La
Rivoluzione francese
(nota anche come
Prima rivoluzione francese
per distinguerla dalla Rivoluzione
di luglio e dalla Rivoluzione francese del 1848), fu un periodo di
radicale e a tratti violento sconvolgimento sociale, politico e
culturale occorso in Francia tra il 1789 e il 1799, assunto dalla
storiografia come lo spartiacque temporale tra l'età moderna e l'età
contemporanea.
Evento estremamente complesso e
articolato nelle sue varie fasi, le principali e più immediate
conseguenze furono l'abolizione della monarchia assoluta, la
proclamazione della repubblica con l'eliminazione delle basi
economiche e sociali dell'Ancien Régime, ovvero del sistema politico
e sociale precedente, ritenuto responsabile dello stato di
disuguaglianza e povertà della popolazione subalterna, e
l'emanazione della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del
cittadino, futuro fondamento delle costituzioni moderne.
Sebbene terminata con il periodo
imperiale-napoleonico e la successiva Restaurazione da parte
dell'aristocrazia europea, la Rivoluzione francese, insieme a quella
americana, segnando il declino dell'assolutismo, ispirò le
successive rivoluzioni borghesi liberali e democratiche del XIX
secolo (i cosiddetti moti rivoluzionari), dando definitivamente
impulso alla nascita di un nuovo sistema politico basato sul concetto
di Stato di diritto o Stato liberale, in cui la borghesia divenne la
classe dominante, prodromi a loro volta della nascita dei moderni
stati democratici del XX secolo.
Nella Francia del XVIII secolo il
potere era riposto nella monarchia assoluta di diritto divino
rappresentata da Luigi XVI. La società era suddivisa in tre classi:
la nobiltà, il clero e il terzo stato; quest'ultima rappresentava il
98% della popolazione ed era sottoposta a una maggiore tassazione in
quanto la tradizione monarchica francese prevedeva consistenti
privilegi per nobiltà e clero.
Una serie di problemi economici
provocarono malcontento e disordini nella popolazione: ci fu dapprima
il crollo dei prezzi agricoli della viticoltura dal 1778, nel 1785 la
siccità provocò una moria del bestiame e dal 1786 la produzione
industriale entrò in crisi; nel 1788, infine, un pessimo raccolto
causò una grande crisi che fece aumentare il prezzo del pane fino a
quattro soldi per libbra a Parigi e otto soldi in alcune province; i
lavoratori salariati vennero quindi ridotti alla miseria. Ma fu
soprattutto la gravissima crisi finanziaria che, iniziata sotto il
regno di Luigi XV, si era andata ad aggravare anche a seguito delle
enormi spese sostenute per la guerra d'America e che non avevano reso
alcun vantaggio al paese, tranne la restituzione delle colonie del
Senegal e di Tobago.
La necessità di risolvere la
gravissima crisi in cui la Francia era precipitata non trovò
soluzione nell'operato dei successori di Luigi XIV. Egual fallimento
ebbero i tentativi di riforma al sistema giudiziario e fiscale.
All'inizio del secolo la principale imposta diretta, la taglia,
pesava soltanto sui non privilegiati. Per aumentare le entrate
fiscali Luigi XV impose tasse a ogni ceto sociale, ma nobiltà e
clero ne risentirono solo in minima parte: infatti, le nuove imposte,
la capitazione e il ventesimo, sebbene colpissero ogni suddito,
continuarono a gravare particolarmente sul terzo Stato e dunque non
furono in grado di contrastare il deficit del Paese e la continua
crescita del debito pubblico per tutto il XVIII secolo.
L'avversione dei sudditi francesi nei
confronti della monarchia aumentò grazie anche alla presenza
impopolare di Maria Antonietta - moglie di Luigi XVI - che, troppo
legata alla sua patria austriaca, veniva chiamata con disprezzo dal
popolo francese l'Autrichienne (letteralmente "l'Austriaca",
che veniva però pronunciato marcando di proposito la seconda parte
della parola in segno di spregio, in quanto chienne, in francese,
significa "cagna").
In quel periodo, soprattutto in
Francia, si stava sviluppando una nuova cultura, l'Illuminismo,
basata su tre principi fondamentali: razionalismo, egualitarismo e
contrattualismo (quest'ultimo era una corrente di pensiero nata dal
rifiuto per l'assolutismo, basata su un contratto stipulato tra
popolo e governo). La filosofia degli illuministi si diffuse fino ai
ceti più alti della società (borghesia e nobiltà liberale); al
modello francese della monarchia assoluta fu contrapposto quello
britannico di una monarchia limitata da un parlamento e
all'obbedienza del soggetto furono contrapposti i diritti del
cittadino. I filosofi illuministi difesero l'idea che il potere
sovrano supremo risiede nella nazione. Oltre a questo nuovo modo di
pensare, la Rivoluzione americana, avvenuta poco prima di quella
francese, rappresentò un ulteriore modello di ribellione per i
sudditi francesi.
Convocazione degli Stati generali
Durante i regni di Luigi XV e di Luigi
XVI diversi ministri, tra i quali soprattutto Anne Robert Jacques
Turgot e Jacques Necker, cercarono di risanare la situazione
economica attraverso una capillare riforma del sistema fiscale e una
riduzione delle spese improduttive; tale politica, tuttavia,
nonostante alcuni successi iniziali, incontrò la resistenza della
nobiltà e del clero che provocarono le dimissioni di Turgot. Al suo
posto il parlamento scelse il banchiere ginevrino Jacques Necker, il
quale cercò di coprire le spese chiedendo prestiti a banchieri
olandesi e inglesi comunicando al sovrano la necessità di ridurre i
poteri dei parlamenti e di abolire le esenzioni fiscali; a sostegno
delle proprie idee, Necker pubblicò, il 19 febbraio 1781, il
bilancio statale, il quale, a fronte di 503 milioni di livre di
entrate, aveva 629 milioni di uscite con la sola spesa per interessi
sul debito pubblico, seppur fortemente sottostimata dal ministro,
ammontava a 318 milioni. In ogni caso, il dato che scandalizzò
fortemente l'opinione pubblica fu la spesa personale sostenuta dalla
corte in un periodo, per la quasi totalità della popolazione
francese, di fame e miseria: 38 milioni tra feste e pensioni per i
cortigiani.
Luigi XVI, contrariato per la
pubblicazione del bilancio e per la proposta di riduzione del potere
dei parlamenti locali, rifiutò di attuare le riforme proposte e, il
3 novembre 1783, sostituì Necker con Charles Alexandre de Calonne il
quale intraprese una politica di spese consistenti volta a convincere
i potenziali creditori che la Francia godeva di un'ottima solidità
finanziaria sperando, nel breve periodo, in una dimostrazione di
supporto da parte dell'Assemblea dei Notabili che avrebbe permesso di
ottenere dei prestiti con cui far fronte alle spese allo scopo di
rilanciare, nel lungo periodo, la crescita economica.
In seguito, con uno studio dettagliato
della situazione finanziaria, si rese conto che la sua politica
economica non era sostenibile e indicò il bisogno di varare delle
importanti riforme, in particolare propose un codice tributario
uniforme per le proprietà terriere, con il quale tutti sarebbero
stati tassati senza eccezioni anche nobiltà e clero. Quando Calonne,
il 22 febbraio 1787, espose la necessità di attuare la riforma
proposta, l'Assemblea dei Notabili, formata principalmente da
benestanti non intenzionati a pagare nuove imposte, rifiutò di
accettare le sue soluzioni.
Le finanze francesi erano alla
bancarotta; secondo François-Auguste Mignet, i prestiti ammontavano
a 1.646 milioni di livre e c'era un deficit annuale di 46 milioni.
Luigi XVI, capendo che Calonne non era
in grado di gestire la situazione, il 1º maggio 1787 lo sostituì
con il suo principale oppositore, il presidente dell'Assemblea dei
Notabili e capo dell'opposizione, Étienne-Charles de Loménie de
Brienne, arcivescovo di Tolosa. Brienne propose al parlamento di
garantire il libero commercio interno, oltre a prevedere delle
assemblee provinciali e la redenzione delle corvée, ma queste
riforme incontrarono nuovamente una forte opposizione soprattutto dal
Parlamento di Parigi (organo giudiziario con funzioni di controllo
sulla legittimità degli atti ma privo di funzioni politiche).
Successivi tentativi di modifica al sistema tributario provocarono
un'ulteriore massiccia resistenza dei gruppi benestanti, che portò
al ritiro dei prestiti di breve durata. In quel momento questi
prestiti davano ossigeno e vita all'economia dello Stato e il loro
venir meno provocò una situazione di bancarotta nazionale.
Si cominciava
a diffondere l'idea che solo un organo rappresentativo di tutta la
Nazione, come gli Stati Generali, avrebbe potuto votare
l'applicazione di nuove riforme; il 18 dicembre 1787 Luigi XVI
promise di convocarli entro cinque anni, segnando, de facto, lo stato
di profonda crisi in cui si trovava la monarchia[16]. Nel maggio del
1788 a Grenoble le proteste a seguito della crisi economica
aumentarono notevolmente. L'esercito fu obbligato a intervenire il 7
giugno, venendo accolto da tegole lanciate dai cittadini saliti sui
tetti. A seguito di ciò, ricordato come Giornata delle Tegole, il 21
luglio un'assemblea formata da nobiltà, clero e terzo Stato, si
riunì al Castello di Vizille vicino a Grenoble, dove decise di
mettere in atto lo sciopero delle imposte. Incapace di ristabilire
l'ordine, Luigi XVI l'8 agosto annunciò la convocazione degli Stati
Generali per il 5 maggio 1789 (prima volta dal 1614). Il 25 agosto
Brienne rinunciò all'incarico di ministro delle Finanze e al suo
posto venne richiamato Necker.
Elezione degli Stati generali
La società francese era molto cambiata
dall'ultima convocazione degli Stati generali nel 1614: all'epoca
infatti ognuno dei tre ordini aveva circa lo stesso numero di
rappresentanti ed era previsto che si riunissero in camere separate
per discutere ed emettere un voto per camera. Dato che il voto della
nobiltà e del clero veniva spesso a coincidere, il terzo Stato
veniva messo facilmente in minoranza, ma in ogni caso quest'ultimo
vide comunque la convocazione degli Stati Generali come una
possibilità per migliorare la propria posizione sociale: i
contadini, sostenuti dal basso clero sensibile alle loro difficoltà,
speravano nell'abbandono dei diritti feudali mentre la borghesia,
ispirata dalle idee illuministe condivise con alcuni membri della
nobiltà, credeva nell'instaurazione dell'uguaglianza dei diritti e
di una monarchia parlamentare ispirata al modello inglese.
Tutto ciò animò il dibattito politico
durante l'elezione dei deputati. Nel corso della campagna elettorale,
nei cahiers de doléances (registri nei quali le assemblee incaricate
di eleggere i deputati annotavano critiche e lamentele della
popolazione) venne stilato un elenco dei soprusi a cui era sottoposto
il terzo Stato. Il dibattito riguardò anche l'organizzazione interna
degli Stati Generali, infatti il terzo Stato chiese il raddoppio del
numero dei loro deputati (richiesta già esaudita nelle assemblee
provinciali) affinché la loro rappresentanza politica corrispondesse
maggiormente alla situazione reale della società francese.
Questo divenne uno degli argomenti
principali trattati dagli opuscolisti, fra i quali l'abate Emmanuel
Joseph Sieyès che pubblicò l'opuscolo Qu'est-ce que le tiers état?
(Cos'è il terzo stato?); va ricordato, tuttavia, che l'animo dei
membri del terzo stato non era affatto fautore di un cambiamento
radicale in quanto la maggioranza dei membri restava fautrice della
monarchia e molti erano convinti che occorresse, semplicemente,
riformare il sistema fiscale.
Necker, sperando di evitare ulteriori
contrasti all'interno della società, riunì l'Assemblea dei Notabili
il 6 novembre 1788 per discutere le richieste del terzo Stato, ma
questi rifiutarono ogni istanza; Luigi XVI, tuttavia, con un decreto
reale del 27 novembre 1788, annunciò che agli imminenti Stati
Generali avrebbero partecipato almeno un migliaio di deputati,
garantendo la rappresentanza doppia per il terzo Stato.
