mercoledì 20 novembre 2024

LOUIS-NICOLAS DAVOUT: IL MARESCIALLO DI FERRO CHE NON CONOBBE SCONFITTA

Precisione, disciplina e lealtà assoluta: l’unico generale invincibile di Napoleone

In un’epoca dominata da personalità turbolente, impavide e spesso votate all’eccesso, Louis-Nicolas Davout rappresentò l’eccezione silenziosa e letale. Non amava i riflettori né le corti; non cercava il plauso degli aristocratici o i favori delle donne. Fu il più austero, il più disciplinato e, secondo molti storici militari, il più competente tra i Marescialli dell’Impero. Non perse mai una battaglia, e la sua dedizione cieca alla causa napoleonica lo rese tanto temuto quanto rispettato. Per questo fu soprannominato, con timore reverenziale, “il Maresciallo di Ferro”.

Nato a Annoux, in Borgogna, nel 1770, Davout proveniva da una famiglia nobile decaduta. Studiò all’École Royale Militaire e, dopo un precoce congedo, si arruolò nuovamente all'inizio della Rivoluzione, aderendo con convinzione agli ideali repubblicani. Durante le prime campagne rivoluzionarie mostrò subito qualità non comuni: freddezza nei momenti critici, lucidità strategica, rigore incrollabile.

Fu a cavallo tra il 1796 e il 1800, sotto l’occhio vigile di Bonaparte, che Davout cominciò ad affermarsi. Ma fu con l’ascesa dell’Impero che il suo talento si manifestò con forza. Nominato Maresciallo nel 1804, Davout divenne il comandante del III Corpo d’Armata, una delle unità più efficienti dell’intero esercito imperiale. Mentre altri marescialli brillavano per coraggio impetuoso o senso scenico, Davout si distingueva per l’arte della guerra applicata con precisione matematica.

Il suo capolavoro assoluto fu la battaglia di Auerstädt, 14 ottobre 1806. Con soli 27.000 uomini, affrontò e sconfisse l’esercito prussiano, forte di oltre 60.000 soldati, comandato dal duca di Brunswick. Fu una vittoria tanto spettacolare quanto decisiva, che consacrò Davout come genio tattico. Napoleone stesso, mai incline all’elogio generoso verso i subordinati, fu costretto ad ammettere: “Davout ha vinto una battaglia da solo”.

Da quel momento, la sua fama crebbe. Partecipò con distacco e efficienza alle campagne di Eylau, Wagram, Smolensk, Borodino. Ovunque il suo corpo d’armata passasse, l’ordine e la disciplina regnavano. Nessuna violenza gratuita, nessuna rapina, nessun disordine tollerato: Davout era severo, persino spietato, ma giusto. L’esercito lo temeva più dei nemici. Ed è proprio questa integrità assoluta che lo rese impopolare a corte: non adulava, non trafficava, non complottava.

Nel 1812, durante la tragica campagna di Russia, fu tra i pochi a mantenere l’ordine tra le fila in ritirata. Nonostante le perdite immense, il suo corpo rientrò in condizioni relativamente dignitose. Questo senso del dovere, unito a un odio dichiarato per l’incapacità e la corruzione, lo isolò politicamente. Dopo Lipsia, nel 1813, fu uno degli ultimi a cedere il passo.

Con la caduta di Napoleone nel 1814, Davout si ritirò, ma durante i Cento Giorni tornò al servizio dell’Imperatore con feroce energia. Fu nominato Ministro della Guerra, incarico che svolse con una dedizione quasi maniacale. Quando tutto crollò a Waterloo, fu lui a difendere Parigi sino all’ultimo. Mentre altri marescialli cercavano scappatoie o negoziati, Davout si preparava a combattere fino alla fine, pur sapendo che la causa era persa. Solo l’ordine diretto di Napoleone gli impedì una resistenza che avrebbe trasformato Parigi in un campo di rovine.

Dopo la Restaurazione, fu esiliato dalla vita militare, ma non perseguitato come altri suoi colleghi. Forse i Borbone temevano il suo rigore, ma non potevano imputargli eccessi. Nel 1817 gli fu concesso di tornare alla vita pubblica come Pari di Francia, ma morì prematuramente nel 1823, a soli 53 anni.

Il suo nome, inciso sull’Arco di Trionfo, non richiama l’immaginario romantico di Murat né l’impeto furioso di Ney. Ma per chi studia l’arte della guerra, Davout rappresenta l’eccellenza assoluta: colui che, più di ogni altro, coniugò la dottrina con la pratica, il comando con la morale, la lealtà con l’efficienza. In lui, Napoleone trovò non un semplice esecutore, ma un alter ego militare, immune da ambizioni personali, capace di vincere per dovere, non per vanità.

