I
cento giorni
(in francese Cent-Jours) indicano
il periodo della storia europea compreso tra il ritorno di Napoleone
Bonaparte a Parigi (20 marzo 1815) dall'esilio all'isola d'Elba e la
restaurazione della dinastia dei Borbone sotto re Luigi XVIII (8
luglio dello stesso anno).
L'espressione les Cent Jours deriva da
una frase usata dal Prefetto di Parigi, il conte di Chabrol, nel suo
discorso di benvenuto al Re, l'8 luglio 1815:
(FR)
«Sire, cent jours se sont écoulés depuis le moment fatal où
Votre Majesté, forcée de s’arracher aux affections les plus
chères, quitta la capitale au milieu des larmes et de la
consternation publique» |
(IT)
«Sire, cento giorni sono passati dal momento fatale in cui
Vostra Maestà, costretto a separarsi dagli affetti più cari, ha
lasciato la capitale, tra lacrime e la pubblica costernazione.» |
| (Gilbert Chabrol de Volvic) |
|
Il ritorno di Napoleone avvenne mentre
si svolgeva il Congresso di Vienna, che si affrettò, il 13 marzo, a
dichiarare "fuorilegge" Napoleone. Il 25 marzo seguente
Regno Unito, Impero russo e austriaco e Prussia diedero vita alla
Settima coalizione, a cui in seguito aderirono altre nazioni,
impegnandosi militarmente a deporre una volta per tutte Napoleone. La
decisione pose le basi dell'ultimo conflitto nelle Guerre
napoleoniche, terminate con la sconfitta del generale francese a
Waterloo il 18 giugno 1815 dopo gli scontri di Quatre-Bras e Ligny,
della seconda restaurazione della monarchia francese e dell'esilio
permanente di Napoleone sull'isola di Sant'Elena, dove egli morì il
5 maggio 1821.
Il ritorno dell'imperatore
La condanna all'esilio di Napoleone
Febbraio e marzo 1814 avevano visto,
tra la Senna e la Marna, l'imperatore Napoleone difendere il
territorio francese contro le forze della Sesta coalizione. Incitati
da Pozzo di Borgo e da Talleyrand, gli Alleati giunsero alle porte di
Parigi mentre Napoleone cercava di arrestarli a Saint-Dizier. Dopo un
vano inseguimento, giunto troppo tardi, dovette ripiegare a
Fontainebleau. Da Fontaineableau, Napoleone incaricò il ministro
degli esteri Caulaincourt – già ambasciatore di Francia in Russia
e amico personale dello zar Alessandro I – di negoziare con
quest'ultimo l'abdicazione in favore del Re di Roma, il figlio di
Napoleone.
Lo zar, antiborbonico, non si oppose
ma, avendo appreso la defezione del maresciallo Marmont, posto in
avanguardia all'esercito francese a Essonne, impose l'abdicazione
senza condizioni vista la rinnovata condizione favorevole in cui si
trovava la Sesta coalizione. Dopo un ultimo tentativo di convincere i
suoi marescialli a marciare su Parigi, Napoleone abdicò e il Senato
chiamò «liberamente» il futuro Luigi XVIII «re dei francesi,
secondo il voto della nazione».
Poiché lo zar aveva promesso un esilio
degno di un imperatore, Caulaincourt propose prima la Corsica,
rifiutata perché parte integrante della nazione francese, quindi la
Sardegna, respinta anche questa perché appartenente al sovrano
Vittorio Emanuele I. Lo Zar decise infine di esiliare Bonaparte
sull'isola d'Elba, appartenente ai domini dell'Impero in seguito
all'annessione del Regno di Etruria; la proposta fu subito accettata
da Caulaincourt, timoroso che Regno Unito e Prussia potessero
rivelarsi meno accomodanti sulla decisione.
Il trattato di Fontainebleau del 6
aprile 1814 lasciò a Napoleone il titolo di imperatore, una rendita
di due milioni di franchi dal governo francese e la sovranità
dell'isola d'Elba, mentre l'imperatrice Maria Luisa divenne duchessa
di Parma, Piacenza e Guastalla. Il 20 aprile l'ormai ex imperatore
francese s'imbarcò a Fréjus e raggiunse Portoferraio il 3 maggio.