Le elezioni vi furono nella primavera
del 1789 e vi poterono votare tutti i cittadini maggiori di 25 anni
che pagassero una quota prefissata di imposte, e portarono alla
selezione di 1201 delegati: 303 per il clero, 291 nobili e 610 per il
terzo stato. I 303 delegati del clero, tra i quali si contavano 51
vescovi, rappresentavano appena 100.000 chierici i quali, tuttavia,
detenevano il controllo del 10% delle terre e in più avevano il
diritto di imporre contributi alla popolazione; i 291 nobili, tra i
quali almeno un terzo detenevano titoli minori, rappresentavano circa
400 mila persone titolari di circa il 25 % dei possedimenti terrieri
dai quali potevano trarre rendite e su cui potevano imporre diritti
feudali; i 610 membri del terzo stato rappresentavano il restante
95-98 % della popolazione ed erano tutti avvocati o pubblici
ufficiali e almeno un terzo di loro erano impegnati nel commercio o
in attività industriali e, infine, 51 di loro possedevano vaste
tenute agricole.
Un'ulteriore richiesta del terzo Stato
fu l'applicazione del voto per testa, con il quale l'assemblea
sarebbe stata convocata in un'unica camera e ogni deputato avrebbe
disposto di un voto. Luigi XVI, che aveva acconsentito al raddoppio
dei deputati del terzo Stato, non si pronunciò sulla questione e
diede la responsabilità di decidere agli Stati Generali stessi. Se
si fosse continuato a votare per ordine, come in passato, il fatto
che il numero dei rappresentanti del terzo Stato fosse stato
raddoppiato non avrebbe cambiato le cose.
Dagli Stati generali all'Assemblea nazionale
La seduta inaugurale degli Stati
Generali ebbe luogo il 5 maggio 1789 a Versailles. Molti esponenti
del terzo Stato videro l'ottenimento della rappresentanza doppia come
una rivoluzione già pacificamente conseguita ma, con l'utilizzo di
un protocollo procedurale sostanzialmente stilato in un'era
precedente, fu immediatamente evidente che in realtà era stato
ottenuto molto meno.
Con i discorsi iniziali di Luigi XVI,
del guardasigilli Charles Louis François Paul de Barentin e di
Necker, i deputati del terzo Stato non sentirono affatto parlare
delle riforme politiche tanto attese, in quanto vennero affrontati
unicamente problemi prettamente finanziari. La questione del
passaggio dal voto per ordine al voto per testa non venne menzionata
e il terzo Stato capì che la rappresentanza doppia sarebbe servita a
ben poco, avendo unicamente un significato simbolico: la votazione si
sarebbe svolta per ordine come in passato e quindi, dopo aver
deliberato, il loro voto collettivo avrebbe pesato esattamente come
quello di uno degli altri due stati; infatti, nobiltà e clero, pur
non essendo totalmente favorevoli alla presenza dell'assolutismo
reale, erano consapevoli che con l'utilizzo del voto per testa
avrebbero perso più potere nei confronti del terzo Stato rispetto a
quello che avrebbero guadagnato dalla corte. Cercando di evitare la
questione della rappresentanza politica e focalizzandosi unicamente
sui problemi finanziari, il re e i suoi ministri sottovalutarono la
situazione; quando Luigi XVI cedette finalmente alle insistenti
richieste del terzo Stato di discutere sul sistema di votazione,
parve a tutti una concessione estorta alla monarchia piuttosto che un
dono magnanimo che avrebbe convinto la popolazione della buona
volontà del sovrano. Il 9 maggio, invece di affrontare la questione
finanziaria come richiesto da Luigi XVI, i tre stati cominciarono a
discutere sull'organizzazione della legislatura. I deputati del terzo
Stato furono unanimi nella scelta del voto per testa e si
autoproclamarono deputati dei Comuni, intendendo con ciò rifiutare
il titolo di rappresentanti di un ordine per assumere quello di
rappresentanti della Nazione. Si trattava già di un atto
rivoluzionario al quale la nobiltà rispose dichiarandosi favorevole
al voto per ordine, imitata dal clero. Dopo uno stallo di un mese, il
10 giugno i deputati dei Comuni invitarono i delegati degli altri due
ordini a procedere a una verifica dei poteri in un'assemblea comune.
L'invito, respinto dalla nobiltà, fu
raccolto nei giorni successivi da un numero crescente di deputati del
basso clero, finché il 15 giugno, su iniziativa dell'abate Sieyès
(membro del clero, eletto per rappresentare il terzo Stato), i
deputati dei Comuni decisero di dare inizio ai lavori. Il 17 giugno
1789 l'ex terzo Stato completò il processo di verifica, diventando
l'unico ordine i cui poteri fossero stati legalizzati,
autodefinendosi Assemblea nazionale con l'intento di identificare
un'assemblea non più degli stati ma del popolo. L'astronomo Jean
Sylvain Bailly, primo deputato di Parigi e già decano del Terzo
Stato, fu proclamato presidente dell'Assemblea. Il 19 giugno il
clero, che aveva tra le sue fila dei parroci sensibili ai problemi
dei contadini, votò a favore dell'unione all'Assemblea nazionale.
Assemblea nazionale costituente
L'Assemblea cercò immediatamente di
guadagnare i favori degli uomini che possedevano capitale, necessari
come fonte di credito per finanziare e consolidare il debito
pubblico. Dichiarò illegali tutte le tasse esistenti, sebbene
vennero votate e riutilizzate per il periodo di riunione dell'attuale
Assemblea; venne inoltre istituito un comitato di sussistenza per
affrontare la carenza di cibo, dare così aiuto alla gente bisognosa
e al contempo iniettare fiducia al sistema finanziario francese.
La nobiltà, notando l'avvicinamento
del clero ai Comuni, indirizzò al re una protesta con la quale
ricordava che la soppressione degli ordini avrebbe non soltanto messo
in discussione i diritti e il destino della nobiltà ma anche quelli
della stessa monarchia. I nobili, che furono i primi a volere la
convocazione degli Stati Generali sperando con essi di eliminare
l'assolutismo monarchico, ritornavano così a sottomettersi
all'iniziativa reale, quale garante della loro stessa sopravvivenza.
Luigi XVI, influenzato dai suoi consiglieri, accolse l'invito della
nobiltà e decise di annullare i decreti fin qui attuati
dall'Assemblea, cercando di reintrodurre la separazione degli ordini
e imporre che le riforme fossero emanate solamente dagli Stati
Generali restaurati.
Il 20 giugno 1789 il re ordinò la
chiusura della sala dove si riuniva l'Assemblea con il pretesto di
eseguirvi dei lavori di manutenzione, cercando in questo modo di
impedire qualsiasi riunione. L'Assemblea nazionale, su proposta del
deputato Joseph-Ignace Guillotin e del presidente Bailly, spostò le
proprie deliberazioni in una sala vicina adibita al gioco della
pallacorda, dove i deputati giurarono di non separarsi in nessun caso
e di riunirsi ovunque le circostanze lo avrebbero richiesto, fino a
che la Costituzione francese non fosse stata stabilita e affermata su
solide fondamenta (Giuramento della Pallacorda); il 22 giugno,
privata anche dell'uso della Sala della Pallacorda, l'Assemblea si
riunì nella chiesa di Saint-Paul-Saint-Louis, dove venne raggiunta
dalla maggioranza dei rappresentanti del clero; in pratica, gli
sforzi della monarchia per ripristinare il vecchio ordine erano
serviti solo ad accelerare gli eventi.
Il 23 giugno il re, rivolgendosi ai
rappresentanti dei tre stati (nuovamente nella sala dell'Hôtel des
Menus-Plaisirs), espresse la volontà di conservare la distinzione
degli ordini, annullando la costituzione dei Comuni in Assemblea
nazionale. Dichiarò che se l'Assemblea l'avesse abbandonato, egli
avrebbe comunque fatto il bene del popolo senza di essa. Concluse
ordinando a tutti di disperdersi, venendo obbedito solo dai nobili e
dal clero; quando il Gran Cerimoniere del re, Henri-Évrard de
Dreux-Brézé, ribadì l'ordine, il presidente Bailly, in aperto
dissenso, si alzò dal suo seggio e gli rispose: «Non posso
sciogliere l'Assemblea finché essa non ha deliberato». Nella stessa
occasione Mirabeau disse: «Una forza militare circonda l'Assemblea!
Dove sono i nemici della nazione? C'è Catilina alle nostre porte? Io
richiedo, investite voi stessi con la vostra dignità, con il vostro
potere legislativo, accludete a voi la religione del vostro
giuramento. Questo non vi permette di sciogliervi finché non avrete
formato una costituzione». Nei tre giorni successivi l'Assemblea
vide aumentare i propri ranghi in quanto il 25 giugno si unirono
anche 47 nobili, tra i quali il Duca d'Orléans.
Luigi XVI ammise implicitamente il
fallimento della sua iniziativa e il 27 giugno invitò ufficialmente
nobiltà e clero a unirsi all'Assemblea nazionale; il clero accettò
immediatamente la proposta mentre i nobili rifiutarono con
indignazione. Il 7 luglio fu eletto un comitato per l'elaborazione
della Costituzione. Due giorni dopo l'Assemblea si proclamò
Assemblea nazionale costituente. Rimaneva però sempre presente la
possibilità di un contraccolpo militare e a testimoniarlo fu
l'arrivo di un grande numero di soldati attorno a Versailles, a
Parigi, a Sèvres e a Saint-Denis.
Rivolgendosi al re in termini educati
ma fermi e supportata da Parigi e da molte altre città della
Francia, l'Assemblea richiese la rimozione delle truppe (che
includevano reggimenti stranieri, più obbedienti al re rispetto alle
truppe francesi), ma Luigi XVI rispose che lui solo poteva prendere
decisioni sui soldati e rassicurò che la loro presenza era una
misura strettamente precauzionale. Il re propose inoltre di spostare
l'Assemblea a Noyon o a Soissons, con l'intento di porla in mezzo a
due eserciti e privarla del supporto dei cittadini parigini.
L'Assemblea, rifiutando la proposta del re, dichiarò che essa aveva
ricevuto il suo mandato non dai singoli elettori ma dall'intera
nazione, mettendo così in pratica il principio della sovranità
nazionale difeso da Diderot.
La stampa pubblicò i dibattiti
dell'Assemblea, estendendo così la discussione politica alle piazze
e ai salotti della capitale. Palais Royal e l'area circostante
divennero il luogo di continui incontri tra la gente comune; la
questione politica divenne talmente importante da indurre i cittadini
a liberare alcuni granatieri della Guardia francese che erano stati
imprigionati per essersi rifiutati di aprire il fuoco sulla folla.
Successivamente l'Assemblea raccomandò i soldati liberati alla
clemenza del re, il quale li perdonò. Gran parte dell'esercito era
ora favorevole alla causa popolare.
Necker nel frattempo si era guadagnato
l'inimicizia di parte della corte, avendo manifestato in parecchie
occasioni delle idee filo-popolari; l'11 luglio venne destituito dal
re, il quale gli ordinò di lasciare la Francia entro due giorni. Il
12 luglio la popolazione di Parigi, venuta a conoscenza
dell'accaduto, organizzò una grande manifestazione di protesta,
durante la quale vennero portate delle statue raffiguranti i busti di
Necker e del duca d'Orleans. Alcuni soldati tedeschi ricevettero
l'ordine di caricare la folla, provocando diversi feriti e
distruggendo le statue. Il dissenso dei cittadini aumentò a
dismisura e l'Assemblea avvertì il re del pericolo che avrebbe corso
la Francia se le truppe non fossero state allontanate, ma Luigi XVI
rispose che non avrebbe cambiato le sue disposizioni.
La mattina del 13 luglio quaranta dei
cinquanta ingressi che permettevano di entrare a Parigi vennero dati
alle fiamme dalla popolazione in rivolta. I reggimenti della Guardia
francese formarono un presidio permanente attorno alla capitale,
sebbene molti di questi soldati fossero vicini alla causa popolare. I
cittadini cominciarono a protestare violentemente contro il governo
affinché riducesse il prezzo del pane e dei cereali e saccheggiarono
molti luoghi sospettati di essere magazzini per provviste di cibo;
uno di questi fu il convento di Saint-Lazare (che fungeva da
ospedale, scuola, magazzino e prigione), dal quale vennero prelevati
52 carri di grano. In seguito a questi disordini e saccheggi, che
continuavano ad aumentare, gli elettori della capitale (gli stessi
che votarono durante le elezioni degli Stati Generali) si riunirono
al Municipio di Parigi e decisero di organizzare una milizia
cittadina composta da borghesi, che garantisse il mantenimento
dell'ordine e la difesa dei diritti costituzionali (due giorni dopo,
con Gilbert du Motier de La Fayette, venne denominata Guardia
nazionale). Ogni uomo inquadrato in questo gruppo avrebbe portato,
come segno distintivo, una coccarda con i colori della città di
Parigi (blu e rosso). Per armare la milizia si cominciò a
saccheggiare i luoghi dove si riteneva fossero custodite le armi.