La sua eredità, come quella dei più grandi strateghi, non si misura nei proclami, ma nei risultati: e Davout non perse mai una battaglia. Questo, in un’epoca di giganti e illusioni, resta il suo monumento più alto.

martedì 19 novembre 2024

JOACHIM MURAT, IL CAVALIERE DELL’IMPERO: ASCESA E CADUTA DEL RE CHE VOLEVA VOLARE TROPPO IN ALTO

Dalle scuderie di Cahors al trono di Napoli, il destino leggendario del maresciallo più audace di Napoleone

Fra tutti i marescialli dell’Impero napoleonico, nessuno incarna con maggiore intensità lo spirito romantico, impetuoso e contraddittorio dell’epoca quanto Joachim Murat. Fu il più spettacolare, il più teatrale, forse il più coraggioso, certamente il più ambizioso. Cavaliere impavido, re per volere imperiale, infine traditore e martire: la sua vita fu una parabola straordinaria, che si elevò sulle ali della gloria per poi schiantarsi nella polvere dell'esilio e del piombo.

Nato nel 1767 a Labastide-Fortunière, nel cuore dell’Occitania, figlio di un modesto oste, Murat avrebbe dovuto farsi frate. Ma il destino, e la Rivoluzione, avevano altri piani. Sedotto dall’ideale rivoluzionario e attratto da tutto ciò che scintillava di gloria e pericolo, si arruolò nella cavalleria francese nel 1787. Il suo talento era innato: eccelleva nel comando come nell’audacia, e la sua figura slanciata, i lunghi capelli neri, l’uniforme sgargiante lo rendevano una presenza scenica irresistibile. Era il ritratto vivente del nuovo eroe francese: guerriero, patriota, conquistatore.

Fu al fianco di Bonaparte sin dagli albori della sua folgorante carriera: a Tolone, a Lodi, in Egitto, dove la sua cavalleria sbaragliò la resistenza mamelucca al Cairo. Il generale còrso lo notò, lo valorizzò, se ne innamorò quasi. E non solo militarmente: Murat sposò nel 1800 Carolina Bonaparte, la più ambiziosa delle sorelle dell’Imperatore. Il legame con la famiglia imperiale consolidò la sua posizione e ne accelerò l’ascesa.

Nel 1804 fu insignito del bastone di Maresciallo dell’Impero, e due anni dopo ricevette il trono di Napoli, succedendo a Giuseppe Bonaparte. Da allora, Murat non fu più soltanto un comandante di cavalleria, ma un sovrano. E non un sovrano qualsiasi: volle essere un monarca moderno, amato dal popolo, riformatore, illuminato. Fece costruire strade, riorganizzò l’esercito napoletano, promosse l’istruzione, abbellì la capitale. Ma l’anima del guerriero non conobbe mai pace: Murat restava un soldato in cerca di battaglie, più che un politico in cerca di stabilità.

Nel frattempo, la guerra contro le monarchie europee si intensificava. Murat fu protagonista assoluto delle campagne del 1805 e 1807, distinguendosi a Jena, Eylau, Friedland. La sua cavalleria, lanciata a briglia sciolta sul campo di battaglia, era la quintessenza dello stile murattiano: tempestosa, teatrale, travolgente. A Eylau, si racconta che la sua carica disperata salvò l’esercito francese dall’annientamento.

Eppure, dietro lo sfarzo dell’uniforme ricamata d’oro, Murat coltivava un’ambizione pericolosa: sognava di essere non il braccio di Napoleone, ma un sovrano indipendente, un re d’Italia, forse persino un successore dell’Imperatore. Quando l’Impero iniziò a vacillare, Murat rivelò il volto tragico del suo carattere: la sua lealtà cominciò a vacillare.

Nel 1814, temendo per il proprio trono e fiutando il crollo imminente di Napoleone, Murat negoziò in segreto con gli austriaci, passando al nemico. Fu un gesto che gli garantì qualche mese di sovranità, ma gli costò l’onore. Quando Napoleone fuggì dall’Elba, Murat tentò disperatamente di riconciliarsi con lui e lanciò una nuova campagna per l’unificazione italiana, nel sogno di trasformarsi da vassallo a protagonista. Ma l’Italia non rispose al suo appello, e l’esercito napoletano fu annientato a Tolentino nel maggio 1815.