Lo stesso giorno Luigi XVIII entrò trionfalmente a Parigi
accompagnato dagli Émigré del clero e della nobiltà fuggiti
all'estero durante il periodo del Terrore.
La decisione di tornare in Francia
I diritti civili dei francesi,
annullati da anni di guerre, vennero ripristinati dai Borbone che
cercarono anche di risollevare l'economia. Tuttavia, la propaganda
reale non riuscì a cancellare dalla mente del popolo francese il
malgoverno antecedente la Rivoluzione; in particolare i contadini, a
cui la Rivoluzione aveva redistribuito le terre confiscate a nobili e
clero e che non erano più gravati da vincoli feudali, vedevano con
preoccupazione la possibilità (rimasta comunque una cosa molto
remota) di una riforma terriera che ristabilisse lo status quo
antecedente la rivoluzione.
Lo scontento regnava anche in parte
dell'esercito, costretto dalle potenze vincitrici della Sesta
coalizione a ridimensionarsi con conseguente smobilitazione
(necessaria anche da un punto di vista economico) di molti soldati.
Alcuni accolsero felicemente il ritorno alla vita civile, ma una
parte non riuscì a inserirsi nella società e ricordava i "bei
tempi" dell'Impero. La situazione in Francia venne portata alla
conoscenza di Napoleone da alcuni suoi ex generali e uomini politici,
passati agli ordini dei Borbone ma attenti a non abbandonare del
tutto l'ex imperatore nel caso questo fosse ritornato al potere.
Ad accelerare la scelta di Napoleone di
tentare la carta del rientro in Francia fu, soprattutto, la notizia
che, al Congresso di Vienna, le potenze vincitrici discutevano di
allontanarlo dall'Elba, troppo vicina al continente; tra le ipotesi
prese in considerazione c'erano le Azzorre o l'isola di Sant'Elena
nell'oceano Atlantico. In febbraio giunse sull'isola Fleury de
Chaboulon, ex prefetto di Reims, su incarico dell'ex segretario di
stato di Napoleone, Maret, per metterlo al corrente di un complotto
per far sollevare contro Luigi XVIII diversi generali nel nord della
Francia. Forte di queste notizie, Napoleone si decise e, il 26
febbraio, salpò dall'Elba accompagnato da un migliaio di soldati,
quattro cannoni e dai generali Antoine Drouot e Pierre Cambronne,
sbarcando il 1º marzo nei dintorni di Cannes.
Entrato nella leggenda napoleonica come
"il volo dell'Aquila", la marcia di risalita della Francia
da parte di Napoleone si scontrò con una resistenza estremamente
blanda. Il generale Andrea Massena, a Marsiglia, venne subito
informato dell'accaduto, ma non intraprese nessun'azione decisiva,
permettendo così a Napoleone di dirigersi verso Grenoble per vie
montane evitando volontariamente Marsiglia e la Provenza con le sue
note simpatie realiste. A Laffrey, 25 km a sud di Grenoble, il 5º
reggimento di linea dell'esercito francese sbarrò la strada alla
spedizione, ma Napoleone seppe portarli dalla sua parte con un
convincente discorso accompagnato da gesti plateali.
Napoleone quindi entrò in un clima di
festa a Grenoble e proseguì verso Parigi in un'atmosfera di giubilo
che raggiunse l'apice quando, il 14 marzo ad Auxerre, il maresciallo
Michel Ney e le sue forze, inviate ad arrestare Napoleone, si unirono
invece a lui. Inutilmente il re continuava a inviargli contro truppe
e generali: queste appena raggiuntolo, disertavano e si univano a
lui, al punto che in place Vendôme a Parigi comparve un avviso a
lettere cubitali: «Da Napoleone a Luigi XVIII. Mio buon fratello,
non è necessario che tu mi mandi altre truppe, ne ho già a
sufficienza.» Il 19 marzo Luigi XVIII e la sua corte decisero di
abbandonare Parigi, essendo l'esercito napoleonico ormai alle porte;
Napoleone vi entrò infatti la sera dopo.