La mattina del 14 luglio gli insorti attaccarono l'hôtel des
Invalides con l'obiettivo di procurarsi delle armi; si impossessarono
così di circa ventottomila fucili[ e qualche cannone ma non
trovarono la polvere da sparo. Per impadronirsi della polvere
decisero di assalire la prigione-fortezza della Bastiglia (vista dal
popolo come un simbolo del potere monarchico), nella quale erano
tenuti in custodia anche sette detenuti. Gli elevati costi di
mantenimento di una fortezza medievale così imponente, adibita
all'epoca a una funzione limitata come quella di carcere, portò alla
decisione di chiuderne i battenti e probabilmente fu per questo
motivo che il 14 luglio gli alloggi della prigione erano praticamente
vuoti. La guarnigione della fortezza era composta da 82 invalidi
(soldati veterani non più idonei a servire in combattimento), ai
quali il 7 luglio si aggiunsero 32 Guardie svizzere; il governatore
della prigione era Bernard-René Jourdan de Launay.
Pierre-Augustin Hulin prese la guida
degli insorti e una folla sempre più numerosa raggiunse la fortezza
chiedendo la consegna della prigione. Launay trovandosi circondato,
pur avendo la forza per respingere l'attacco, cercò di trovare una
soluzione pacifica ricevendo alcuni rappresentanti degli insorti, con
i quali cercò di negoziare. La trattativa si protrasse per lungo
tempo mentre all'esterno la folla continuava ad aumentare fino a
quando, verso le 13:30, le catene del ponte levatoio vennero spezzate
e gli insorti riuscirono a penetrare nel cortile interno,
scontrandosi con la Guardia svizzera: ci fu un violento combattimento
che causò diversi morti (gli uomini del regio esercito, accampati
nel vicino Campo di Marte, non intervennero).
Cercando di evitare un massacro
reciproco, Launay ordinò ai suoi uomini di cessare il fuoco e inviò
una lettera agli assedianti dove riportava le condizioni di resa, ma
queste vennero rifiutate. Il governatore, capendo che i propri uomini
non avrebbero potuto resistere ancora a lungo, decise di capitolare,
permettendo agli insorti di penetrare nella Bastiglia.
Gli assalitori riuscirono così a
occupare la prigione-fortezza; le guardie trovate morte vennero
decapitate e le loro teste furono infilzate su pali appuntiti e
portate attraverso tutta la città. Il resto della guarnigione fu
fatta prigioniera e condotta al Municipio ma lungo la strada, in
piazza de Grève, Launay fu preso dalla folla e linciato. Uno degli
insorti lo decapitò e infilzò la testa su una picca. Ritornando al
Municipio la folla accusò di tradimento il prévôt des marchands
(carica simile a quella di sindaco) Jacques de Flesselles; durante il
viaggio, che lo avrebbe portato a Palais-Royal per essere processato,
fu assassinato.
Inizialmente Luigi XVI diede poca
importanza all'accaduto, ma successivamente riconobbe la gravità
della situazione; il 15 luglio 1789 si recò all'Assemblea nazionale
dove dichiarò che da quel momento avrebbe lavorato con la Nazione e
ordinato alle truppe di allontanarsi da Versailles e da Parigi.
Questi annunci furono accolti con entusiasmo generale ma ben presto
il re si dovette rendere conto che era troppo tardi per fermare il
movimento rivoluzionario.
Su richiesta dell'Assemblea il sovrano
richiamò Necker al governo. Venne creata la Guardia nazionale,
affidata al comando di La Fayette, con il compito di reprimere ogni
eventuale tentativo rivoluzionario. Tutti i membri della precedente
amministrazione erano fuggiti e l'ex-presidente dell'Assemblea, Jean
Sylvain Bailly, fu eletto per acclamazione sindaco di Parigi, il
primo nella storia della città. Parecchie città crearono nuove
municipalità borghesi, rimuovendo i rappresentanti del vecchio
regime con l'intento di eliminare il centralismo monarchico. Luigi
XVI riconobbe questo sistema quando il 17 luglio si recò a Parigi;
in quell'occasione ricevette dal nuovo sindaco Bailly e da La Fayette
una coccarda blu e rossa (colori della città di Parigi) che fissò
sul suo cappello, associando anche il colore bianco della monarchia
(questo gesto voleva simboleggiare una riconciliazione). Nacque così
la coccarda francese tricolore.
La notizia della Presa della Bastiglia
si diffuse in tutta la Francia, aumentando la consapevolezza che la
forza della popolazione era in grado di supportare le idee dei
riformatori. Per sfruttare questo momento a discapito della
monarchia, alla Bastiglia venne dato un significato simbolico:
rappresentò il potere arbitrario ma vulnerabile del re.
Abolizione del feudalesimo
Dal 20 luglio al 6 agosto 1789, nelle
campagne francesi, si manifestò una situazione di panico
generalizzato (periodo della Grande paura) suscitato dalla falsa
notizia dell'invasione di briganti venuti a distruggere i raccolti e
a trucidare i contadini, per vendicare la nobiltà colpita dalle
rivolte agrarie scaturite dai recenti sviluppi politico-sociali.
Questa ondata di panico spinse i contadini ad armarsi di forche,
falci e altri utensili; in cerca di maggiore protezione, si recarono
in massa al castello del signore locale per ottenere fucili e polvere
da sparo, ma qui finirono per sfogare la propria rabbia verso i
poteri dominanti, esigendo i titoli signorili (documenti che
stabilivano la dominazione economica e sociale dei loro proprietari)
per poterli bruciare; in alcuni casi il signore o i suoi uomini si
difesero con la forza, in altri vennero assassinati e alcuni castelli
furono saccheggiati o bruciati. A testimonianza del difficile momento
che il feudalesimo stava attraversando, Jules Michelet scrisse che
tutti i castelli di campagna diventarono delle bastiglie da
conquistare.
Di fronte a queste violenze, nella
notte del 4 agosto, l'Assemblea decise di abolire i diritti feudali,
la venalità delle cariche, le disuguaglianze fiscali e tutti i
privilegi in generale; fu la fine dell'Ancien Régime. Durante la
redazione dei decreti dal 5 all'11 agosto, i deputati, quasi tutti
proprietari fondiari nobili e borghesi, cambiarono in parte idea in
merito alle proposte originarie: i servigi o prestazioni d'opera
gratuita che il titolare di un feudo imponeva ai suoi soggetti
vennero aboliti, mentre i diritti basati sulla rendita della terra
continuavano a essere riscattati (agevolando in questo modo solamente
i contadini più ricchi), permettendo così ai proprietari terrieri
di ricevere un'indennità che in parte avrebbe salvaguardato i loro
interessi economici e in parte sarebbe stata investita nell'acquisto
di beni nazionali con l'intento di mettere fine alle rivolte; in ogni
caso, la maggior parte dei contadini comunque, ritenendosi
completamente svincolata dal vecchio regime feudale, non pagò nessun
indennizzo ai proprietari terrieri (che, peraltro, furono condonati
nel 1793). In sintesi, i decreti dell'agosto del 1789 divennero uno
dei fondamenti della Francia moderna: distrussero integralmente la
società feudale basata su "stati" e privilegi e a essa
sostituirono una società moderna, autonoma, individuale, libera di
compiere tutto ciò che non fosse proibito dalla legge. Infine, a
novembre del medesimo anno, furono sospesi i tredici parlamenti
regionali in attesa della loro definitiva abolizione (sarebbe
avvenuta a settembre 1790); fatto che portò alla distruzione del
sistema giuridico e istituzionale dell''Ancien Régime.
Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino
Dal 20 al 26 agosto l'Assemblea
nazionale costituente discusse il progetto della Dichiarazione dei
diritti dell'uomo e del cittadino, un documento giuridico contenente
i diritti fondamentali dell'individuo e del cittadino, ispirato ai
principi illuministi e basato su un testo proposto da La Fayette.
Approvata il 26 agosto, rappresentava una condanna senza appello
della monarchia assoluta e della società degli ordini, che
rispecchiava le aspirazioni della borghesia dell'epoca (ovvero
garanzia delle libertà individuali, sacralità della proprietà,
spartizione del potere con il re, creazione di impieghi pubblici).
Le difficoltà di approvvigionamento
del pane e il rifiuto di Luigi XVI di promulgare la Dichiarazione e i
decreti del 4 e del 26 agosto, causarono il malcontento del popolo di
Parigi durante i giorni del 5 e del 6 ottobre e ben presto il tumulto
degenerò e una marcia di donne si diresse a Versailles, entrò nella
reggia e invase gli appartamenti della regina, che fu insultata; la
famiglia reale fu dunque costretta a tornare a Parigi e a lasciare
Versailles, simbolo dell'assolutismo; Luigi XVI fu costretto a
firmare i decreti di agosto riguardo l'abolizione dei diritti feudali
e la Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo e del Cittadino: da quel
momento il re e la sua famiglia risiedettero nel vecchio Palazzo
delle Tuileries, sorvegliati dalla popolazione e minacciati dalla
sommossa.
Il potere reale ne uscì estremamente
indebolito: la Francia restò una monarchia ma il potere legislativo
passò nelle mani dell'Assemblea nazionale costituente, anch'essa
trasferita a Parigi, la quale incaricò delle speciali commissioni di
provvedere a una nuova organizzazione amministrativa del Paese (i
ministri divennero degli esecutori tecnici sorvegliati
dall'Assemblea). Tuttavia il re conservò il potere esecutivo (i
decreti promulgati dall'Assemblea non avrebbero avuto validità senza
l'approvazione del re) e i vecchi funzionari dell'amministrazione
dell'Ancien Régime restarono al loro posto (fino all'estate del 1790
gli intendenti che non si dimisero continuarono le loro vecchie
funzioni, sebbene esse fossero state considerevolmente ridotte).
Rinnovamento delle istituzioni francesi
L'Assemblea Costituente, in maggioranza
formata da borghesi e nobili, intraprese una vasta opera di riforme,
applicando le idee dei filosofi e degli economisti del XVIII secolo.
I primi lavori dell'Assemblea furono
dedicati alla riforma amministrativa, in quanto le vecchie procedure
dell'Ancien Régime erano troppo complesse. I deputati si
concentrarono innanzitutto sulla riforma municipale, resa urgente dai
disordini suscitati nei corpi municipali dagli scompigli dell'estate.
Con la legge del 22 dicembre 1789 l'Assemblea creò 83 dipartimenti
(circoscrizioni amministrative, giudiziarie, fiscali e religiose), ai
quali vennero dati dei nomi legati alla loro geografia fisica (corsi
d'acqua, montagne, mari, ecc.) e furono suddivisi in distretti,
cantoni e comuni (in primavera una commissione venne incaricata di
provvedere alla suddivisione della Francia e di placare le liti tra
le città candidate a divenire capoluoghi). A partire dal gennaio del
1790 ogni amministratore di questi nuovi enti venne eletto dai propri
cittadini, inaugurando le prime elezioni della Rivoluzione; le nuove
amministrazioni, elette democraticamente, furono messe in funzione a
partire dall'estate del 1790.
Le posizioni all'interno dell'Assemblea
furono discordanti in merito alla riforma del sistema elettorale.
Alcuni deputati ritennero che il diritto di voto avrebbe dovuto
estendersi a tutti i cittadini maschi, altri sostennero che solo a
una parte della popolazione doveva essere riconosciuto tale diritto.
La maggioranza dei deputati decise, su proposta dell'abate Sieyès,
di dividere i cittadini in passivi e attivi: ai primi sarebbero stati
riconosciuti i diritti civili, ai secondi sarebbero stati concessi
sia i diritti civili sia quelli politici; ogni cittadino attivo
doveva essere un contribuente maschio al di sopra dei venticinque
anni. Venne così approvato un sistema elettorale basato sul censo.
Sotto l'Ancien Régime le attività
economiche erano state strettamente controllate dallo Stato, che con
le sue regolamentazioni limitò gravemente la libertà di produzione
agricola, artigianale e industriale. L'Assemblea rimosse tutti questi
ostacoli e adottò il principio fisiocratico del laissez faire
(lasciar fare), basato sul liberismo economico formulato da Adam
Smith, che favorì l'eliminazione delle dogane e l'applicazione di
incentivi a favore di tutte le forme di produzione a scopo
capitalistico.
Con la Legge Le Chapelier (ideata dal
deputato Isaac René Guy Le Chapelier), votata il 14 giugno 1791,
venne abolito il diritto di sciopero e furono vietate tutte le
associazioni padronali e operaie (sindacati) con il pretesto che il
nuovo regime, avendo distrutto le antiche corporazioni, non poteva
permettere la ricostruzione di nuovi gruppi che si interponessero fra
Stato e cittadini; il risultato fu che il movimento rivoluzionario,
diffidando nei confronti delle associazioni ed esaltando le libertà
individuali, mise gli operai nell'incapacità di difendere i loro
diritti per quasi un secolo.