Fuggitivo, braccato, abbandonato persino dalla moglie Carolina, Murat tentò l’ultimo, folle colpo di scena: sbarcare in Calabria, sollevare il Sud e riconquistare il trono. Il piano si rivelò suicida. Arrestato a Pizzo, in Calabria, fu processato sommariamente e fucilato il 13 ottobre 1815. Chiese di morire in piedi, senza benda sugli occhi, e comandò lui stesso il plotone d’esecuzione: “Soldati, mirate al cuore, risparmiate il volto!”, furono le sue ultime parole.

Così morì Joachim Murat, re di Napoli, cavaliere dell’Impero, figlio della Rivoluzione e vittima della propria ambizione. Il suo nome campeggia sull’Arco di Trionfo, ma il suo mito sopravvive soprattutto nel Sud, dove il suo sogno di indipendenza nazionale, benché tardivo e contraddittorio, anticipò le future lotte del Risorgimento.

In Murat si specchia l’epoca napoleonica in tutta la sua vertigine: grandezza e caduta, gloria e tradimento, idealismo e vanità. Fu un uomo troppo audace per la prudenza, troppo romantico per la politica, troppo solo per sopravvivere. Eppure, nella sua morte spettacolare, riconquistò quella nobiltà che le sue scelte politiche gli avevano negato.

lunedì 18 novembre 2024

IL CAVALIERE DELL’AQUILA: JEAN-BAPTISTE BESSIÈRES, L’EROE LEALE DI NAPOLEONE

Dall’altopiano d’Alvernia al cuore dell’Impero, l’ascesa di un soldato fedele fino alla morte

In un’epoca dominata da ambizione e tradimenti, Jean-Baptiste Bessières rappresentò un raro esempio di fedeltà incrollabile. Nobile d’animo prima che di nascita, maresciallo dell’Impero e duca d’Istria, egli incarna quella cavalleria che sopravvisse — anzi, brillò — nell’età della polvere da sparo e dei colpi di Stato. Se Berthier fu la mente dell’Impero, Bessières ne fu il cuore pulsante sul campo: coraggioso, diretto, irreprensibile, ma mai arrogante.

Nato nel 1768 a Prayssac, nel dipartimento del Lot, da una modesta famiglia di provincia, il giovane Bessières fu inizialmente avviato alla carriera ecclesiastica. Ma i tempi erano impietosi per le vocazioni, e l’esplosione rivoluzionaria lo spinse verso il mestiere delle armi. Arruolatosi come semplice volontario, mise ben presto in luce qualità tanto rare quanto preziose: audacia, spirito di sacrificio, senso della disciplina e un’innata capacità di guidare gli uomini.

Fu nell’Armata d’Italia, sotto il comando di Bonaparte, che Bessières si distinse per la prima volta, guadagnandosi la fiducia del futuro Imperatore. Non per caso, nel 1796 fu scelto per guidare la Guardia Consolare, che diventerà poi la leggendaria Guardia Imperiale: un’unità d’élite, temuta dagli avversari e venerata dai compagni d’arme. In questa carica, Bessières fu più che un comandante: fu il custode dell’onore stesso dell’Impero.

La sua figura spicca in numerose battaglie fondamentali: a Marengo, quando la Guardia Consolare resistette al momento più critico dello scontro, salvando l’esercito dalla disfatta; a Austerlitz, dove la sua cavalleria contribuì alla rottura decisiva delle linee austro-russe; a Friedland, dove guidò cariche spettacolari con la risolutezza di un antico paladino. In ogni occasione, Bessières non mancò mai al dovere e divenne presto uno degli uomini di fiducia più stretti di Napoleone, quasi un fratello d’armi.

Nel 1804 fu nominato Maresciallo dell’Impero, e nel 1809, dopo la campagna d’Austria, fu insignito del titolo di Duca d’Istria. Nonostante la crescente ambizione di molti colleghi marescialli — da Murat a Bernadotte, da Masséna a Ney — Bessières rimase leale, alieno da ogni velleità politica, concentrato unicamente sull’adempimento del proprio compito. Questa sua fedeltà fu forse la sua più grande virtù, ma anche, in un certo senso, il limite della sua ascesa. Mai tentò di offuscare Napoleone; mai cospirò per ottenere un regno; mai antepose il proprio tornaconto all’interesse della causa imperiale.

Nel 1812 prese parte alla disastrosa campagna di Russia, distinguendosi ancora una volta per coraggio e sangue freddo, riuscendo a mantenere l’ordine tra le fila francesi in rotta durante la tragica ritirata. Ma fu nel 1813, durante la campagna di Germania, che il destino decise di congedarlo dal mondo dei vivi.

