni, appetiti, funzioni corporali», commenta Scaraffia.


TRIVIALI CANZONETTE. Il primo importante punto di svolta è però il Seicento. Crisi economica, pressione fiscale, la guerra sotterranea della "Fronda", che opponeva i nobili francesi al potente cardinale Mazarino: questi elementi favorirono un notevole sviluppo della satira, su due livelli paralleli.

Uno "alto", intessuto di grandi capolavori dall'umorismo raffinato e pungente. Tra questi le pièce teatrali di Molière, le Favole di Jean de La Fontaine, la satira realista e antiromantica di Nicolas Boileau. L'altro, invece, popolare e volgarissimo, l'antitesi del buon gusto. Con teatrini di strada allestiti in quattro e quattr'otto sulla pubblica via, magari per mostrare alla folla la regina madre, Anna d'Austria, sodomizzata dall'impopolare Mazarino. Oppure con triviali canzonette antigovernative, le cui parti sconce potevano in genere essere rapidamente rimpiazzate, all'approssimarsi di qualche guardia, da un ritornello meno sconveniente.

La vignetta di Charles Philipon che prende di mira Luigi Filippo D'Orléans: il re è un abito vuoto a forma di pera.


SUINI E FLATULENZE. Punture di spillo oppure badilate di letame: palleggiandosi tra questi due estremi, la satira francese varcò il secolo dei Lumi. In coerenza con lo spirito del tempo, iniziò ad accanirsi contro superstizioni e pregiudizi. Tra i bersagli eminentemente politici, però, spiccava sempre la monarchia dei Borbone, che essendo tra le più assolutiste d'Europa, era anche un bersaglio ben riconoscibile, insieme alle dissipatezze della corte di Versailles e degli alti prelati.

La statua equestre di Luigi XV a Parigi diventò ricettacolo di feroci e anonime pasquinate, mentre grazie alle nuove tecniche tipografiche diventava più facile produrre e vendere sous le manteau - "sotto il mantello" ovvero clandestinamente - immagini della regina impegnata in amori di gruppo, caricature del re con fattezze di suino, accoppiamenti di cardinali e suore, flatulenze di diavoli soffiate sul volto del Papa e tutto quanto potesse solleticare la fantasia corrosiva degli anonimi disegnatori.


I GIOIELLI DI DIDEROT. Sul fronte letterario, il "vizietto" della satira fu coltivato da personaggi insospettabili: da un giurista come Montesquieu con le sue Lettere Persiane, a un enciclopedista come Diderot, celebrato autore dell'Encyclopédie, illuminista, ma anche padre dei licenziosi Gioielli segreti - genitali femminili che, grazie a un anello magico, raccontavano le bassezze che si perpetravano alla corte di Versailles.

Fu quella l'epoca dei pamphlet, gli scritti polemici e calunniosi da "macchina del fango", dove il sarcasmo si faceva aggressivo. «Tra le altre cose questi scritti amplificavano a dimensioni iperboliche le leggende su raffinatezza e perversione sessuale degli aristocratici», aggiunge Scaraffia. «Per esempio: la regina Maria Antonietta, tradizionale bersaglio delle antipatie popolari, fu accusata contemporaneamente di essere ninfomane, lesbica e madre incestuosa!


STRANI MESSALI LITURGICI. Del resto Parigi si stava riempiendo di intellettuali di provincia squattrinati, che per campare avevano poche alternative: fare le spie per la polizia, scrivere discorsi per i parroci oppure cimentarsi in questi libelli, a cui anche Voltaire, autore di una raffinata satira filosofica come il Candido, non disdegnava di dedicarsi. La censura ovviamente faceva il suo lavoro, e per proteggersi autori e lettori di opere proibite s'inventavano di tutto: da falsi luoghi di edizione - spesso Amsterdam o l'Aja - per depistare le indagini, fino a rilegature che imitavano esteriormente i messali liturgici».


La prima pagina della rivista satirica francese La Caricature (1830).