La scelta della nuova Costituzione
Il nuovo governo venne formato alla
fine di marzo con Cambacérès alla Giustizia, l'ex giacobino Carnot
all'Interno, Caulaincourt agli Esteri, Decrès alla Marina, Gaudin
alle Finanze, Davout alla Guerra e Mollien al Tesoro; capo della
polizia era l'esperto Fouché. Napoleone, per tagliare ogni rapporto
con il passato senza ripresentarsi nella vecchia veste di autocrate,
decise di presentare una nuova Costituzione e a tal scopo, mediante
Fouché e Carnot, ex membri della Convenzione e di idee di sinistra,
cercò di ingraziarsi gli intellettuali e nominò Benjamin Constant
consigliere di stato con l'incarico di redigere la nuova Carta
costituzionale.
La Commissione costituzionale elaborò
molte bozze, che si dividevano nella sostanza in due tipologie di
progetti: il primo, ispirato ai principi del 1791, per i quali alla
base dell'azione politica stavano le decisioni di un'Assemblea
legislativa eletta democraticamente, e il secondo che affermava il
principio autocratico della volontà dell'Imperatore. Fu quest'ultimo
a essere accettato da Napoleone. La costituzione approvata rimase
così sostanzialmente la stessa adottata l'anno precedente sotto
Luigi XVIII, sotto forma di "Atto addizionale alle Costituzioni
dell'Impero del 1815", che venne presentato, nella premessa,
come un ulteriore perfezionamento delle forme costituzionali già
adottate in Francia fin dal tempo della Rivoluzione.
Erano previste una Camera dei Pari, i
cui membri erano scelti da Napoleone, e una Camera dei
Rappresentanti, composta da 629 deputati, eletti dai sudditi francesi
maschi almeno venticinquenni con voto palese – si sarebbe dovuto
votare nelle prefetture – con l'aggiunta di rappresentanti degli
industriali. Nell'Atto fu scritto l'esplicito divieto della
possibilità di un ritorno dei Borboni in Francia. I collegi
elettorali che avrebbero dovuto eleggere i membri della Camera dei
Rappresentanti furono convocati per il 1º giugno al Campo di Marte,
per l'occasione ribattezzato da Napoleone "Campo di Maggio".
Lì, senza attendere i risultati del referendum cui l'Atto
addizionale era stato sottoposto, Napoleone giurò sulla nuova legge
costituzionale di fronte a centinaia di migliaia di francesi. I
risultati del referendum mostrarono l'ennesimo plebiscito, con
1.532.000 di sì contro appena 4.802 no; ma nell'occasione vennero
alla luce anche i limiti del consenso napoleonico: più di tre
milioni di aventi diritto non si presentarono infatti al voto.
La guerra della Settima coalizione
I preparativi del conflitto
Napoleone esitò a ordinare una
mobilitazione in massa per non scontentare il popolo, di cui
conosceva bene la contrarietà a una nuova guerra. Per guadagnare
tempo e per dimostrare di volere una pace, senza tuttavia sperarci
affatto, l'Imperatore francese prese contatti diplomatici con le
potenze del Congresso di Vienna, che però si rifiutarono
categoricamente di riconoscerlo imperatore. Il 25 marzo 1815 Regno
Unito, Impero austriaco, Regno di Prussia e Impero russo siglarono un
patto di alleanza dando vita alla settima coalizione, con l'obiettivo
di spodestare definitivamente Napoleone dal trono di Francia. La
coalizione era sostenuta dal denaro britannico, e fu presto
ingrossata dai soldati di altre nazioni europee.
Napoleone ordinò l'8 aprile una
mobilitazione generale, ma l'odiata coscrizione obbligatoria fu
ufficializzata solo tre settimane più tardi. L'esercito francese,
che i realisti avevano lasciato forte di 200 000 uomini, difettava di
ogni fornitura militare, ma le deficienze furono gradualmente colmate
dallo sforzo dell'industria e della manodopera; nei giorni seguenti
15 000 volontari e 75 000 veterani si unirono all'esercito ma le
necessità di guerra obbligarono a mobilitare la guardia nazionale, a
revocare tutti i congedi e a incorporare nei reggimenti di linea
poliziotti, marinai e doganieri. Così facendo la Francia disponeva
di un totale di 280 000 soldati a cui se ne potevano aggiungere 150
000 nei successivi sei mesi, comunque pochi rispetto agli 800 000-1
000 000 che col tempo gli alleati avrebbero mobilitato.