Il 1º maggio, a pochi giorni dalla battaglia di Lützen, mentre effettuava un’ispezione sul campo nei pressi di Rippach, un colpo di cannone lo colpì in pieno. Morì sul colpo, senza clamore, senza retorica. La notizia della sua morte giunse a Napoleone poche ore prima dello scontro: l’Imperatore rimase profondamente scosso. “È una grande perdita per me”, dichiarò, “ha vissuto come Bayard ed è morto come Turenne”.

La morte di Bessières privò la Francia di uno dei suoi marescialli più equilibrati e amati. La Guardia lo pianse come un padre; Napoleone come un fratello. Non a caso volle che il suo corpo fosse sepolto con tutti gli onori nel Panthéon, anche se le esequie solenni avvennero solo sotto Luigi XVIII, quando l’odio monarchico verso i generali dell’Impero si era ormai stemperato nel rispetto.

Il nome di Jean-Baptiste Bessières è inciso sull’Arco di Trionfo, eppure la sua memoria vive soprattutto nel rispetto silenzioso che gli fu tributato dai suoi pari. Egli non cercò mai la gloria per sé, ma ne fu inondato proprio per la sua modestia, la sua disciplina, la sua integrità.

Mentre molti dei marescialli dell’Impero finirono per tradire, fallire o tentennare, Bessières rimase ciò che era stato fin dall’inizio: un soldato onesto, devoto e giusto. In un secolo di spade affilate e lingue biforcute, questo lo rese straordinario.

domenica 17 novembre 2024

IL PRIMO ARCHITETTO DELLE VITTORIE DI NAPOLEONE

Louis-Alexandre Berthier, il genio invisibile dello Stato Maggiore imperiale

Tra le figure titaniche che plasmarono il volto militare dell’Europa nel vortice rivoluzionario e imperiale francese, Louis-Alexandre Berthier rimane, forse più di ogni altro, il simbolo del genio metodico, dell’efficienza silenziosa e del rigore assoluto che fecero da colonna vertebrale all’arte della guerra di Napoleone. Dietro le grandi cariche onorifiche — Principe di Neuchâtel, Duca di Valangin, Principe di Wagram — si cela un uomo la cui vera grandezza non si misurò sul campo tra le sabbie e le baionette, ma tra carte, dispacci e carte topografiche.

Berthier non fu un condottiero nel senso classico. Non incantava le truppe con proclami o gesti teatrali. Eppure, senza di lui, l’epopea napoleonica avrebbe probabilmente vacillato ancor prima di Marengo. Nato nel 1753 a Versailles, figlio di un ufficiale del Genio sotto Luigi XVI, Berthier fu allevato nel culto della precisione e dell’ordine. Entrò nell’esercito a diciassette anni, e dopo un decennio trascorso in Nord America, al fianco delle truppe francesi nella guerra d’indipendenza americana, tornò in patria con il grado di colonnello. Ma fu la Rivoluzione a dargli l’occasione di distinguersi definitivamente.

All’inizio fu comandante della Guardia nazionale a Versailles, legato ancora a un certo idealismo monarchico, tanto da aiutare nella fuga le sorelle del re. Ma presto si adattò ai nuovi tempi. Nella campagna delle Argonne si fece notare per la lucidità operativa. Quando nel 1796 Napoleone Bonaparte ottenne il comando dell’Armata d’Italia, fu proprio Berthier a diventare la sua ombra e il suo doppio organizzativo. Lo resterà per quasi vent’anni.

La sintonia tra i due uomini era perfetta: Napoleone dettava l’idea, Berthier la traduceva in un piano. L’imperatore descrisse il suo collaboratore come “indispensabile”, un elogio rarissimo da parte sua. In effetti, senza la struttura operativa ideata da Berthier, le geniali intuizioni strategiche di Napoleone sarebbero spesso rimaste sulla carta. Berthier conosceva a memoria ogni reparto, ogni ufficiale, ogni esigenza logistica delle armate imperiali. Coordinava marce su scala continentale con una rapidità che lasciava disorientati anche i più scettici strateghi avversari. Il segreto? Rigorosa pianificazione, chiarezza d’intenti, e una dedizione ossessiva al dettaglio.

Dopo la pace di Campoformio, fu lui a occupare Roma, proclamando la Repubblica Romana nel 1798. Partecipò alla campagna d’Egitto e fu tra i registi del colpo di Stato del 18 Brumaio, che segnò la fine del Direttorio e l’ascesa di Bonaparte al Consolato. Come Ministro della Guerra, riorganizzò l’esercito francese prima della campagna del 1800, dove a Marengo, pur non avendo un comando diretto, si distinse ancora una volta nella logistica dell'Armata di Riserva, traversando le Alpi con migliaia di uomini e cannoni — impresa memorabile per precisione e tempismo.