LE CORNA IMPERIALI. Dopo il bagno di sangue della Rivoluzione, e una stagione tumultuosa in cui le fazioni in lotta si combattevano anche a colpi di ingiurie scritte o disegnate, la grandeur napoleonica impose una stretta severa alla satira; come un fiume carsico, però, il genere sopravvisse, stavolta pilotato dai legittimisti monarchici, sbeffeggiando a più riprese le infedeltà coniugali della coppia imperiale.

I successivi decenni del XIX secolo videro la satira sbarcare sulla nascente stampa periodica, ma soprattutto consolidare il suo connubio con l'arte grafica grazie al nuovo "metodo Épinal" creato nell'omonima cittadina della Lorena, con vivaci stampe popolari a colori che anticipavano la forza espressiva del fumetto. Proprio dall'alleanza tra una penna e un "pennello", cioè tra lo scrittore Honoré de Balzac e il disegnatore Philipon, nel 1830 nasceva una rivista-laboratorio dal nome emblematico: La Caricature.

Era l'epoca di grandi maestri del grottesco come André Gill, le cui caricature dal testone ipertrofico hanno fatto scuola sino a oggi, e Honoré Daumier, artista poliedrico che come Philipon finirà in galera per una vignetta contro Luigi Filippo: niente pere stavolta, ma un re in trono dipinto come un insaziabile Gargantua che divora le risorse del popolo, defecando al contempo privilegi e prebende per un piccolo gruppo di privilegiati.


LE PRIME RIVISTE. Ovviamente i più tradizionali lazzi affidati alla parola scritta proseguivano di pari passo, e parecchi giornalisti si trovarono trascinati a duello dalle loro vittime, talora anche con esiti sanguinosi. «L'esordio della rivista La Caricature fece da apripista a una lunga serie di testate umoristiche, a partire dal quasi coevo Le Charivari per finire, a inizio Novecento, con l'effimero ma importante L'Assiette du Beurre e con Le Canard Enchainé, pubblicato ancora oggi», sottolinea Scaraffia.

«Il comune denominatore delle prime riviste satiriche ottocentesche era che vendevano bene, e questo stimolò anche i quotidiani d'informazione ad accaparrarsi vignettisti di talento per ridicolizzare politici e personaggi mondani. In barba a perduranti censure e divieti, insomma, la clandestinità finì e il mestiere cominciò finalmente a "tirare": le vignette di Sem, al secolo Georges Goursat, schernivano tutte le élite di Francia, e persino un pioniere della fotografia come Nadar si cimentò con la caricatura prima di passare definitivamente dietro l'obiettivo.»

La lista delle vittime era lunghissima: dal primo ministro Adolphe Thiers a un mostro sacro della letteratura come Victor Hugo. Nel primo Novecento tra i "vip" più fustigati dai cartoonist parigini ci furono anche Mata Hari, Sarah Bernhardt e persino il nostro Gabriele D'Annunzio.


LA POMPA FUNEBRE. Ma il caso di scuola che anticipò in piena Belle Époque l'umorismo caustico della Francia contemporanea fu la tragicomica dipartita di Félix Faure, presidente della Terza Repubblica francese, nel 1899. «Ufficialmente si parlò di "congestione cerebrale", ma la vulgata popolare stabilì che il poveretto, imbottito di afrodisiaci, era rimasto fulminato da un ictus durante un'appassionata seduta di sesso orale con la propria amante all'Eliseo», racconta Scaraffia. «In barba al lutto nazionale, allusioni e ironie a mezzo stampa si sprecarono. E alla faccia dei pudori ottocenteschi la maîtresse presidenziale, Marguerite Steinheil, fu subito ribattezzata senza troppi complimenti "pompa funebre"».


sabato 16 aprile 2022

Albero della libertà

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L'Albero della libertà fu un simbolo della Rivoluzione francese.