Essendo la frontiera francese lunga dal
Mare del Nord al Mediterraneo, gli alleati progettarono di sfondare i
confini francesi con cinque armate: il Duca di Wellington con i suoi
110 000 soldati avrebbe attaccato da Bruxelles coperto alla sinistra
dai 117 000 prussiani del feldmaresciallo Blücher, in marcia su
Namur dai dintorni di Liegi; dalla Foresta Nera sarebbero invece
partiti, verso l'Alto Reno, 210 000 austriaci comandati da
Schwarzenberg, mentre il generale Johann Frimont con i suoi 75 000
tra austriaci e italiani sarebbe avanzato dall'Italia fino a
minacciare Lione; per ultima, l'armata russa forte di 150 000 soldati
avrebbe ricoperto la funzione di riserva strategica stanziandosi
nell'area centrale del Reno. Queste forze, una volta riunite,
avrebbero marciato insieme su Parigi e Lione schiacciando, col peso
dei numeri, le esili forze francesi inviate a ostacolarle.
All'atto pratico, comunque, gli alleati
schieravano sul campo solo gli eserciti di Wellington e Blücher
perché gli austriaci sarebbero arrivati nelle loro posizioni solo a
luglio e i russi sarebbero stati ancora più in ritardo. A Napoleone
si prospettarono quindi due linee d'azione: o ammassare le truppe tra
i fiumi Senna e Marna preparandosi a difendersi da due fronti, o
attaccare il prima possibile le forze alleate dislocate in Belgio.
Benché fossero disponibili, per quest'ultima opzione, solo 125 000
uomini a fronte dei 209 000 degli avversari, una schiacciante
vittoria avrebbe potuto rafforzare l'opinione pubblica francese e
quasi sicuramente la sconfitta degli anglo-olandesi (che si sperava
fosse seguita dalle dimissioni del governo di Lord Liverpool) avrebbe
comportato una rivoluzione filo-francese in Belgio, che avrebbe così
fornito un nuovo bacino di truppe con cui fronteggiare austriaci e
russi.
Tenendo anche conto delle divergenze
politiche tra Prussia e Regno Unito, se l'esercito francese fosse
riuscito a incunearsi tra i due eserciti sconfiggendoli separatamente
con una superiorità numerica locale (strategia della "posizione
centrale") questi si sarebbero ritirati lungo le rispettive
linee di rifornimento favorendo la loro sconfitta. Napoleone e lo
stato maggiore francese optarono dunque per un repentino attacco
verso il Belgio. I generali Rapp, Lemarque, Lecourbe, Suchet, Brune,
Clausel e Decaen avrebbero avuto il compito di mantenere salde le
frontiere e di reprimere eventuali rivolte realiste (una era già in
corso in Vandea).
Nonostante la limitatezza delle forze
dell'Armata del Nord, agguerrita e costituita da truppe esperte ma
costituita da soli 126.000 soldati, Napoleone prese l'offensiva di
sorpresa il 15 giugno a Charleroi sfruttando la scarsa coesione e i
precari collegamenti tra i due eserciti alleati. Inizialmente i due
comandanti alleati furono sorpresi dall'improvvisa offensiva francese
e non riuscirono a concentrarsi; Napoleone, sfruttando la sua
posizione centrale, poté quindi il 16 giugno attaccare a Ligny i
prussiani, che subirono una dura sconfitta anche se riuscirono a
evitare la distruzione.