Berthier fu nominato Maresciallo dell’Impero nel 1804, primo nella lista per anzianità e merito. Seguì Napoleone in tutte le principali campagne — da Austerlitz a Jena, da Friedland a Wagram — sempre come capo di Stato Maggiore. La sua influenza crebbe fino a ottenere titoli principeschi. Eppure rimase un uomo schivo, privo della vanità di molti suoi colleghi marescialli.

Nel 1812, nella disastrosa campagna di Russia, fu ancora una volta al centro della macchina militare francese, ma fu lì che cominciarono a manifestarsi segni di esaurimento: l’immensità del teatro di guerra, l’impossibilità di mantenere comunicazioni efficaci, e la dispersione delle truppe misero in crisi anche la sua leggendaria efficienza. Lo stesso accadde in Germania e in Francia nel 1813-1814. Dopo l’abdicazione di Napoleone, Berthier si ritirò nei suoi feudi, accompagnando Luigi XVIII a Parigi, ma mantenendosi defilato.

Quando giunse la notizia del ritorno di Napoleone dall’Elba, Berthier esitò. Non si unì all’Imperatore, né si schierò apertamente contro di lui. Poco dopo si ritirò nel suo castello di Bamberga, dove il 1º giugno 1815 morì in circostanze mai chiarite: cadde da una finestra del terzo piano. Fu un incidente? Un suicidio? O un assassinio orchestrato per impedirgli di riabbracciare il suo antico signore? La verità resta sepolta con lui.

Napoleone, da Sant’Elena, non ebbe dubbi: la sua assenza fu decisiva. “Se Berthier fosse stato con me a Waterloo, l’esito della battaglia sarebbe potuto essere diverso”. È difficile stabilirlo con certezza, ma ciò che è certo è che nessun altro maresciallo impersonò la razionalità dell’Impero come Louis-Alexandre Berthier. Non era il volto della guerra, ma la mente che la rendeva possibile.

sabato 16 novembre 2024

Guillaume Brune: l’ultimo eroe della Repubblica travolto dalla furia della Restaurazione

Guillaume Marie Anne Brune, Maresciallo di Francia e patriota della prima ora, cadde non sul campo di battaglia, ma sotto i colpi di una nazione ormai lacerata dalla vendetta politica e dal fanatismo restauratore. Il suo assassinio, avvenuto nell’estate del 1815, rappresenta uno dei più tragici epiloghi del Terrore bianco che infiammò la Francia dopo la disfatta di Waterloo. A distanza di oltre due secoli, la vicenda di Brune merita di essere riletta nella sua interezza: non solo per l’influenza che egli esercitò sul corso della Rivoluzione e delle guerre napoleoniche, ma anche per la brutale ingratitudine con cui la Storia gli ha chiuso il conto.

Nato nel 1763 a Brive-la-Gaillarde, figlio di un magistrato, Brune ricevette un’istruzione borghese e raffinata, culminata nello studio del diritto a Parigi. Spirito inquieto e amante delle lettere, affiancò all’apprendistato giuridico un’attività editoriale e letteraria che culminò con la pubblicazione – sotto pseudonimo – di un’opera in prosa dal titolo Voyage pittoresque et sentimental dans les provinces occidentales de la France. Ma sarà il fragore della Rivoluzione a strapparlo ai salotti per condurlo alla milizia.

Arruolatosi con entusiasmo tra i ranghi dei patrioti, Brune divenne presto capitano, imponendosi come uno dei fondatori del Club dei Cordiglieri. Fu in questi circoli radicali, assieme a figure come Jean-Paul Marat, che maturò la sua adesione piena ai principi rivoluzionari. Fu, nondimeno, proprio l’integralismo repubblicano a forgiarne la fama ambivalente: acclamato per il coraggio, temuto per l’intransigenza. Incaricato della repressione dei controrivoluzionari a partire dal 1792, Brune assolse con zelo ai compiti di polizia, mostrando una durezza che ancora oggi divide gli storici.