Storia
Durante la Rivoluzione francese i repubblicani piantarono il primo albero della libertà nel 1790, a Parigi.
Gli alberi della libertà vennero successivamente piantati in ogni municipio di Francia e anche in Svizzera e in Italia. Generalmente gli alberi della libertà erano piantati nella piazza principale della città. Molti di questi alberi furono sradicati una volta passato il periodo rivoluzionario. Tuttavia, alcuni sono ancora presenti.
Un decreto della Convenzione del 1792 ne regolava l'uso e l'addobbo: l'albero della libertà, che di fatto era un palo, era sormontato dal berretto frigio rosso e adorno di bandiere. Veniva usato per cerimonie civili: giuramento dei magistrati, falò di diplomi nobiliari e anche per festeggiamenti rivoluzionari come la danza della Carmagnola.
L'albero della libertà rimase un simbolo della ideologia liberale repubblicana, e come tale venne talvolta impiantato anche negli anni successivi, in occasione di eventi repubblicani. Per esempio a Ravenna il 15 febbraio 1849, in piazza del Popolo, per festeggiare la nascita della Repubblica romana, avvenuta pochi giorni prima, venne impiantato un nuovo albero della libertà nel medesimo posto di quello eretto nel 1797 durante il periodo napoleonico.
Sempre lo stesso giorno un albero della liberta' venne piantato ad Alfonsine, e fino al ritorno del potere papalino e conseguente suo abbattimento divenne sede di un rituale di matrimonio civile: i due sposi, girando attorno all'albero pronunciavano le seguenti frasi: Sotto quest'Albero / Di verdi foglie, O cari amici, / Questa è mia moglie. […] Sotto a quest'Albero / Bello e fiorito, Questi, il vedete, / È mio marito.

In Italia durante la settimana rossa
A Conselice, nella bassa romagnola, il 14 giugno 1914, nel corso della settimana rossa venne piantato un acero del Canada come albero della libertà, con la scritta "Evviva la Rivoluzione sociale", altri alberi furono piantati a Sant'Agata sul Santerno e a Massa Lombarda, con le bandiere nere anarchiche e il berretto frigio della Rivoluzione francese.

L'episodio di Lauria
Spesso l'albero della libertà era al centro di disordini e di diatribe tra rivoluzionari liberali e conservatori, che vollero abbatterlo non appena cessò il periodo rivoluzionario. A Lauria il beato Domenico Lentini seppe placare gli animi delle fazioni con la proposta di erigere al posto dell'albero della libertà la croce che definì "albero del riscatto e della salute". Le sue parole convinsero gli spiriti repubblicani a rinunciare all'albero della libertà.

L'olmo di Montepaone
A Montepaone, nella piazza antistante la chiesa, sopravvive uno degli alberi della libertà piantati nel 1799, a simboleggiare la fine del regno borbonico, si tratta di un olmo, ora inserito nella banca dati degli olmi monumentali europei. Di questa pianta, ad opera del CNR viene crio-conservato il germoplasma in modo da poter clonare la pianta nel caso di una sua morte. Verso la pianta si affacciano le finestre della casa di Gregorio Mattei e Luigi Rossi, patrioti entrambi, giustiziati al ripristino del potere borbonico.