Se, nel corso dell'Ancien Régime, la
chiesa aveva detenuto numerose proprietà mobili e immobili (circa il
10% del regno) con il privilegio di una esenzione dalle imposte
statali e con il diritto di richiedere una decima (in danaro o in
natura), la Rivoluzione mise fine a tutto ciò e determinò una
fortissima riduzione del ruolo e del prestigio del clero nello stato.
Infatti, il potere e le ricchezze del clero crearono un forte
risentimento nella popolazione nei confronti della Chiesa che a sua
volta indusse l'assemblea a sopprimere definitivamente la decima
dall'11 agosto 1789; il 2 novembre, su proposta di Charles Maurice de
Talleyrand-Périgord (vescovo di Autun), l'Assemblea decise di
usufruire della grande quantità di beni del clero per colmare il
debito pubblico, mettendoli all'asta con l'intento di sanare il
deficit dell'economia francese. Per vendere così tanti beni era
necessario tempo, durante il quale le casse dello Stato avrebbero
potuto svuotarsi; per evitare questo, il 19 dicembre si decise di
creare dei biglietti il cui valore era assegnato in riferimento ai
beni del clero: nacque così l'assegnato. Da quel momento, chiunque
desiderava comprare dei beni nazionali doveva farlo attraverso gli
assegnati emessi dallo Stato, permettendo a quest'ultimo di
impossessarsi di moneta prima ancora dell'effettiva vendita del bene.
Effettuata la vendita, gli assegnati sarebbero ritornati nelle mani
dell'emittente per essere distrutti. I primi biglietti avevano un
elevato valore (1.000 livre) che non li rendeva idonei a essere messi
in circolazione tra la popolazione, ma il loro scopo principale era
di far rientrare la maggiore quantità possibile di moneta nelle
casse dello Stato. Il valore totale della prima emissione fu di 400
milioni.
Non tutti i deputati dell'Assemblea
furono favorevoli a questa riforma (tra essi Talleyrand), sostenendo
che il nuovo sistema avrebbe portato alla circolazione di un numero
troppo elevato di assegnati rispetto al valore dei beni nazionali. Il
17 aprile 1790 l'assegnato venne convertito in cartamoneta (Necker,
essendo contrario, si dimise in settembre) e lo Stato, sempre a corto
di liquidità, lo utilizzò per fronteggiare tutte le sue spese; ne
vennero messi in circolazione in una grande quantità che con il
tempo superò il valore dei beni nazionali, avverando i timori dei
deputati più scettici.
Tra il 1790 e il 1793 gli assegnati
persero il 60% del loro valore ma, ciononostante, i prezzi di
acquisto dei beni nazionali rimasero molto elevati per le classi
popolari e solo la classe agiata poteva acquistarli e molte persone
si arricchirono enormemente, acquistando grandi terreni e fabbricati
per somme irrisorie rispetto al loro valore reale: tutto questo
contribuì fortemente a dare inizio a un periodo di forte inflazione
e l'Inghilterra, all'epoca il più grande nemico della Francia,
cominciò a produrre dei falsi assegnati per accelerare la crisi
economica francese.
In ogni caso, la già citata
eliminazione della decima e la nazionalizzazione dei beni della
Chiesa (con conseguente abolizione degli ordini religiosi monastici,
decisa il 13 febbraio 1790) costrinsero l'Assemblea a interessarsi
direttamente del finanziamento del clero nonché delle attività
assistenziali da esso gestite. Il 12 luglio 1790 venne approvata la
Costituzione civile del clero, approvata da Luigi XVI il 26 dicembre.
Con questo documento, ispirato ai principi gallicani (riconoscimento
al papa del primato d'onore e di giurisdizione ma non del potere
assoluto), venne attuata una riforma essenzialmente su quattro
aspetti della Chiesa: riordinamento delle diocesi in base ai
dipartimenti (furono soppresse 52 diocesi, da 135 a 83); retribuzione
da parte dello Stato di vescovi, parroci e vicari; elezione
democratica dei vescovi e dei parroci da parte delle assemblee
dipartimentali; obbligo di residenza sotto pena di perdita della
retribuzione; obbligo degli eletti di giurare lealtà alla
costituzione civile e allo stato; in pratica, i membri del clero
divennero così dei funzionari statali.
Il 1º agosto Luigi XVI incaricò
l'ambasciatore a Roma di ottenere, da papa Pio VI, l'approvazione
della nuova riforma. Il papa si era limitato a condannare
segretamente la Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo e del Cittadino e
per valutare la Costituzione Civile del Clero istituì una speciale
commissione, la quale, preoccupata di perdere Avignone (all'epoca
faceva parte dello Stato Pontificio anche se gran parte degli
Avignonesi erano favorevoli ad annettersi alla Francia) e di
provocare una spaccatura tra i chierici, cercò di temporeggiare. I
vescovi domandarono che si attendesse l'approvazione pontificia prima
di mettere in vigore la nuova riforma, ma l'Assemblea insistette per
una sua rapida applicazione e decise che per il 4 gennaio 1791 tutti
i vescovi, parroci e vicari avrebbero dovuto prestare un giuramento
di fedeltà come funzionari civili, pena la perdita delle funzioni e
dello stipendio (nei casi più gravi anche l'esilio o la morte). I
primi chierici cominciarono a prestare giuramento senza attendere il
giudizio del pontefice ma i 2/3 degli ecclesiastici dell'Assemblea
rifiutarono di giurare e pressoché la metà del clero parrocchiale
fece altrettanto e, pertanto, l'Assemblea li destituì sostituendoli
con coloro che prestarono giuramento).
Papa Pio VI fu costretto a prendere
posizione e il 10 marzo 1791, con il Quod aliquantum, condannò la
Costituzione Civile del Clero, in quanto danneggiava la costituzione
divina della Chiesa. Il 13 aprile, con il Charitas quae, dichiarò
sacrilega la consacrazione di nuovi vescovi, sospendeva ogni chierico
costituzionale e condannava il giuramento di fedeltà allo Stato. I
rivoluzionari, per rappresaglia, invasero Avignone dove ci fu lo
scontro fra chi sosteneva l'annessione alla Francia e chi era fedele
al pontefice; una sessantina di questi ultimi furono condannati a
morte e uccisi in una delle torri del palazzo dei Papi (tale evento è
ricordato come Massacri della Glacière).
Quando venne emanata la Dichiarazione
dei Diritti dell'Uomo e del Cittadino nell'agosto del 1789, il
piccolo gruppo dei deputati protestanti reclamò anche la piena
uguaglianza dei culti religiosi, trovando un parziale sostegno da
parte della maggioranza dell'Assemblea che dichiarò: «Nessuno deve
essere inquisito per le sue opinioni, anche religiose».
Successivamente i cattolici del sud della Francia (dove più vivo era
il sentimento anti-protestante) contrattaccarono, invitando
l'Assemblea a riconoscere il cattolicesimo come religione di Stato.
La proposta fu rigettata, contribuendo ad allontanare parte del clero
dalla rivoluzione.
Le condanne di Pio VI del 10 marzo e 13
aprile portarono al distacco di un'ulteriore parte del clero fedele
al papa dall'Assemblea, dividendo profondamente la Chiesa francese e
aggravando il malcontento della popolazione mentre la questione del
giuramento degenerò in uno scontro violento nell'ovest della
Francia, dove le città sostenevano i chierici costituzionali e le
campagne appoggiavano i refrattari, ovvero quelli che rifiutavano il
giuramento di fedeltà allo Stato.
Fuga
a Varennes
Il piano di fuga del Re
Da tempo erano stati preparati diversi
piani per permettere alla famiglia reale di fuggire da Parigi, ma
l'indecisione di Luigi XVI portò all'accantonamento di ognuno di
essi. Grazie all'insistenza di Maria Antonietta, il re si decise ad
agire e optò per un tentativo di fuga ideato da Hans Axel von
Fersen, con il quale sarebbero rimasti in territorio francese, al
fine di preservare ciò che restava del prestigio e dell'autorità
della monarchia; la loro destinazione era Montmédy, una roccaforte
nel nord-est della Francia, vicino al confine con il Lussemburgo,
dove ad attenderli ci sarebbe stato il comandante François Claude de
Bouillé con soldati fedeli alla causa monarchica. Qui Luigi XVI
avrebbe potuto organizzare un tentativo di controrivoluzione.
Alcuni storici sostengono che La
Fayette, al corrente del piano, favorì la fuga nella speranza di
ottenere, in assenza del sovrano, la nomina di Capo dello Stato.
Il 14 luglio 1790, al Campo di Marte,
era stato celebrato l'anniversario della Presa della Bastiglia con la
Festa della Federazione e, dopo una celebrazione eucaristica
sostenuta da Talleyrand, Luigi XVI e Maria Antonietta, accompagnati
da La Fayette, avevano prestato giuramento al Paese e alla
Costituzione (ancora in fase di revisione). Questo momento di unione
nazionale aveva fatto credere tanto alla popolazione tanto
all'assemblea che il re avesse accettato i cambiamenti sociali e
politici appena instaurati tanto che la popolazione presente al campo
di Marte gridò "Viva il Re" testimoniando la propria
fiducia nella lealtà della monarchia. Anche i rapporti tra sovrano e
assemblea si erano fatti più distesi tanto che erano state
conservate numerose prerogative della monarchia e che gli ideali
repubblicani, già deboli, si erano ulteriormente assopiti. Invece
Luigi XVI aveva tentato di conservare la sua autonomia e di
riconquistare il potere che aveva perduto, mantenendo contatti con le
corti straniere, chiedendo loro supporto contro i rivoluzionari e,
come sincero cattolico, appoggiando il papa e i preti refrattari.
Il fallimento del suo tentativo di fuga
a Varennes, che avvenne tra il 20 e il 21 giugno 1791, ebbe la
conseguenza di svelare alla popolazione la sua ostilità nei
confronti della rivoluzione e ruppe l'ideale di unità nazionale
distruggendo ogni prestigio della monarchia.
La sera del 20 giugno 1791 tutte le
porte del palazzo delle Tuileries erano sorvegliate da uomini della
Guardia nazionale. Ancora oggi non è chiaro quale via di fuga abbia
utilizzato la famiglia reale. I primi ad abbandonare il palazzo
furono la governante Pauline de Tourzel con i figli dei sovrani;
successivamente uscirono il re, la regina e la sorella del re,
Elisabetta; la famiglia si ricongiunse verso mezzanotte poco distante
a bordo della carrozza di von Fersen; poco più avanti vennero
raggiunti dalla carrozza reale, sulla quale si trasferirono per
proseguire il viaggio; la stessa notte tentarono la fuga il conte e
la contessa di Provenza, riuscendo a espatriare senza problemi.
La mattina del 21 giugno si diffuse la
notizia della scomparsa del re e nella popolazione le reazioni furono
miste, dalla sorpresa al risentimento. La Fayette, il sindaco Bailly
e altri, decisero di far credere che il sovrano fosse stato rapito,
con l'intento di salvare ciò che restava della credibilità della
monarchia costituzionale francese. Tuttavia verso sera la carrozza
reale venne riconosciuta da Jean-Baptiste Drouet, il mastro di posta
di Sainte-Menehould che, montato a cavallo, riuscì a precederla a
Varennes-en-Argonne allertando la popolazione locale che bloccò la
fuga. Arrestata, la famiglia reale venne ricondotta a Parigi dove
giunse al palazzo delle Tuileries il 25 giugno. Luigi XVI perse la
stima di molti cittadini francesi e numerosi giornali rivoluzionari
divennero sempre più ostili e irrispettosi nei confronti del re e
della regina, ritraendoli in immagini caricaturali sotto forma di
maiali.