Le sue prime prove militari furono segnate dal fuoco della repressione interna: nel 1796, al fianco di Bonaparte, sedò con metodi feroci i moti nel sud della Francia, guadagnandosi l'odio eterno degli avignonesi. Tuttavia, sul piano strettamente militare, seppe distinguersi per valore e capacità tattica. Dopo essersi distinto sotto Massena in Italia, fu promosso generale di divisione e, nel 1798, guidò con successo la campagna di conquista della Svizzera. La sua efficienza gli valse la guida dell’Armata d’Italia e, successivamente, il comando supremo nei Paesi Bassi, dove sconfisse le truppe anglo-russe nella decisiva battaglia di Castricum (6 ottobre 1799), costringendo Londra a rinunciare all’invasione.

Ma con l’ascesa di Napoleone e la centralizzazione del potere, Brune – spirito ribelle e repubblicano convinto – divenne una figura scomoda. Fedelissimo agli ideali del 1789, accettò a fatica il nuovo ordine bonapartista. Nonostante ciò, fu nominato Maresciallo dell’Impero nel 1804, forse più come omaggio simbolico alla memoria rivoluzionaria che per reale convinzione. Emarginato dalla scena principale, fu relegato a incarichi secondari: dapprima ambasciatore a Istanbul, dove non riuscì a impressionare il sultano, poi governatore delle città anseatiche. La gloria delle grandi battaglie gli fu preclusa, e quando si ritirò a vita privata fu con l’amaro in bocca.

Nel 1815, con il ritorno di Napoleone dall’Elba, Brune tornò brevemente alla ribalta, ma non per servire l’Impero, quanto per tentare ancora una volta di riportare un fragile equilibrio fra la Francia e il suo passato rivoluzionario. Il suo proclama ai soldati, ispirato e pacificatore, fu la sua ultima testimonianza pubblica. Ma la furia della Restaurazione lo travolse. Dopo Waterloo, ormai privo di protezioni e isolato politicamente, fu assalito da una folla armata ad Avignone. Rifiutò di fuggire. «Fate pure», disse scoprendosi il petto. Guindon de la Roche, un veterano monarchico, gli sparò a bruciapelo. Il suo cadavere fu oltraggiato e gettato nel Rodano, come quello di un traditore qualunque.

Napoleone, dall’esilio di Sant’Elena, lo ricordò con queste parole: «Brune fu un eroe della Repubblica, non dell’Impero». In questa affermazione si legge l’essenza di un uomo rimasto fedele, fino all’ultimo respiro, ai princìpi di libertà e giustizia sociale per i quali aveva combattuto. Il suo nome, inciso al 14º posto sulla colonna 23 dell’Arco di Trionfo, resta uno dei pochi omaggi ufficiali a un personaggio che la Storia ha preferito dimenticare.

In un tempo in cui le democrazie moderne affrontano nuove minacce, la parabola tragica di Guillaume Brune ci ammonisce: i principi non si barattano, e la fedeltà alla coscienza è spesso più pericolosa della guerra stessa.

venerdì 15 novembre 2024

GLI UOMINI DELL’IMPERO: BESSIÈRES E LA LEALTÀ ALLE ARMI DI NAPOLEONE

Da allievo modello a duca d'Istria, il destino di Jean-Baptiste Bessières fu forgiato tra le tempeste della Rivoluzione francese e le glorie dell’Impero. Il ritratto di un comandante fedele, valoroso, ma segnato da un’ambivalenza decisiva nei momenti critici.

Pochi uomini seppero incarnare, con la stessa fierezza e tragica coerenza, lo spirito militare dell’età napoleonica come Jean-Baptiste Bessières, duca d’Istria. Nato nel 1768 da una famiglia borghese – figlio di un barbiere agiato – fu la Rivoluzione a spalancargli le porte di una carriera altrimenti inaccessibile. Ma se la Repubblica gli offrì il trampolino, fu Napoleone Bonaparte a scolpire il suo destino, trasformandolo in uno dei pilastri dell’Armata imperiale.

Studente brillante al collegio reale di Cahors, Bessières fu travolto dall’entusiasmo rivoluzionario e si arruolò nella Guardia nazionale insieme a Gioacchino Murat, l’amico di sempre, che come lui sarebbe emerso dalle battaglie per diventare re. La sua adesione agli ideali rivoluzionari fu sincera, ma non disgiunta da un lucido calcolo: nella nuova era, i talenti militari avevano finalmente modo di emergere, indipendentemente dalla nascita.

La svolta arrivò nel 1795, con l’ingresso nell’Armata d’Italia. Fu lì che conobbe Bonaparte. Rapidamente conquistò la sua fiducia con un misto di audacia e disciplina, tanto da essere nominato comandante delle sue guardie del corpo. Ad Arcole e poi in Egitto, Bessières non brillò tanto per imprese spettacolari quanto per la sua instancabile devozione alla figura del generale corso. Al suo ritorno in Francia, la fedeltà fu premiata: durante il colpo di Stato del 18 brumaio (9 novembre 1799), sostenne decisivamente Napoleone, ottenendo il comando della nuova Guardia Consolare, divenuta poi Guardia Imperiale.