L'Albero della libertà in Italia nel “triennio giacobino” 1796-99
L'albero della libertà è stato anche in Italia il simbolo e la manifestazione dell'esultanza popolare per la caduta dei regimi assolutistici negli ultimi anni del Settecento.
Il primo venne eretto a Oneglia, feudo dei Savoia, occupata dalle truppe francesi nel 1794, dove venne fondata la prima repubblica in Italia per opera di un rivoluzionario italiano divenuto celebre per la sua partecipazione alla Rivoluzione Francese, Filippo Buonarroti. In questa cittadina ligure si radunarono patrioti ed esuli di ogni regione italiana, dando vita a un governo provvisorio con il programma di creare scuole e centri di diffusione del pensiero rivoluzionario e per preparare delle insurrezioni in tutta l'Italia.
Dopo la fulminea vittoria di Napoleone Bonaparte contro gli eserciti austriaco e piemontese, gli esuli piemontesi arrivati al seguito dell'Armata d'Italia, il 24 aprile del 1796, innalzarono ad Alba l'albero della libertà e governarono liberi per tre giorni nel Consiglio Municipale. Poi arrivarono il rivoluzionario vercellese, abate Giovanni Ranza, e l'albese Ignazio Bonafous che, insieme ad altri e con l'appoggio del generale francese Augerau, il 28 aprile proclamarono la Repubblica indipendente di Alba. Questa ebbe vita breve, perché dopo l'armistizio di Cherasco l'esercito piemontese rioccupò la cittadina e i rivoluzionari dovettero di nuovo fuggire. Nel seguito di quell'anno Napoleone Bonaparte proseguì l'avanzata, occupò Milano e invase l'Italia settentrionale, sconfiggendo più volte l'esercito austriaco. Poi estese l'occupazione all'Italia centrale, costrinse il papa a una pace umiliante, e distrusse le armate austriache che scendevano in successione dalle Alpi per fermarlo. In quei mesi tale violenta spallata liberò le energie rivoluzionarie che covavano nella penisola italiana ed erano represse dai governi dell'Ancien Régime.
Il panorama politico della penisola venne rivoluzionato, sulle piazze di molti municipi italiani fu innalzato l'albero della libertà. A Reggio nell'Emilia un'insurrezione popolare creò la spinta da cui ebbe vita la Repubblica Cispadana che comprendeva anche le città di Bologna, Ferrara e Mantova e dove per la prima volta sventolava la bandiera tricolore, allora un simbolo rivoluzionario.
Una dopo l'altra seguirono a Milano la Repubblica Cisalpina, che poi assorbì la Cispadana, la Repubblica Ligure, la Repubblica romana e la Repubblica napoletana. Anche nel Piemonte e nella Toscana le dinastie regnanti dovettero fuggire e queste regioni entrarono a far parte dell'Italia dove la presenza francese aveva favorito la nascita di governi e municipalità autonome.
Il “triennio giacobino” durò poco e finì drammaticamente perché nel 1799 l'offensiva delle potenze coalizzate contro la Francia provocò la caduta dei governi democratici e lo sterminio o la fuga dei suoi protagonisti. Si chiudeva così quella esperienza rivoluzionaria italiana e anche la successiva vittoria di Bonaparte a Marengo il 14 giugno 1800 non ne consentì più la rinascita, inglobando invece, nel corso degli anni quasi tutta l'Italia all'interno dell'Impero napoleonico.

Testimonianze iconografiche
In questi anni si realizzano progetti festivi nelle piazze, espressione di politica autocelebrativa dei nuovi governi repubblicani e tentativo di coinvolgere le popolazioni. Nella realizzazione degli apparati domina il gusto neoclassico. La testimonianza iconografica degli alberi della libertà - disegni, incisioni, acquarelli - documenta un'arte ideologicamente orientata e al servizio della politica. I disegni sono spesso anonimi, come quello dell'albero eretto in piazza Grande a Reggio nell'Emilia, quello eretto a Padova nel Prato della Valle, quello eretto a Imola, quello di piazza del Campidoglio. Incisioni d'epoca testimoniano l'erezione dell'albero, come quello di Venezia. Mauro Guidi ha lasciato un disegno, inchiostro a penna, dell'albero della libertà di Cesena. L'albero innalzato in Piazza San Marco, a Venezia, è diventato anche il soggetto di un olio, di autore anonimo, oggi conservato al Museo Correr.


venerdì 15 aprile 2022

Perché nelle prime battaglie rappresentate con armi da fuoco si marciava lentamente, ci si inginocchiava e si sparava, non si era troppo esposti al fuoco nemico?

La manovra descritta nella domanda è rimasta nella pratica delle armi per circa 350 anni, quindi per comodità mi riferirò al tardo '700 - guerre napoleoniche.

All'epoca l'arma da fuoco della fanteria era il moschetto a pietra focaia dotato di baionetta.

Prima di tutto, per la fanteria era essenziale mantenere la formazione in presenza di cavalleria nemica. Muoversi in ordine troppo sparso sarebbe stato un invito alla carica; a sua volta, una carica di cavalleria era impossibile da fermare in ordine sparso, perchè frequenza e precisione del tiro erano entrambe molto limitate. Per mantenere la formazione durante i movimenti in terreno accidentato, era necessario marciare in cadenza e piuttosto lentamente. In questo, niente era cambiato dai tempi dell'antica Grecia. Questo spiega la presenza di formazioni compatte, su più file, e il loro movimento lento e regolare.