Contemporaneamente a Quatre Bras, in
un'azione separata svoltasi lo stesso giorno della battaglia di
Ligny, l'ala sinistra dell'esercito francese, sotto il comando del
maresciallo Michel Ney, intercettò le forze anglo-tedesche del Duca
di Wellington; dopo un'aspra battaglia il comandante britannico,
appresa la notizia della sconfitta del feldmaresciallo Blücher,
decise di ripiegare verso Bruxelles e riuscì, dopo una difficile
ritirata inseguito da Napoleone, a stabilirsi sulla posizione di Mont
St. Jean, davanti alla foresta di Soignes, dove intendeva combattere
una battaglia difensiva in attesa dell'arrivo in suo sostegno dei
prussiani.
Il 18 giugno si realizzò il confronto
decisivo della campagna, nei dintorni dei villaggio di Waterloo.
Napoleone, fiducioso della vittoria, riteneva la posizione britannica
particolarmente infelice e contava sulla capacità del maresciallo
Emmanuel de Grouchy di tenere sotto controllo i prussiani che
considerava in disgregazione dopo la sconfitta di Ligny. L'attacco
francese a Waterloo fu ritardato dal maltempo e, condotto
frontalmente, non tenne conto della capacità britannica di battersi
in difesa. Dopo una serie di attacchi respinti e qualche successo, i
francesi sembrarono in serata vicini alla vittoria, ma l'arrivo dei
prussiani fece cambiare le sorti della battaglia a favore dei
coalizzati, che ottennero così la vittoria decisiva della guerra.
L'esercito francese, stanco e sfiduciato, cedette sotto l'attacco dei
prussiani e ripiegò in rotta, mentre la battaglia simultanea di
Wavre era servita a trattenere il maresciallo Grouchy, che quindi non
poté intervenire in soccorso di Napoleone.
Rientrato all'Eliseo il 21 giugno,
Napoleone tentò di convincere le Camere della necessità di
fornirgli poteri dittatoriali, per intraprendere le azioni che, a suo
dire, avrebbero ancora potuto fermare l'avanzata degli eserciti della
coalizione. I deputati, tuttavia, si opposero, e gli chiesero un
passo indietro. Pur incitato da diversi esponenti, tra cui Carnot e
il fratello Luciano, a sciogliere le Camere, Napoleone esitò. Il 23
giugno i deputati votarono a favore della richiesta di abdicazione di
Napoleone, che l'imperatore decise di redigere e firmare poche ore
dopo:
| «Francesi, intraprendendo la guerra per sostenere
l’indipendenza nazionale, contavo sull’unione di tutti gli
sforzi, di tutte le volontà, e sull’appoggio di tutte le
autorità nazionali. Avevo dei motivi per sperare nel successo. Le
circostanze mi appaiono cambiate. Mi offro pertanto in sacrificio
all’odio dei nemici della Francia. Fossero davvero sinceri
quando affermano di essere stati effettivamente ostili soltanto
alla mia persona! Unitevi per la salvezza pubblica e per restare
una nazione indipendente» |
|
Il governo provvisorio fu affidato a
Fouché, mentre Napoleone si ritirava alla Malmaison in attesa di un
salvacondotto per riparare in America. La difesa, affidata al
ministro e maresciallo Davout, rallentò l'avanzata dell'esercito
prussiano. Ma, nella volontà di risparmiare Parigi da un assedio e
negoziare la pace da una posizione di maggiore disponibilità, il
governo decise la resa incondizionata della capitale il 3 luglio.
Dimessosi dal governo (venne sostituito al ministero della guerra dal
collega Gouvion Saint-Cyr), Davout completò il 14 luglio la ritirata
dell'esercito dietro la Loira, dove firmò la resa.
Il 12 luglio anche l'armata delle Alpi
di Suchet accettò i termini della resa negoziata con il comando
austriaco. Nonostante il tentativo di Fouché di perorare la reggenza
in nome di Napoleone II, gli Alleati decisero la restaurazione di
Luigi XVIII, giunto a Parigi l'8 luglio. Napoleone, raggiunta
Rochefort, si vide rifiutato il salvacondotto richiesto e decise, la
mattina del 15 luglio, di consegnarsi agli inglesi a bordo del
vascello Bellerophon, da dove sarà condotto a Portsmouth e da lì
imbarcato su un'altra nave per raggiungere la sede del suo esilio,
l'isola di Sant'Elena.