Le campagne del primo impero segnarono l’ascesa definitiva del futuro maresciallo. A Marengo, nel 1800, fu uno degli artefici del successo. Nel 1804 ricevette la dignità di Maresciallo dell’Impero, un’onorificenza che suggellava non solo la sua bravura militare ma anche un legame personale, intimo e privilegiato con l’Imperatore.

Austerlitz (1805) e Eylau (1807) furono i campi su cui la sua fama crebbe. Alla guida della Guardia, Bessières incarnava lo spirito più puro dell’élite militare napoleonica: rigore, disciplina, prontezza. Ma fu in Spagna, teatro aspro e incerto della resistenza popolare e della guerriglia, che emerse un lato meno noto del comandante. A Medina de Rio Seco (1808), inflisse una dura sconfitta alle forze anglo-spagnole di Joaquín Blake, dimostrando determinazione e spietatezza. Ma proprio in questa guerra logorante affiorarono i limiti di Bessières: la sua riluttanza ad assumersi la piena responsabilità strategica, un’indecisione operativa che rese evidente l’inadeguatezza a comandare eserciti in autonomia.

Sostituito temporaneamente, tornò in scena durante la campagna d’Austria del 1809. Ad Aspern-Essling, con i suoi cavalleggeri della riserva, salvò dall’accerchiamento i marescialli Lannes e Masséna. Ma ancora una volta si vide la dicotomia del personaggio: grande esecutore, fedele e brillante nell’azione, ma incapace di gestire con energia le complessità del comando supremo. Era, in fondo, l’uomo perfetto per una posizione subordinata – fedele esecutore, mai leader carismatico.

Rientrato in Spagna nel 1811, il suo compito si rivelò impossibile: truppe scarse, logistica in crisi, l’avanzata anglo-portoghese guidata da Wellington. Bessières fece quello che poté. Fu richiamato in patria, e con la campagna di Russia (1812) il suo ruolo fu ridotto al comando della cavalleria della Guardia. La ritirata segnò un punto di rottura in tutta la struttura dell’armata imperiale, ma Bessières sopravvisse, pronto a servire ancora.

Il 1º maggio 1813, durante la campagna di Germania, mentre ispezionava le posizioni nemiche nei pressi di Lützen, fu colpito da una granata. Morì sul colpo. La sua perdita, in un momento critico per l’Impero, fu un colpo durissimo anche per lo stesso Napoleone, che da Sant’Elena rievocò con amarezza quell’assenza: «Se avessi avuto Bessières a Waterloo, la mia Guardia mi avrebbe dato la vittoria».

Quella frase, più che un elogio postumo, è la testimonianza della fiducia assoluta che Napoleone riponeva in lui. Bessières non fu mai un genio tattico come Davout, né un trascinatore di eserciti come Masséna. Ma fu, con ogni evidenza, uno dei pochissimi che rimasero sempre e solo suoi. Senza ambizioni politiche, senza tradimenti, senza doppiezze. Morì soldato, come era vissuto. E nella sua figura si specchia tutta la parabola dell’epopea napoleonica: dall’entusiasmo rivoluzionario al crollo finale, passando per la gloria, la lealtà e, in fondo, la solitudine del comando.

giovedì 14 novembre 2024

Louis Alexandre Berthier: l’ombra perfetta di Napoleone e l’enigma di una morte senza verità

Architetto silenzioso delle più grandi vittorie napoleoniche, Berthier fu lo stratega invisibile dell’Impero. Il suo genio logistico, la sua discrezione e la sua tragica fine gettano ancora oggi una lunga ombra sull’epopea di Bonaparte.

Nella sterminata galleria di figure che popolarono l’epopea napoleonica, poche furono tanto decisive e al contempo tanto elusivamente silenziose quanto Louis Alexandre Berthier. Uomo di numeri più che di retorica, genio dell’organizzazione più che delle cariche a cavallo, Berthier fu l’indispensabile braccio destro di Napoleone Bonaparte in ogni campagna dall’Italia all’Egitto, dalla Spagna alla Russia, sino all’ultimo crollo dell’Impero. Morì in circostanze oscure nel giugno del 1815, appena prima di Waterloo, lasciando dietro di sé un vuoto che molti storici ritengono abbia pesato sull’epilogo della parabola imperiale.