La formazione compatta permetteva poi di ovviare a un grosso problema del moschetto, cioè la sua imprecisione, dovuta al fatto che si trattava di un'arma ad anima liscia e che la pallottola, oltre a essere sferica e quindi soggetta all'azione dell'aria, aveva molto gioco con la canna (altrimenti non si riusciva a caricare l'arma) e quindi la sua traiettoria era casuale già dentro la canna. Pertanto si sparava una scarica tutti insieme, e qualcosa sperabilmente si sarebbe colpito.

Quindi i soldati di una fila sparavano tutti insieme. E per evitare di sparare tutti in una volta e poi rimanere tutti inattivi a caricare, si faceva così: la terza fila spara stando in piedi, mentre le altre in ginocchio ricaricano. Poi la terza si inginocchia, la seconda fila si alza e spara, e così via. La vita del soldato non è mai stata comoda, ma stare in ginocchio mentre una fila di moschetti ti sparava all'altezza della testa doveva essere davvero spiacevole. E infatti succedeva che qualche braccio o qualche testa nelle prime file volasse via.



Quindi, non si era troppo esposti al fuoco nemico? Sì che si era esposti, ma non c'era un modo migliore. Era necessario indebolire la linea nemica prima di pensare di attaccarla all'arma bianca, altrimenti le perdite sarebbero state eccessive. Ed era anche necessario raggruppare il fuoco dei moschetti.

È vero che i moschetti erano imprecisi e che la maggior parte delle palle non colpiva niente, e che il fumo della polvere da sparo nascondeva le linee nemiche dopo un paio di salve, ma qualcuno veniva sempre colpito (altrimenti, che ci stavano a fare i moschetti sul campo di battaglia?). In effetti, il 75% dei feriti, stando ai resoconti dell'epoca, era attribuibile al fuoco dei moschetti.

Restare in formazione, caricare e sparare, mentre soldati tutto attorno cadono feriti o uccisi, doveva essere una esperienza estremamente stressante, forse più che al giorno d'oggi, e forse il momento di caricare alla baionetta veniva vissuto come una liberazione. Se una linea nemica veniva sufficientemente indebolita dal tiro, una decisa carica alla baionetta poteva metterla in rotta, e infatti i feriti di baionetta non erano più del 10% del totale. Non che fosse una grande consolazione per loro. Questo spiega perchè le cariche di truppe d'elite come i granatieri avessero così tanto successo: i nemici si rendevano conto immediatamente che l'attacco sarebbe stato portato a fondo con decisione, e non riuscivano a mantenere la loro posizione. Comunque fosse, durava poco, perché la frequenza di tiro era circa 3–4 colpi al minuto e quindi l'azione di fuoco durava 10–20 minuti al massimo. Però (raramente) poteva anche succedere che continuasse per ore, arrivando al 30 o anche al 50% di perdite.




giovedì 14 aprile 2022

Fu Napoleone a dichiarare guerra o furono i suoi nemici ad attaccare la Francia per primi?

La maggior parte delle guerre è iniziata con gli alleati che hanno dichiarato guerra alla Francia, sebbene generalmente lo giustificassero come una risposta alla precedente aggressione francese. Tuttavia, le due guerre più disastrose di Napoleone - la guerra peninsulare e l'invasione della Russia - furono entrambe iniziate da lui.


Il colpo di stato di Napoleone del 18 Brumaio, 1799


Napoleone prese il potere in Francia il 9 novembre 1799 (18 Brumaio, anno VIII). In quella data, la Francia era già in guerra con la Gran Bretagna, l'Austria, l'Impero Ottomano ei loro piccoli alleati nella Guerra della Seconda Coalizione. (Anche la Russia aveva partecipato a questa guerra, ma si ritirò in ottobre, il mese prima che Napoleone prendesse il potere.) Questa guerra terminò nel 1801 con una serie di trattati di pace. (Tecnicamente la Gran Bretagna e la Francia rimasero in guerra fino alla pace di Amiens nel marzo 1802, ma nell'ottobre 1801 era in vigore un cessate il fuoco).