A meno di un mese dal fallito tentativo
di fuga del re, il Club dei Cordiglieri (estremisti rivoluzionari)
decise di redigere una petizione con la quale chiese la destituzione
del re e l'instaurazione della repubblica. I difensori della
monarchia costituzionale, tra i quali La Fayette e Bailly, a seguito
di incidenti decretarono la legge marziale, vietando qualsiasi
manifestazione. Tuttavia, il 17 luglio, i parigini si radunarono a
Campo di Marte per manifestare, sostenendo l'iniziativa dei
Cordiglieri. Quando la Guardia nazionale arrivò, guidata da La
Fayette e Bailly, che portava con se la bandiera rossa della legge
marziale, fu ordinato alla folla di disperdersi. La folla reagì
lanciando dei sassi contro i soldati. Un colpo di pistola partì da
qualche parte, o dai soldati o dai manifestanti e i soldati
incominciarono a sparare sulla folla e alcuni manifestanti armati
risposero. La Guardia Nazionale contò in totale nove feriti, di cui
due morirono nei giorni successivi; delle vittime fra i manifestanti
non ci fu alcun rapporto ufficiale ma le stime effettuate danno 10
morti secondo la stampa fayettista, 12 secondo un resoconto di
Bailly, fino ad arrivare a un massimo di 400 (probabilmente
esagerati) per il giornalista radicale Jean-Paul Marat. Secondo la
maggior parte delle stime però i morti furono verosimilmente una
cinquantina. Questo evento (noto come Eccidio del Campo di Marte)
portò a una rottura insanabile tra i rivoluzionari radicali e quelli
moderati: La Fayette, Bailly e Antoine Barnave uscirono dal Club dei
Giacobini (che aveva appoggiato il Club dei Cordiglieri durante la
manifestazione del 17 luglio) e fondarono il più conservatore Club
dei Foglianti, con il quale cercarono di limitare le conseguenze che
la rivoluzione stava apportando, sostenendo la monarchia
costituzionale.
La revisione della Costituzione terminò
il 12 settembre 1791 e il giorno dopo il re la ratificò, diventando
Luigi XVI Re dei Francesi. La nuova riforma, basata sulle idee di
Montesquieu (separazione dei poteri) e Rousseau (sovranità popolare
e supremazia del legislatore), prevedeva una monarchia dai poteri
limitati nella quale al sovrano, che rimaneva il rappresentante della
Nazione, competeva il solo potere esecutivo tramite la nomina di
alcuni ministri (scelti all'esterno del parlamento per evitare
conflitti di interesse); il potere legislativo venne affidato
all'Assemblea Legislativa, che sostituì l'Assemblea nazionale
costituente, formata da 745 deputati.
L'elezione dei deputati avvenne a
suffragio censitario a due gradi: il corpo dei cittadini attivi
(uomini al di sopra dei venticinque anni che pagavano tasse per un
valore corrispondente ad almeno tre giornate lavorative) eleggeva gli
elettori (uomini al di sopra dei venticinque anni che pagavano tasse
per un valore di almeno dieci giornate lavorative), ai quali spettava
la successiva elezione dei deputati; un candidato deputato doveva
essere un proprietario terriero e contribuente per una somma
prestabilita; infine, su proposta di Maximilien de Robespierre,
nessun deputato della precedente Assemblea nazionale costituente poté
presentarsi come candidato all'elezione della nuova Assemblea, che si
riunì a partire dal 1º ottobre 1791. I più moderati formarono la
destra, circa 260 monarchici di tendenza costituzionale iscritti al
Club dei Foglianti, difensori della monarchia contro l'agitazione
popolare; la sinistra con circa 135 deputati, per la maggior parte
esponenti di idee illuministe della piccola borghesia, fu costituita
da membri del Club dei Giacobini, dal Club dei Cordiglieri e dai
Girondini; il centro, con circa 350 deputati, formava la cosiddetta
Palude e rappresentava la maggioranza e difese gli ideali della
Rivoluzione votando generalmente con la sinistra ma, non avendo una
forte caratterizzazione politica, capitò che sostenne anche proposte
provenienti da destra.
Al re non spettava più la nomina dei
magistrati che vennero eletti con le medesime procedure previste per
l'elezione dei deputati e la sua condotta in politica estera venne
messa sotto controllo. Al sovrano tuttavia rimase la facoltà di
nominare e revocare i ministri, i capi militari, gli ambasciatori e i
principali amministratori; conservò inoltre il potere di veto
sospensivo sui provvedimenti approvati dall'Assemblea Legislativa, ma
questo non poté applicarsi alle leggi costituzionali, alle leggi
fiscali e alle deliberazioni concernenti la responsabilità dei
ministri, i quali avrebbero potuto essere messi in stato d'accusa
dall'Assemblea. La Francia divenne così a tutti gli effetti una
monarchia costituzionale.
Dopo gli eventi avvenuti al Campo di
Marte, il sindaco Bailly – da mesi oggetto di critiche feroci –
si rese conto che le ultime vestigia della sua popolarità erano
scomparse e che non era più una voce efficace per la rivoluzione e
il 19 ottobre presentò le sue dimissioni da sindaco alla Comune in
una lettera dal tono singolarmente scoraggiato e significativa per la
sua mancanza di eloquenza rivoluzionaria:
| «Credo di poter guardare la mia carriera come finita. Vengo
per chiedervi di ricevere le mie dimissioni. La costituzione è
stata completata, decretata solennemente; ed è stata accettata
dal re. Iniziata sotto la mia presidenza, posso vedere il
traguardo e posso vedere realizzato il mio giuramento. Ma ho
bisogno di un periodo di riposo, che le funzioni della mia
posizione non mi consentono...» |
| (Bailly nella "Lettre aux officiers
municipaux, 19 octobre 1791".) |
A Bailly fu chiesto di posporre le
proprie dimissioni fino alla celebrazione di nuove elezioni, ma
nessuno in realtà protestò per la sua decisione. Le elezioni si
tennero il mese successivo, il 14 novembre 1791. Ad esse
parteciparono La Fayette, che intanto si era dimesso dalla carica di
comandante della Guardia Nazionale, e il giacobino Jérôme Pétion
de Villeneuve il quale venne eletto sindaco di Parigi con il 60% dei
voti, per un totale di 6708 voti su 10632 votanti, nonostante avesse
votato solo il 10% degli aventi diritto al voto. Fondamentale per
Pétion fu il mancato appoggio a La Fayette da parte della corte e
senza questi voti non riuscì a vincere. Anche l'influenza di La
Fayette, inviso sia alla sinistra radicale - che aveva ormai
catalizzato la rivoluzione - sia alla corte e alla famiglia reale,
era dunque tramontata.
La situazione politica e sociale
disastrosa favorì un forte incremento dell'emigrazione (in gran
parte nobili), confermando la progressiva radicalizzazione della
Rivoluzione. Per cercare di contenere questa espansione
rivoluzionaria entro i confini francesi, il 27 agosto 1791
l'imperatore Leopoldo II e Federico Guglielmo II, re di Prussia, al
termine di un incontro avvenuto a Pillnitz dal 25 al 27 agosto dove
venne discusso principalmente il tema della spartizione della Polonia
e la fine della guerra tra Austria e Impero Ottomano, rilasciarono
una dichiarazione (Dichiarazione di Pillnitz), con la quale
invitarono le potenze europee a intervenire contro la Rivoluzione per
restituire i pieni poteri a Luigi XVI. Negli stessi giorni, Leopoldo
II dichiarò che l'Austria avrebbe mosso guerra solamente se tutte le
potenze avessero fatto altrettanto, l'inglese William Pitt, condivise
tale condizione; dunque, la Dichiarazione di Pillnitz sarebbe dovuta
servire unicamente allo scopo di intimorire i rivoluzionari francesi,
facendoli desistere dal continuare a indebolire l'autorità di Luigi
XVI ma sia la popolazione sia l'Assemblea Legislativa interpretò il
documento come una reale dichiarazione di guerra, cosa che fece
aumentare l'influenza dei deputati radicali, tra i quali Jacques
Pierre Brissot, favorevoli all'intervento bellico per radicalizzare
il movimento rivoluzionario e diminuire ulteriormente il potere del
re.
Il 31 ottobre l'Assemblea votò un
decreto volto a contrastare l'emigrazione, per il quale tutti gli
emigrati francesi sarebbero dovuti tornare entro due mesi, pena la
confisca delle loro proprietà; il 29 novembre venne promulgato un
secondo decreto che imponeva il giuramento civile ai chierici
refrattari, pena la privazione della pensione o addirittura la
deportazione in caso di disturbo all'ordine pubblico; infine, fu
richiesto ai sovrani stranieri di cacciare gli emigrati dai loro
territori. Il clima di tensione, peraltro, era ulteriormente
aggravato dal desiderio del Contado Venassino (appartenente allo
Stato Pontificio) di annettersi alla Francia e dai principi tedeschi
che si considerarono lesi dall'abolizione francese dei diritti
feudali, in quanto proprietari di alcuni territori in Alsazia.
Luigi XVI, consapevole della
disorganizzazione che regnava nell'esercito francese, sperava
segretamente nello scoppio di una guerra che avrebbe sconfitto i
rivoluzionari e riportato i pieni poteri alla monarchia; dello stesso
parere era il Club dei Foglianti. La sinistra, in particolare i
Girondini, era anch'essa favorevole allo scoppio di un conflitto
armato, con il quale avrebbe potuto tentare di esportare la
rivoluzione nel resto d'Europa. Dunque ognuno, per diversi motivi,
desiderava la guerra (tra i pochi contrari vi fu Robespierre che
preferiva consolidare ed espandere la rivoluzione in Patria).
Il 20 aprile 1792, su proposta del re e
dopo una votazione con una maggioranza schiacciante dell'Assemblea
Legislativa, la Francia dichiarò guerra al re di Ungheria e di
Boemia, Francesco II (appena succeduto al padre Leopoldo II, morto il
1º marzo): la guerra non venne dichiarata al Sacro Romano Impero e
questo fu un escamotage per evitare di coinvolgere gli stati tedeschi
a esso aderenti; la Prussia si alleò agli austriaci il 6 giugno. I
Girondini definirono questo conflitto come una guerra dei popoli
contro i sovrani, una crociata per la libertà.
In quel momento l'armata francese era
in uno stato di totale disorganizzazione, con i soldati che avevano
un morale piuttosto basso tanto che molti disertarono non appena
seppero della dichiarazione di guerra, con i reggimenti stranieri di
dubbia lealtà, con molti ufficiali che, essendo di estrazione
nobile, erano emigrati e non erano stati rimpiazzati. Presto, tra i
rivoluzionari cominciò a svilupparsi l'idea dell'esistenza di un
complotto fra nobiltà, corte e chierici refrattari per abbattere la
rivoluzione; questa convinzione regnava anche sul campo di battaglia
e a testimoniarlo vi fu la morte del generale Theobald de Dillon,
ucciso dai propri uomini in seguito a una sconfitta subita nei pressi
di Lille il 29 aprile, accusato di essere stato il responsabile della
ritirata.
L'Assemblea, su forte pressione dei
Girondini, votò tre decreti volti a prevenire e contrastare
un'eventuale controrivoluzione: deportazione dei preti refrattari (27
maggio), scioglimento della Guardia reale (29 maggio) e costituzione
di una Guardia nazionale provinciale per la difesa di Parigi (8
giugno). L'11 giugno il re oppose il suo veto al primo e al terzo
decreto, provocando una nuova agitazione rivoluzionaria che il 20
giugno sfociò nell'attacco della popolazione al palazzo delle
Tuileries; durante l'insurrezione venne trascinato un cannone lungo
la rampa delle scale del palazzo, il re venne obbligato ad
affacciarsi al balcone, accettò impassibile di indossare il berretto
frigio (simbolo di libertà e rivoluzione) e bevve vino alla salute
del popolo, ma rifiutò di ritirare il veto sui decreti. L'entrata in
guerra della Prussia il 6 luglio costrinse l'Assemblea Legislativa ad
aggirare il veto reale, proclamando la Patria in pericolo l'11 luglio
1792 e chiedendo a tutti i volontari di affluire verso Parigi.
Il 25 luglio a Coblenza, su
suggerimento del re e della regina, venne redatto da Jacques
Mallet-du-Pan, Jérôme-Joseph Geoffroy de Limon e Jean-Joachim
Pellenc un proclama destinato ai parigini. Attribuito al comandante
dell'esercito austro-prussiano, Carlo Guglielmo Ferdinando di
Brunswick-Wolfenbüttel, il documento minacciava sanzioni gravi in
caso di attentato all'incolumità del sovrano e della famiglia reale
(Manifesto di Brunswick).
(FR)
«S'il est fait la moindre violence, le moindre outrage à
leur Majestés, le roi, la reine et la famille royale, s'il n'est
pas pourvu immédiatement à leur sûreté, à leur conservation
et à leur liberté, elles (les Majestés impériale et royale) en
tireront une vengeance exemplaire et à jamais mémorable, en
livrant la ville de Paris à une execution militaire et à une
subversion, et les révoltés coupables d'attentats aux supplices
qu'ils auront mérités.» |
(IT)
«Nel caso in cui venga usata la più piccola violenza o venga
recata la minima offesa nei confronti delle loro Maestà, il re,
la regina e la famiglia reale, se non si provvede immediatamente
alla loro sicurezza, alla loro protezione e alla loro libertà,
esse (la Maestà imperiale e reale) si vendicheranno in modo
esemplare e memorabile, abbandoneranno cioè la città a una
giustizia militare sommaria e i rivoltosi colpevoli di attentati
subiranno le pene che si saranno meritati.» |
| (Carlo Guglielmo Ferdinando, duca di
Brunswick-Wolfenbüttel, disposizione finale) |
|
Il 1º agosto il manifesto venne
affisso sui muri della città di Parigi ma, invece di spaventare i
cittadini, contribuì ad aumentare in loro il sentimento di unione
nazionale e l'odio nei confronti della monarchia. Per molti fu la
prova definitiva dell'esistenza di un'alleanza tra il re e le nazioni
nemiche che indusse i rivoluzionari a pretendere dall'Assemblea
Legislativa la destituzione di Luigi XVI che venne però rifiutata.