Nato a Versailles il 20 novembre 1753, in un’epoca in cui l’assolutismo monarchico sembrava scolpito nella pietra, Berthier fu avviato alla carriera militare dal padre, ufficiale del Genio, e presto manifestò un talento raro per la pianificazione e la precisione. A diciassette anni era già nell’esercito; nel 1773 fu inviato in Nord America, dove si distinse durante la Guerra d’Indipendenza e maturò un’esperienza che si sarebbe rivelata cruciale nella tempesta rivoluzionaria.

Durante la Rivoluzione francese, Berthier si mostrò fedele al nuovo ordine pur mantenendo una linea prudente e defilata. Fu comandante della Guardia nazionale a Versailles, svolgendo un ruolo ambiguo nell’aiutare la fuga delle sorelle di Luigi XVI, ma senza mai compromettersi apertamente. Nel 1793, dopo un breve esilio dalla vita militare a seguito della fuga del generale La Fayette verso gli austriaci, si arruolò volontariamente nell’Armata dell’Ovest e si distinse nella guerra delle Vandea.

La vera svolta avvenne nel 1796, quando fu nominato capo di Stato Maggiore dell’Armata d’Italia, sotto il comando di un giovane e ambizioso generale corso: Napoleone Bonaparte. Tra i due si instaurò un rapporto di perfetta complementarità. Bonaparte dettava visione e strategia, Berthier eseguiva con rigore, velocità e precisione. Se il genio del futuro imperatore fu la scintilla delle vittorie, Berthier ne fu il motore organizzativo: compilava ordini, spostava armate, faceva muovere centinaia di migliaia di uomini come pedine su una scacchiera.

Dopo la vittoriosa campagna d’Italia, fu incaricato nel 1797 dell’occupazione di Roma, esautorando papa Pio VI e proclamando la Repubblica Romana. Al fianco di Bonaparte in Egitto, sostenne anche il colpo di Stato del 18 brumaio e fu ricompensato con il Ministero della Guerra nel nuovo regime. A Marengo, guidò l’Armata di Riserva con abilità e fu ferito in combattimento. Fu il primo maresciallo dell’Impero, il depositario della macchina bellica napoleonica.

Berthier non fu mai un condottiero carismatico, ma seppe dare forma concreta ai sogni di grandezza dell’Imperatore. Lo dimostrò ad Austerlitz, Jena, Friedland, nella campagna di Spagna, in quella d’Austria e in Russia, dove orchestrò la logistica di un’armata che si sarebbe infranta contro l’inverno e l’ostilità del territorio. Dal 1806 al 1809 fu nominato duca di Valengin, principe di Neuchâtel e infine principe di Wagram, titoli che sancivano il suo ruolo chiave nell’Impero.

Ma dietro la dedizione totale alla causa napoleonica, Berthier mantenne sempre una singolare prudenza politica. Quando Napoleone abdicò nel 1814, egli accompagnò Luigi XVIII nella sua solenne entrata a Parigi, evitando scelte che lo potessero compromettere. Tuttavia, la notizia della fuga di Napoleone dall’Elba nel marzo 1815 lo colse impreparato. Non vi sono prove certe della sua reazione: pare si sia ritirato nei suoi possedimenti a Bamberga, in Baviera, isolandosi.

La sua morte, avvenuta il 1º giugno 1815 — caduta da una finestra del terzo piano del castello — resta tuttora un enigma. Ufficialmente considerata accidentale, la dinamica ha lasciato spazio a ipotesi inquietanti: suicidio? Omicidio? Un incidente orchestrato da chi voleva impedirgli di raggiungere Napoleone? In assenza di prove, la storiografia tende a escludere il suicidio, incompatibile con il carattere lucido e metodico del maresciallo.

Quel che è certo è che a Waterloo Napoleone si trovò per la prima volta senza il suo fedele capo di Stato Maggiore. Le cronache della battaglia parlano di confusione negli ordini, di ritardi nei movimenti delle truppe, di una macchina militare che, priva del suo perno, non funzionava più come un tempo. Molti, da allora, hanno ipotizzato che l’assenza di Berthier abbia giocato un ruolo determinante nella sconfitta.

Figura tanto centrale quanto trascurata, Louis Alexandre Berthier fu l’artefice silenzioso del sistema napoleonico. Non cercò gloria personale, né si distinse per ambizione politica. Fu un soldato dell’efficienza, un maestro della logistica, l’uomo che trasformò la visione bellica di Bonaparte in realtà operativa. La sua parabola, come quella dell’Impero, si chiude con un’ombra: l’ombra del mistero, e quella più profonda della dimenticanza.