Nel febbraio 1801 Francia e Spagna dichiararono guerra al Portogallo. Il conflitto, chiamato "Guerra delle arance", è durato solo fino a giugno. Il Portogallo fu costretto a cedere la città di Olivença alla Spagna, pagare un'indennità alla Francia e chiudere i suoi porti alle navi britanniche.

Haiti (Saint-Domingue) era una colonia francese in cui gli schiavi si erano ribellati nel 1791, creando uno stato autonomo, sebbene la Francia rivendicasse ancora la sovranità. Nel dicembre 1801 Napoleone decise di riconquistare l'isola e riportarla al controllo francese, inviando una flotta e un esercito di 30.000 soldati. È discutibile se si trattasse di una guerra "iniziata" da Napoleone o di una nuova fase della guerra esistente iniziata nel 1791. La campagna iniziale fu una vittoria francese, ma il loro esercito perse due terzi della sua forza a causa della malattia nel corso della successiva pochi anni e una seconda rivolta nel 1804 li sconfisse e ottenne l'indipendenza per Haiti.


Battaglia di Austerlitz 1805: Guerra della Terza Coalizione


La Guerra della Terza Coalizione fu iniziata dai nemici di Napoleone, sebbene giustificassero le loro azioni indicando l'effettiva annessione dell'Italia da parte di Napoleone nel gennaio 1802 e il suo intervento militare in Svizzera nell'ottobre 1802 come atti di aggressione francese. La Gran Bretagna dichiarò guerra alla Francia il 18 maggio 1803. Svezia, Austria e Russia si unirono alla guerra nei due anni successivi, ma l'Austria fu costretta ad arrendersi nel dicembre 1805 dopo la battaglia di Austerlitz. La Gran Bretagna, la Svezia e la Russia rimasero tecnicamente in guerra con la Francia, ma i combattimenti sulla terraferma terminarono.



Battaglia di Jena 1806: Guerra della Quarta Coalizione


La Guerra della Quarta Coalizione fu iniziata dalla Prussia il 9 ottobre 1806 quando, sostenuti dalla Sassonia, dichiararono guerra alla Francia. La loro giustificazione era il crescente controllo della Francia sugli stati tedeschi minori dalla sconfitta dell'Austria l'anno precedente. La Prussia subì un'umiliante sconfitta quando le truppe francesi marciarono verso Berlino dopo soli 19 giorni di combattimenti. I resti dell'esercito prussiano distrutto si diressero verso est per unirsi ai russi, che non avevano avuto il tempo di intervenire nella guerra in precedenza, e continuarono la lotta per un altro anno. Il Trattato di Tilsit nel luglio 1807 pose fine a questo conflitto, lasciando la Gran Bretagna come l'unica grande potenza ancora in guerra con la Francia.


Ribellione "Dos de Mayo", Madrid, 1808: guerra peninsulare


Napoleone iniziò una nuova guerra il 19 novembre 1807 quando le truppe francesi, alleate con la Spagna, invasero il Portogallo con l'obiettivo di annettere e dividere quel paese. L'invasione iniziale ebbe successo e la famiglia reale portoghese fuggì in Brasile.

Il re di Spagna, Carlos IV, era considerato debole e impopolare. Napoleone ne approfittò nel febbraio 1808 ordinando alle truppe francesi in Spagna - nominalmente presenti come alleati per aiutare nella guerra in Portogallo - di prendere il controllo del paese. All'inizio c'era poca resistenza organizzata; alcune rivolte furono represse dalle truppe francesi, ma l'esercito spagnolo, debole e demoralizzato, non combatté il colpo di stato. Napoleone nominò suo fratello Giuseppe Bonaparte nuovo re di Spagna. Tuttavia, nel maggio 1808 scoppiò una ribellione popolare contro il dominio francese in molte regioni della Spagna.