La notte del 9 agosto si formò un
corteo di insorti davanti al Municipio di Parigi. Al loro fianco si
schierarono le truppe di volontari, provenienti principalmente dalla
Provenza e dalla Bretagna, che da poco avevano formato la Guardia
nazionale provinciale; si riunirono circa 20.000 dimostranti fra
uomini, donne, operai, borghesi, militari, civili, parigini e
provinciali. Questi, armati di fucili e guidati da militanti
sanculotti (uomini del popolo di idee rivoluzionarie radicali) delle
varie sezioni di Parigi, erano talmente organizzati da far capire che
la sollevazione era stata premeditata e preparata, evidenziando la
maturità raggiunta dal movimento popolare. I principali
organizzatori di questa giornata rivoluzionaria furono Jean-Paul
Marat, Georges Jacques Danton, Maximilien de Robespierre, Louis
Antoine de Saint-Just, Jacques-René Hébert, Camille Desmoulins,
Fabre d'Églantine e altri.
Il corteo fece irruzione nel Municipio
obbligando il consiglio comunale in carica a destituirsi;
quest'ultimo venne sostituito da un consiglio rivoluzionario, la
Comune Insurrezionale. Successivamente la folla si diresse verso il
palazzo delle Tuileries, giungendo a destinazione alle prime luci
dell'alba del 10 agosto. Questo era difeso dalla Guardia svizzera e
da alcuni nobili, i quali portarono il re e la sua famiglia nella
Sala del Maneggio (sede dell'Assemblea Legislativa) con l'intento di
mettere i reali sotto la protezione dell'Assemblea, riunita in seduta
straordinaria. Alle otto del mattino gli insorti decisero di
penetrare nel palazzo; la Guardia svizzera reagì, provocando
centinaia di morti, ma i manifestanti continuarono a giungere
numerosi da ogni parte (soprattutto da Faubourg Saint-Antoine); il
re, seguendo il consiglio dei deputati che volevano evitare un bagno
di sangue, ordinò al comandante delle sue truppe di ritirarsi nella
caserma e i soldati, eseguendo l'ordine appena ricevuto, vennero
sorpresi e massacrati dalla folla; al termine degli scontri si
contarono circa 350 morti fra gli insorti e circa 800 fra i
monarchici, di cui 600 Guardie svizzere e 200 nobili. Con la presa
del palazzo il potere passò di fatto nelle mani della Comune
Insurrezionale che immediatamente obbligò l'Assemblea legislativa a
dichiarare decaduta la monarchia e a convocare una nuova assemblea
costituente (Convenzione nazionale) che avrebbe avuto il compito di
stilare una nuova Costituzione a carattere democratico ed
egualitario. Luigi XVI, privato dei suoi poteri, venne rinchiuso
insieme alla sua famiglia nella prigione del Tempio in attesa di
essere processato. La sera del 10 agosto, in seguito a una seduta
durata nove ore, l'Assemblea legislativa designò per acclamazione un
Consiglio Esecutivo provvisorio composto da sei ministri: Danton
(ministro della Giustizia), Gaspard Monge (ministro della Marina),
Pierre Henri Hélène Tondu (ministro degli Esteri), Jean-Marie
Roland de La Platière (ministro degli Interni), Joseph Servan
(ministro della Difesa) e Étienne Clavière (ministro delle
Finanze). Segretario del Consiglio provvisorio fu nominato Grouvelle
Philippe-Antoine.
All'inizio di settembre 1792 l'esercito
austro-prussiano proseguì il suo attacco, penetrando sempre più in
territorio francese. Dopo la caduta della fortezza di Longwy il 23
agosto, rimaneva la fortezza di Verdun, assediata dal 20 agosto, come
ultima difesa lungo la strada per Parigi; un attacco dell'esercito
nemico la fece capitolare il 2 settembre, costringendo la Comune a
chiamare alle armi un gran numero di cittadini per essere spediti al
fronte. Tutto questo contribuì a diffondere nel popolo un'ondata di
panico che, insieme alla convinzione generale dell'esistenza di un
complotto controrivoluzionario, si trasformò in collera verso chi
era ritenuto responsabile di questa critica situazione. Tutto questo
indusse la popolazione ad assaltare le carceri di Parigi dal 2 al 7
settembre, noti poi come Massacri di settembre in quanto causarono la
morte di tutte le persone ritenute colpevoli o sospette di atti
controrivoluzionari. Processi sommari ebbero luogo in numerose
carceri di Parigi e quasi 1.400 prigionieri furono condannati e
giustiziati. Tra le vittime ci furono più di duecento chierici
refrattari, un centinaio di Guardie svizzere, molti prigionieri
politici e aristocratici; persero la vita anche numerose persone che
erano state imprigionate ingiustamente o colpevoli di reati minori.
Tra i massacri più celebri ci furono quelli all'abbazia di
Saint-Germain-des-Prés, al carcere del convento dei Carmelitani,
alla Conciergerie, alla Prigione di Saint-Firmin, al Grand Châtelet,
alla prigione La Force e al carcere dell'ospedale Salpêtrière.
Simili insurrezioni, ma di minore entità, si verificarono nel resto
del Paese, portando alla morte altre 150 persone circa. Queste
uccisioni sommarie avvennero sotto gli occhi dell'Assemblea
Legislativa che, non osando intervenire, evitò di condannarle.
L'elezione dei deputati della
Convenzione nazionale si svolse dal 2 al 6 settembre 1792 in
un'atmosfera molto tesa e si decise di abbandonare il sistema
elettorale censitario utilizzato nel 1791 per usare per la prima
volta quelle a suffragio universale maschile.
Votò solo il 10% dei sette milioni di
elettori a causa principalmente dell'allontanamento dei sostenitori
della monarchia in seguito alla giornata del 10 agosto, al clima di
terrore che regnava in quel periodo e alla paura generale di fare una
scelta politica sbagliata che avrebbe comportato ritorsioni. La
Convenzione venne così composta da 749 deputati repubblicani
provenienti principalmente dalla borghesia. Questi si divisero in tre
gruppi: a destra i Girondini, a sinistra i Montagnardi e al centro la
maggioranza che non aveva ancora una linea politica ben definita.
I neo-formatisi Girondini, fra cui
spiccavano Jacques Pierre Brissot, Pierre Victurnien Vergniaud,
Jérôme Pétion de Villeneuve e Jean-Marie Roland, rappresentavano
l'ala più moderata della Convenzione: diffidavano dalla gente comune
ma avevano l'appoggio della borghesia provinciale che aveva fatto
fortuna durante la rivoluzione: intendevano opporsi al ritorno
dell'Ancien Régime per godersi in pace i frutti dei loro successi ma
erano restii a prendere decisioni di emergenza per soccorrere il
Paese; i Girondini ottennero fin dal principio la direzione
all'interno della Convenzione nazionale ma, sostenendo fermamente la
lotta della rivoluzione contro il potere dei sovrani, dovettero
sperare nella vittoria in guerra per evitare di essere travolti dal
loro stesso programma politico.
I Montagnardi (da "montagna",
in quanto occupavano i banchi posti più in alto) provenivano
principalmente dal Club dei Giacobini e rappresentavano l'ala più
radicale della Convenzione: sensibili ai problemi della gente comune,
erano disposti ad allearsi con i sanculotti o ad adottare misure di
emergenza per salvare la Patria in pericolo. Alla guida dei
Montagnardi ci furono Robespierre, Danton, Marat e Louis Antoine de
Saint-Just.
I deputati di centro, chiamati anche
Pianura (in quanto occupavano i banchi posti più in basso) o in modo
dispregiativo Palude, non avevano dei rappresentanti di spicco e
dunque non possedevano una precisa linea politica: appoggiarono i
Girondini quando si trattavano argomenti inerenti alla proprietà e
la libertà, mentre sostennero i Montagnardi quando al centro degli
interessi c'era il bene della Nazione.
L'ultimo atto dell'Assemblea
Legislativa fu decidere, il 20 settembre 1792, che i registri delle
nascite e dei decessi da quel momento avrebbero dovuto essere tenuti
dai comuni; l'indomani la Convenzione nazionale si riunì per la
prima volta e il 21 settembre abolì la monarchia, proclamando la
repubblica.
A seguito della sconfitta a Verdun, i
comandanti delle tre armate francesi che fronteggiarono l'esercito
austro-prussiano (La Fayette, Luckner e Donatien de Vimeur de
Rochambeau) vennero sostituiti dalla Convenzione con i generali
Dumouriez e Kellermann. Il 20 settembre 1792, nella battaglia di
Valmy, l'armata francese riportò una vittoria, inducendo Austria e
Prussia a ritirarsi dalla Francia; in agosto Federico Guglielmo II
aveva concluso un accordo segreto con la Russia per la spartizione
della Polonia, problema che gli stava più a cuore rispetto alla
difesa dei diritti della monarchia francese e ciò contribuì al
rientro delle truppe della coalizione in Patria.
Sul piano militare si trattò di una
vittoria poco rilevante ma l'importanza storica fu di grande portata,
come sottolineò Goethe, fisicamente presente alla battaglia come
osservatore prussiano, che scrisse: «Di qui e oggi comincia una
nuova epoca della nostra storia del mondo». Il fatto che un esercito
raccogliticcio, indisciplinato, di scarsa esperienza militare e per
di più in sensibile inferiorità numerica fosse riuscito a
sconfiggere l'esercito di due potenze coalizzate, infiammò
l'opinione pubblica francese e ridiede credibilità all'esercito,
mettendo in dubbio le capacità militari dei comandanti avversari.
L'avanzata delle truppe francesi
proseguì con il generale de Custine che conquistò Spira (30
settembre), Worms (5 ottobre), Magonza (21 ottobre) e Francoforte sul
Meno (22 ottobre), ottenendo l'occupazione della riva sinistra del
Reno. Durante queste avanzate venne occupato anche il Ducato di
Savoia. L'8 ottobre Dumouriez entrò in Belgio con l'intento di
togliere l'assedio alla città di Lilla e il 6 novembre riportò
un'importante vittoria nella battaglia di Jemmapes che gli permise di
occupare i Paesi Bassi austriaci che comprendevano gran parte degli
attuali Belgio e Lussemburgo.
Ovunque i francesi riuscirono a
diffondere i loro ideali rivoluzionari: la Convenzione enunciò
l'idea che le Alpi e il Reno erano le frontiere naturali della
Francia, decretando nel dicembre 1792 l'annessione di tutti i Paesi
occupati; questo approccio in politica estera fu poco coerente con
gli ideali della rivoluzione, la quale voleva la liberazione dei
popoli; l'Inghilterra, che già in passato aveva contrastato
fortemente la politica imperialista di Luigi XIV, successivamente
assumerà la guida nella lotta alla Rivoluzione francese.
Processo ed esecuzione di
Luigi XVI
Dopo l'arresto del re, i Girondini
cercarono in ogni modo di evitare il suo processo temendo che questo
potesse rianimare e rinforzare l'ostilità delle monarchie europee
nei confronti della Francia. La scoperta dell'armadio di ferro al
palazzo delle Tuileries, il 20 novembre 1792, rese il processo
inevitabile in quanto i documenti reali rinvenuti provarono il
tradimento del re e il 3 dicembre la Convenzione nazionale dichiarò
che il procedimento penale sarebbe cominciato la settimana
successiva. Per la sua difesa il re, accusato di tradimento verso la
nazione e di cospirazione contro le libertà pubbliche, chiese
l'assegnazione del più celebre avvocato dell'epoca, Target, ma
quest'ultimo rifiutò l'incarico; la Convenzione decise allora di
assegnare all'imputato gli avvocati Tronchet, de Lamoignon de
Malesherbes e de Sèze. Il processo, presieduto da Bertrand Barère,
cominciò il 10 dicembre e nei giorni seguenti gli avvocati difensori
esposero le loro arringhe, sostenendo l'inviolabilità del sovrano
prevista dalla Costituzione del 1791 e chiedendo che fosse giudicato
come un normale cittadino e non come un Capo di Stato; i Girondini,
che volevano condannare la carica del monarca ma non la persona, si
trovarono in forte contrasto con i Montagnardi, i quali desideravano
una netta separazione con tutto ciò che rappresentava il passato
monarchico attraverso la condanna a morte. Il 15 gennaio 1793 il re
fu riconosciuto colpevole con la schiacciante maggioranza di 693 voti
contro 28. Il giorno seguente, su forte pressione dei Girondini,
venne chiesto di decidere se la condanna di colpevolezza adottata
dalla Convenzione nazionale avrebbe dovuto passare attraverso un
referendum popolare; questo estremo tentativo di salvare la vita al
re venne rifiutato con 424 contrari, 287 favorevoli e 12 astenuti;
sempre nella giornata del 16 gennaio si proseguì con la votazione
sul tipo di pena da adottare nei confronti del sovrano; infine, alle
nove della sera venne data lettura della sentenza: Luigi XVI sarebbe
stato giustiziato il 21 gennaio alle 11, in Place de la Révolution.
