Mastro Titta, detto er boja de Roma, un
boia che durante la sua vita giustizio' impiccando, decapitando e
squartando centinaia di persone. All’attività di carnefice
affiancava quella di pittore e venditore di ombrelli (da qui il
titolo di “mastro” ovvero “maestro), ma in città ovviamente
non era ben visto: i romani non volevano vederlo sulla parte opposta
del Tevere, tanto da coniare il detto: “boja nun passa ponte”. Il
problema è che per raggiungere il patibolo a Campo de’ Fiori o
Piazza del Popolo, Titta doveva per forza recarsi sull’altra sponda
del fiume.
Da qui un secondo detto: “Mastro
Titta passa ponte”, locuzione ancora in uso per indicare che in
quel preciso giorno è previsto qualcosa di brutto. “
Il boia più famoso della storia,
Mastro Titta, esordì in Umbria a soli 17 anni
Di mestiere faceva il venditore e
riparatore di ombrelli, la fama e l’agiatezza l’ottenne, tuttavia
ed incredibilmente, per la sua lunga carriera di “boja”: 68
lunghi anni di lavoro tagliando teste con la scure o con la
ghigliottina, infilando colli di uomini e donne nel cappio della
forca, mazzolando (cioè colpendo alla testa il condannato col
mazzuolo) e squartando. Il tutto, sia chiaro, in forma ufficiale come
braccio secolare dello Stato Pontificio e, per un periodo, anche
dell’autorità francese.
Conosciuto col nomignolo di Mastro
Titta, si chiamava all’anagrafe Giovanni Battista Bugatti
(1779-1869) ed era nato a Senigallia. Si spense a Roma, dove
trascorse gran parte dell’esistenza, a novanta anni.
Bugatti eseguì, su mandato della
giustizia terrena, ben 514 sentenze capitali, di cui 55 per ordine
dei francesi, non solo nella Città Eterna, ma spostandosi anche
nelle regioni dello Stato Pontificio ed in un caso pure a Firenze.
L’ultimo impegno l’assolse – l’11 giugno 1864 – a Subiaco.
Per lui più che un lavoro, l’attività di boia – da sempre
ritenuta figura abietta – rappresentava una vocazione. Fu collocato
a riposo ad 85 anni – evidentemente il suo non era un lavoro
usurante avendolo portato avanti sino a questa veneranda età –
durante il pontificato di Pio IX (Giovanni Maria Mastai Ferretti,
pure lui di Senigallia) che gli riconobbe una pensione di 30 scudi.
Esattamente il doppio di quanto il carnefice riscuoteva all’inizio
della sua professione, a cui però venivano aggiunti l’alloggio (in
Vaticano), sussidi e riconoscimenti vari. La sua eredità di
carnefice l’assunse – senza tuttavia raggiungere la fama del
maestro – l’allievo Vincenzo Balducci, che lo aveva affiancato
fin dal 1850 e che resterà al suo posto fino alla breccia di Porta
Pia, il 20 settembre 1870.
Non tutti sanno che Mastro Titta –
sul patibolo saliva indossando un elegante mantello, color rosso
sangue, naturalmente – consumò la sua prima esecuzione, in maniera
inappuntabile sebbene nessun cittadino lo avesse voluto aiutare a
tirar su la forca, a Foligno. Correva l’anno 1796 e il carnefice
esordì giovanissimo: appena 17 anni. Il 22 settembre di quell’anno
gli venne affidato dalla giustizia il condannato Nicola Gentilucci.
Questo soggetto – di cui non si conoscono altro se non le
generalità ed i gravi reati commessi – aveva ammazzato un prete di
Cannaiola di Trevi ed il suo cocchiere – pare per gelosia di una
donna – e, successivamente, rapinato e ucciso due frati. Il reo
venne trascinato sulla piazza di Foligno e qui impiccato e,
immediatamente dopo, squartato. Già perché alla condanna capitale
quasi sempre seguiva lo squartamento che consisteva – orribile a
dirsi – in un taglio da vero e proprio macellaio del cadavere
appena morto, in più pezzi, davanti al pubblico in genere molto
numeroso. In caso di decollazione il boia, come da tradizione,
mostrava agli astanti la testa del reo, tenuta per i capelli o
infilzata su una picca, spostandosi sui quattro lati del patibolo
affinché tutti potessero godersi (sic) lo spettacolo.
Mastro Titta, davvero preciso e
puntiglioso, annotava su una sorta di block notes le date, i luoghi
dell’esecuzione, i nomi e i reati contestati ai condannati passati
per le sue mani. Sulla base di questa scarna ma importante
documentazione, alcuni lustri dopo la sua morte, venne redatto da uno
scrittore restato anonimo (secondo alcune fonti si tratterebbe di
Ernesto Mezzabotta, giornalista, nato a Foligno nel 1852 e morto a
Roma nel 1901) un romanzo dal titolo “Mastro Titta, il boia di
Roma: memorie di un carnefice scritte da lui stesso”. Il testo
venne pubblicato a dispense dall’editore torinese Edoardo Perino. E
anche qui l’Umbria ebbe a ritagliarsi un suo ruolo, in quanto i
fascicoli vennero stampati dalla tipografia Lapi di Città di
Castello nel 1886 e venduti in tutta la penisola, divenuta nel
frattempo Regno d’Italia, a 5 centesimi ciascuno, ottenendo un
rilevante successo editoriale.
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