Anche se all'inizio sembrava che i francesi avrebbero schiacciato facilmente i ribelli spagnoli, la battaglia di Bailén in Andalusia nel luglio 1808 fu per loro un disastro: la prima grande sconfitta militare per la Francia napoleonica. Il mese successivo un forte esercito britannico di 30.000 sbarcò in Portogallo per assistere la ribellione, iniziando una campagna di sei anni che si sarebbe conclusa con la Francia cacciata completamente dalla penisola iberica.


Battaglia di Wagram 1809: Guerra della Quinta Coalizione


La Guerra della Quinta Coalizione iniziò nell'aprile 1809. L'Austria aveva riformato il suo esercito dopo Austerlitz e vedeva i problemi francesi in Spagna come un'opportunità di vendetta. Dichiararono guerra e nella battaglia di Aspern-Essling il 21 maggio Napoleone perse una grande battaglia per la prima volta nella sua vita (il suo esercito fu colto di sorpresa mentre attraversava un fiume con le forze divise). Tuttavia, si riprese e vinse la guerra. Un trattato di pace molto duro è stato imposto all'Austria a Schönbrunn in ottobre


Ritirata da Mosca 1812: Campagna di Russia


Nel giugno 1812 Napoleone dichiarò guerra alla Russia. I suoi obiettivi erano di costringere la Russia a cessare i commerci con la Gran Bretagna come parte del suo "sistema continentale" di blocco, e anche di catturare i territori ex polacco-lituani da dare al suo stato vassallo, il Granducato di Varsavia. Notoriamente, la Grande Armée francese fu distrutta durante la ritirata invernale da Mosca, perdendo quasi mezzo milione di uomini uccisi o morti di freddo, malattie e fame.



Battaglia di Lipsia 1813: Guerra della Sesta Coalizione


All'inizio del 1813, la Francia era in guerra con Gran Bretagna, Spagna e Russia (e i loro alleati). Vedendo la sconfitta di Napoleone in Russia, molti altri paesi si unirono dichiarando guerra anche alla Francia. Questa è solitamente considerata una nuova guerra, quella della Sesta Coalizione. La Prussia dichiarò guerra alla Francia il 28 febbraio 1813, alla Svezia il 3 marzo e all'Austria il 12 agosto. Anche se Napoleone combatteva abilmente, ora era osteggiato da tutte le grandi potenze d'Europa contemporaneamente e non era in grado di sconfiggerle. Il 30 marzo 1814 gli eserciti alleati marciarono su Parigi e Napoleone fu costretto ad arrendersi. Abdica l'11 aprile e viene mandato in esilio all'isola d'Elba. La monarchia francese sotto il re Luigi XVIII fu restaurata.


Fuga di Napoleone dall'Elba 1815: i cento giorni


Napoleone fuggì dall'Elba il 26 febbraio 1815 e sbarcò in Francia con appena mille uomini. Due reggimenti di truppe francesi, ordinati per arrestarlo, andarono invece al suo fianco. (Notoriamente, Napoleone si avvicinò alle truppe ostili, si sbottonò il cappotto per scoprire il petto e gridò "Se qualcuno di voi desidera sparare al suo imperatore, eccomi qui!" Invece di sparare, iniziarono a tifare per lui.) Re Louis inviò il maresciallo Ney con 6.000 uomini per fermare l'ex imperatore; invece Ney si unì a Napoleon. Il 20 maggio Napoleone entra trionfante a Parigi.

Le potenze alleate, Gran Bretagna, Austria, Russia e Prussia, consideravano il ritorno di Napoleone dall'esilio un atto criminale e lo bollarono come fuorilegge. Decisero di inviare 150.000 truppe ciascuno per sconfiggere Napoleone. (Alla Gran Bretagna fu permesso di contribuire con denaro al posto delle truppe, poiché il loro esercito non era così grande.) Napoleone, come la maggior parte delle persone sa, fu finalmente sconfitto a Waterloo il 18 giugno 1815. Si arrese agli inglesi un mese dopo, ponendo fine al Guerre napoleoniche.