Il 17 gennaio, su richiesta di alcuni Girondini, venne eseguito uno
scrutinio di controllo dove risultò che 387 deputati votarono la
morte e 334 la detenzione o la morte con rinvio.
Luigi XVI fu condotto in carrozza al
patibolo un'ora prima dell'esecuzione, dopo avere ricevuto la
comunione in prigione. Quando arrivò in piazza, indossando una
camicia bianca di lino e una giacca che dopo l'esecuzione furono
venduti all'asta, i soldati provarono a legargli le mani, ma il
sovrano si sottrasse. Le mani, comunque, gli furono legate sul
patibolo dal boia Charles Henri Sanson, che gli tagliò il codino. Il
resto del cerimoniale fu seguito dal re con freddezza, nonostante la
fama di uomo codardo che gli si attribuiva. Prima di essere ucciso,
sebbene i soldati cercassero di impedirglielo, Luigi XVI si rivolse
ai parigini per pronunciare un breve discorso: "Muoio innocente
dei delitti di cui mi si accusa. Perdono coloro che mi uccidono. Che
il mio sangue non ricada mai sulla Francia!". Secondo le
testimonianze di alcune persone presenti, la ghigliottina scattò
prima che Luigi fosse messo in posizione, e dunque la lama non tagliò
del tutto il collo.
Alla morte del re, sancita dalla testa
mostrata alla folla da un membro della Guardia nazionale, i parigini
festeggiarono ballando al suono dell'inno nazionale e, secondo le
testimonianze dell'epoca, addirittura assaggiarono il sangue del re.
La festa durò a lungo, e uno dei testimoni, Louis-Sébastien
Mercier, la descrisse così: «Vidi gente che passeggiava
sottobraccio ridendo e scherzando amabilmente, come se si trovassero
a una festa». Alla fine il cadavere - trasportato in un cesto di
vimini fino al Cimitero della Madeleine - finì in una bara aperta
che fu calata in una fossa del cimitero e ricoperto di calce viva.
Luigi Carlo divenne automaticamente, per i monarchici e gli Stati
internazionali, re Luigi XVII.
Prima coalizione e controrivoluzione interna
Conseguentemente all'esecuzione di
Luigi XVI, il Regno di Gran Bretagna assunse la guida della Prima
coalizione, alla quale aderirono l'Arciducato d'Austria, il Regno di
Prussia, l'Impero russo, il Regno di Spagna, il Regno del Portogallo,
il Regno di Sardegna, il Regno di Napoli, il Granducato di Toscana,
la Repubblica delle Sette Province Unite e lo Stato Pontificio. La
Francia venne così accerchiata da una forte coalizione di potenze
avversarie e il 1º febbraio 1793 dichiarò guerra a Gran Bretagna e
Paesi Bassi: il 24 febbraio i girondini imposero il reclutamento di
massa della popolazione abile al servizio militare per incrementare
di 300 000 uomini le file dell'esercito; l'annuncio di questa
decisione provocò diverse sollevazioni popolari in tutto il Paese,
aggravate dalla successiva votazione della Convenzione nazionale che
impose che tutti quelli che avessero rifiutato di impugnare le armi
sarebbero stati giustiziati immediatamente e senza processo.
L'impopolarità dei girondini si accrebbe ulteriormente in seguito
alla loro cattiva condotta in politica economica, incapaci di sanare
la grave crisi inflazionistica. I produttori alimentari
immagazzinarono i loro prodotti piuttosto di scambiarli sul mercato
con assegni ormai privi di valore. La popolazione, spinta dalla fame
e dalla miseria, reclamò misure di emergenza contro il mercato nero,
chiese l'abbassamento dei prezzi, la requisizione di viveri presso i
produttori e la condanna degli speculatori. Nonostante questo quadro
sociale disastroso, la Convenzione proseguì la sua tipica politica
liberista, favorendo gli interessi dei benestanti e peggiorando
sempre più la condizione di vita della gente comune. I Montagnardi,
diversamente dai Girondini, appoggiarono le rivendicazioni dei
cittadini, guadagnandosi il loro favore.
Fin dai primi attacchi la Prima
coalizione riuscì a espellere i francesi dai Paesi Bassi,
ristabilendo poco alla volta tutti i confini prebellici. È in questo
contesto che nel marzo del 1793 scoppiò un'insurrezione nel
dipartimento francese della Vandea e nei territori adiacenti contro
il governo rivoluzionario, che degenerò in una guerra civile. In
questa zona, da sempre sostenitrice della monarchia, già da tempo si
era diffuso un certo malcontento nei confronti della repubblica,
dovuto principalmente alla politica anticlericale (in Vandea la fede
cattolica era particolarmente radicata), all'aumento delle tasse e
alla leva obbligatoria. La Vandea non era intenzionata a partecipare
alle guerre causate dalla rivoluzione e dunque a morire per una
Nazione che non la rappresentava, per cui preferì insorgere contro
di essa con l'intento di provare a restaurare la monarchia; venne
quindi organizzato un esercito cattolico e reale, costringendo la
Convenzione ad attuare seri provvedimenti repressivi e a inviare un
maggiore numero di soldati per contrastare queste violente
insurrezioni.
Questo portò alla repressione attuata
dal governo nella quale diverse migliaia di persone vennero uccise,
numerosi villaggi vennero distrutti e, secondo alcuni storici, tra
l'inverno del 1793 e l'estate del 1794 in questo territorio si compì
il primo genocidio della storia contemporanea in quanto i
repubblicani non vollero solo fermare l'insurrezione, ma anche
evitare che le idee controrivoluzionarie si diffondessero e questo
significò non solo un massacro e la distruzione su scala fino ad
allora sconosciuti ma anche una zelante volontà di cancellare parte
dell'identità culturale delle regioni in rivolta. Il numero delle
vittime della repressione viene stimato tra i 117 000 e i 170 000
morti.
Una tregua vera e propria si ebbe solo
nella primavera del 1795, ma lo stato insurrezionale rimase sempre
presente nella regione e la rivolta si riaccese più volte negli anni
seguenti, soprattutto nei momenti di crisi dei successivi governi
repubblicani e napoleonici. Il successo delle guerre di Vandea fu
dovuto al fatto che a insorgere fu il popolo, il quale sceglieva i
propri comandanti tra gli stessi contadini e tra la nobiltà
esiliata, a volte costringendoli con la forza; in quel periodo si
verificarono altre insurrezioni piuttosto improvvisate e organizzate
da nobili, più interessati a riconquistare le proprie terre che a
ripristinare la monarchia; per questo motivo venivano spesso
abbandonati dai propri uomini che combattevano solo dietro compenso,
tanto che l'esercito repubblicano non ebbe difficoltà a sopprimere
queste rivolte.
Il 10 marzo 1793 la Convenzione istituì
il Tribunale rivoluzionario (denominazione che assunse ufficialmente
nell'ottobre dello stesso anno), mediante il quale vennero giudicati
tutti gli oppositori politici. Il 18 marzo il deputato di centro
Bertrand Barère propose la creazione di un nuovo comitato, da
affiancare al Comitato di sicurezza generale (istituito ufficialmente
nell'ottobre del 1792, agiva come organo di polizia proteggendo la
repubblica rivoluzionaria dai nemici interni), con lo scopo di
contrastare tutte le minacce rivolte alla repubblica, sia
dall'interno sia dall'esterno del Paese. La proposta fu accolta e il
6 aprile venne istituito il Comitato di salute pubblica, formato da
nove membri (allargato nel settembre 1793 a dodici) provenienti dalla
stessa Convenzione che venivano rinnovati mensilmente mediante
elezione: l'incarico presso il nuovo organo, che ebbe sede al palazzo
delle Tuileries negli ex appartamenti della regina, fu preso da
Danton; la Convenzione nazionale mantenne la suprema autorità e il
Comitato di salute pubblica dovette rendere conto a essa delle
proprie decisioni. Con il nuovo sistema di governo la Convenzione
eleggeva i rappresentanti del Comitato di sicurezza generale e del
Comitato di salute pubblica. Quest'ultimo proponeva le leggi e
nominava i rappresentanti per le missioni di guerra al fronte e
all'interno dei dipartimenti, ma l'approvazione finale delle
decisioni spettava alla Convenzione.
L'esclusione dei girondini dal Comitato
di salute pubblica fu causa di tensioni tra i rivoluzionari. Il
conflitto tra la Gironda e la Montagna era scoppiato durante il
processo al re, nel corso del quale i girondini avevano tentato la
carta della clemenza, attirandosi sospetti di realismo. La loro
politica moderata li rendeva sospetti soprattutto ai sanculotti e al
Comune, che era più radicale; questo clima di ostilità a Parigi
alimentò la convinzione dei girondini di favorire un decentramento
territoriale del potere per impedire che la Convenzione cadesse nelle
mani delle folle rivoluzionarie, che sempre più stavano influenzando
con le loro insurrezioni la politica rivoluzionaria. I montagnardi,
dal canto loro, erano ostili al federalismo, considerandolo una
minaccia all'unità della repubblica.
La miccia dello scontro finale fu
accesa dalla notizia della defezione del generale Dumouriez il 4
aprile e, il giorno seguente, i giacobini, su proposta di Marat,
avanzarono una petizione per chiedere la destituzione dei deputati
girondini della Convenzione, considerati complici di Dumouriez;
Danton, sebbene fosse stato un tempo un attivo sostenitore riuscì a
far ricadere tutte le accuse sui girondini; in un ultimo tentativo di
reazione, la Gironda riuscì a mettere in stato di accusa Marat in
quanto ispiratore della petizione, ma senza successo. I girondini
avevano ormai perso il controllo di Parigi.
Il 31 maggio ci fu una manifestazione
di sanculotti contro i girondini, seguita il 2 giugno da un'imponente
insurrezione. Davanti al palazzo delle Tuileries, dove era riunita da
tre giorni la Convenzione nazionale, si schierano circa 80.000
manifestanti, sostenuti dalla Guardia nazionale al comando di
François Hanriot. I deputati non poterono uscire e uno dei
collaboratori di Robespierre, Georges Couthon, chiese l'arresto dei
due ministri (Clavière e Pierre Lebrun) e di ventinove deputati
girondini. La Convenzione, sotto assedio, fu obbligata ad approvare.
Brissot, Lebrun, Vergniaud e altre
diciotto figure di spicco dei Girondini, dopo un breve processo
tenutosi a Parigi dal 24 al 30 ottobre, finirono ghigliottinati. L'8
novembre madame Roland venne condannata e giustiziata il giorno
stesso. Suo marito, Jean-Marie Roland, rifugiato in Normandia, si
trafisse il cuore con un pugnale, lasciando un messaggio scritto:
«Nel conoscere la morte di mia moglie, non ho voluto restare un
giorno di più sopra una terra macchiata di delitti». Clavière si
suicidò in carcere, così come Condorcet, catturato mentre si
allontanava da Parigi dopo cinque mesi di latitanza. Preferirono
uccidersi nella latitanza anche l'ex sindaco Pétion e François
Buzot. Con la caduta della Gironda, la guida della Convenzione
nazionale passò ai Montagnardi, appoggiati esternamente dai
sanculotti, sebbene in alcune province francesi il sostegno ai
girondini sopravvivesse.
Costituzione
Montagnarda
Con l'eliminazione dei Girondini, i
Montagnardi si trovarono soli alla guida della Convenzione nazionale
con il compito di condurre la guerra e risanare la grave situazione
sociale, politica ed economica. Le frontiere nazionali vennero invase
dalle potenze della Prima Coalizione: gli spagnoli penetrarono a
sud-ovest, i piemontesi a sud-est, i prussiani, gli austriaci e gli
inglesi a nord e a est oltre a numerose insurrezioni popolari contro
la repubblica.
Il 13 luglio 1793, a Parigi, venne
ucciso Marat, da Charlotte Corday, una sostenitrice dei Girondini che
in seguito alla giornata del 2 giugno si convinse di doverlo uccidere
in quanto ritenuto il principale responsabile della guerra civile;
dopo una breve conversazione, la donna estrasse un coltello che
conficcò nel petto di Marat, recidendo l'aorta e penetrando fino al
polmone destro. Corday, arrestata e condannata a morte dal Tribunale
Rivoluzionario, venne messa alla ghigliottina quattro giorni dopo.
Questo avvenimento contribuì ad aggravare pesantemente la già
critica situazione politica.
Nel Comitato
di salute pubblica, Danton si rifiutò di approvare riforme di
emergenza per sanare la difficile situazione e, conducendo una
politica moderata, si oppose all'adozione di un'economia di guerra e
alla leva obbligatoria, tentando accordi segreti con le potenze
europee con l'intento di creare spaccature tra i membri della
coalizione nemica. Sospettato di fare il doppio gioco, accusato di
attuare una politica troppo cauta e malvisto dai sanculotti, il 10
luglio 1793 non venne rieletto membro del Comitato di salute
pubblica. Robespierre, entrato nel Comitato il 27 luglio, intraprese
fin dall'inizio una politica volta ad alleviare la miseria delle
classi più umili, accogliendo le indicazioni fornite dai
sanculotti[126] e, seppure contrario alla guerra, fu tra i più
attivi nel rafforzare militarmente l'esercito repubblicano attraverso
provvedimenti di controllo dell'economia; preoccupato dagli eventi
bellici, dai tentativi controrivoluzionari e deciso a estirpare ogni
residuo della monarchia e dell'Ancien Régime, decise di sostenere la
politica del cosiddetto Terrore, nel corso del quale si procedette
all'eliminazione fisica di tutti i possibili rivali della
rivoluzione.
Adottata per acclamazione dalla
Convenzione e approvata da un referendum popolare, il 24 luglio venne
promulgata una nuova Costituzione (Costituzione dell'Anno I o
Costituzione Montagnarda), basata principalmente sulla Dichiarazione
dei Diritti dell'Uomo e del Cittadino del 1789. Con l'intento di
calmare il clima di tensione, essa venne formulata per stabilire una
vera sovranità popolare grazie a frequenti elezioni a suffragio
universale che avrebbero permesso una consultazione popolare delle
leggi varate dal potere legislativo e riconosceva vari diritti
economici e sociali (associazione, riunione, assistenza pubblica e
istruzione), concedeva il diritto di ribellione (in caso il governo
avesse violato i diritti del popolo) e l'abolizione della schiavitù.
Nonostante i buoni propositi, questi provvedimenti non entrarono mai
in vigore in quanto il 10 agosto la Convenzione nazionale decretò
che il governo sarebbe rimasto rivoluzionario fino all'ottenimento
della pace, sospendendo così l'applicazione della nuova
Costituzione.
Dinanzi alla continua avanzata in
territorio francese della Prima Coalizione e sperando di soffocare i
moti controrivoluzionari presenti in diverse province francesi, la
Convenzione ratificò tutte le leggi che le vennero presentate dal
Comitato di salute pubblica. Fra queste, la legge del 23 agosto
applicò la leva di massa che permise di inviare tra le file
dell'esercito tutti gli uomini celibi o vedovi di età compresa fra i
diciotto e venticinque anni, mentre l'economia francese venne
totalmente riconvertita per scopi bellici e chi non arruolato dovette
partecipare agli sforzi di guerra adattandosi alla rigida economia di
risparmio.
Il 5 settembre 1793 un folto gruppo di
sanculotti armati manifestò per indurre la Convenzione ad assicurare
il pane a prezzi più bassi e ad approvare dei provvedimenti drastici
nei confronti di chiunque si fosse opposto agli ideali della
rivoluzione. Guidata dal Comitato di salute pubblica, la Convenzione
cercò di calmare l'agitazione popolare promulgando varie riforme. Il
9 settembre venne approvata la formazione dell'Armata rivoluzionaria
che, sotto il comando del generale Charles Philippe Ronsin ebbe il
compito di requisire il grano nelle campagne a discapito dei
contadini e commercianti accaparratori (coloro che preferivano
immagazzinare i loro prodotti piuttosto che immetterli sul mercato
per essere scambiati con assegni senza valore). Il 17 settembre fu
approvata la legge dei sospetti, proposta da Philippe-Antoine Merlin
de Douai e Jean-Jacques Régis de Cambacérès, con la quale ogni
nemico, o presunto tale, della rivoluzione venne incarcerato o
giustiziato sommariamente. Questa riforma definì sospetti tutti i
nobili e i loro parenti (senza definire il grado di parentela), tutti
i preti refrattari e i loro parenti (senza definire il grado di
parentela), tutte le persone che per condotta, atteggiamenti,
relazioni, opinioni verbali o scritte, si erano dimostrati nemici
della libertà e, con una definizione così vasta e poco dettagliata,
i Montagnardi abusarono della legge, condannando chiunque fosse
d'intralcio. Monarchici, chierici refrattari, nobili emigrati,
accaparratori, speculatori, evasori fiscali, estremisti e moderati
furono i gruppi maggiormente colpiti dalla nuova legge del Terrore.
Durante questo periodo di pesante
inflazione, le merci furono gli unici prodotti, oltre ai beni
immobili, a mantenere il loro valore reale. Cominciarono così a
manifestarsi fenomeni di accaparramento e, per contrastarli, la
Convenzione il 26 luglio 1793 approvò, su consiglio di Collot
d'Herbois, la legge contro gli accaparramenti che stabilì il divieto
di conservare in luogo chiuso derrate ritenute di prima necessità
senza che fossero state sottoposte a vendita giornaliera; le pene per
i trasgressori erano pesanti e potevano giungere fino alla
ghigliottina; infine furono costituite, nelle municipalità, speciali
commissioni di controllo i cui membri avevano accesso, con il
supporto della forza pubblica, a qualsiasi luogo o residenza. Questa
legge portò scarsi risultati e il perdurare dell'incremento dei
prezzi (non trattati dalla legge contro gli accaparramenti) indusse
la Convenzione ad approvare, il 29 settembre, la legge del maximum la
quale, per tutte le merci previste, stabiliva che il prezzo massimo
era quello raggiunto nell'anno 1790 maggiorato di un terzo, mentre
per i salari veniva consentita una maggiorazione del 50%; la pena
prevista per i trasgressori andava da dieci anni di carcere alla
condanna a morte. Le nuove norme sull'accaparramento e sui prezzi non
intervennero sulle cause ma solo sugli effetti e i risultati furono
deludenti in quanto al mercato ufficiale, dal quale le merci
sparirono immediatamente, si sostituì un mercato illegale al quale
ci si doveva rivolgere per riuscire ad avere qualcosa a prezzi
elevati; i salariati che fornivano la mano d'opera e tutti gli altri
operatori indipendenti sui quali il controllo della remunerazione era
impossibile, si rifiutarono di lavorare ai prezzi orari stabiliti
dalla legge del maximum; i fornitori di beni, come i coltivatori, si
trovarono nella condizione di non poter continuare l'attività
produttiva a causa della scarsa remunerazione rispetto ai costi, per
cui molti raccolti furono abbandonati; le autorità reagirono
inasprendo le pene e istituendo commissioni incaricate di procedere
alla coazione ma tale misura non fece altro che alimentare la
corruzione.
In questo periodo venne ideata e messa
in pratica la figura del Rappresentante in missione, inviato
straordinario della Convenzione per il mantenimento dell'ordine e il
rispetto della legge nei dipartimenti e negli eserciti. A questi
uomini vennero conferiti poteri praticamente illimitati che permisero
loro di supervisionare le azioni militari con la facoltà di
giudicare l'operato dei generali e fu concesso loro di dirigere
comandi militari locali in caso di disordini e di istituire tribunali
rivoluzionari; divennero l'espressione materiale del Terrore,
specialmente in Vandea, ove organizzarono processi sommari.
Durante il regime del Terrore si
verificò un grande processo di scristianizzazione in quanto i
rivoluzionari più estremisti ritenevano la religione cattolica
superstiziosa e tirannica, sostenendo che ogni essere umano si
sarebbe dovuto ispirare a ideali come la ragione, la libertà e la
natura; tutte le chiese cattoliche vennero chiuse e si cominciò a
predicare la religione rivoluzionaria, un numero elevato di chierici
refrattari venne condannato a morte, numerosi beni della Chiesa
furono requisiti, si celebrarono feste in onore della libertà e
della ragione, si praticò il culto dei martiri della rivoluzione e
fu ideato il calendario rivoluzionario (l'inizio dell'anno era il 22
settembre, anniversario della proclamazione della repubblica), in
quanto quello gregoriano ruotava intorno alla suddivisione e alla
scansione del tempo basato su cicli settimanali in uso nella
religione ebraica e cristiana. I sostenitori di questa ideologia come
Jacques-René Hébert vollero rompere ogni legame con il passato,
pensando che la responsabilità di tutti i mali era della Chiesa ma
il processo di scristianizzazione fu talmente improvviso, irruente e
irrazionale che indusse il deista Robespierre a porre un freno a
questa situazione, approvando una commissione per la libertà di
culto.
Nello stesso periodo furono decapitati
anche i Foglianti rimasti in patria. La Fayette, considerato nemico
dai Giacobini, ricercato per ordine di Danton, fu costretto a fuggire
in Belgio. Il 21 novembre fu ghigliottinato uno dei padri della
rivoluzione, anch'egli fondatore dei Foglianti, l'astronomo Jean
Sylvain Bailly, primo presidente dell'Assemblea nazionale e primo
sindaco di Parigi, ritenuto colpevole dei tragici eventi a Campo di
Marte del luglio 1791. Anche l'ex-leader dei foglianti all'Assemblea
legislativa, Antoine Barnave fu condannato a morte per la sua
compromettente corrispondenza, e fu ghigliottinato il 29 novembre
1793.
Nel frattempo, nella primavera del 1794
(febbraio-marzo), furono approvati due decreti (Decreti Ventosi, dal
nome del mese del calendario rivoluzionario in cui entrarono in
vigore) che inasprirono ulteriormente il controllo sull'economia e la
repressione disponendo la confisca dei beni degli emigrati (emigré)
e degli oppositori affinché fossero ridistribuiti agli indigenti; in
ogni caso, nonostante l'appoggio dei gruppi più radicali tra i
giacobini, tali decreti non furono sostanzialmente applicati da
Robespierre.
Verso la fine del 1793 e l'inizio del
1794 la politica economica francese adattata agli scopi bellici dal
Comitato di salute pubblica, permise all'esercito repubblicano di
bloccare l'avanzata della Prima Coalizione e di soffocare la
controrivoluzione interna. Le vittorie a Hondschoote (8 settembre),
Wattignies (16 ottobre), Wissembourg (26 dicembre) e Landau (28
dicembre) permisero di giungere alla grande offensiva della primavera
del 1794, con la quale i nemici vennero scacciati oltre i confini
nazionali. L'armata rivoluzionaria riuscì a rioccupare il Belgio, la
regione della Renania e i Paesi Bassi che nel gennaio del 1795
vennero trasformati nella Repubblica Batava. L'Europa in quel periodo
pullulava di simpatizzanti della rivoluzione, in particolar modo tra
gli intellettuali formati dall'Illuminismo che talvolta trasformarono
la lotta contro la Prima Coalizione in una guerra civile europea in
cui i francesi poterono contare su larghe simpatie all'interno degli
Stati contro cui combattevano. I Montagnardi condussero sin qui una
politica d'emergenza volta a supportare i sanculotti a discapito
della borghesia. Quest'ultima, davanti al pericolo di invasione della
Prima Coalizione con la conseguente reintroduzione dell'Ancien
Régime, non si oppose alla condotta politica montagnarda, ma con
l'affievolirsi del pericolo chiese un allentamento delle azioni di
emergenza e la fine del Terrore; i borghesi, d'altro canto, trovarono
i propri interpreti negli Indulgenti (provenienti dal Club dei
Cordiglieri, tra i quali Danton e Desmoulins), che misero in dubbio
l'utilità del Terrore. Se la borghesia protestò contro la dittatura
di Robespierre appoggiandosi agli Indulgenti, gli Arrabbiati e gli
Hebertisti (gruppi di agitatori radicali, tra i quali rispettivamente
Jacques Roux e Jacques-René Hébert) minacciarono sollevazioni
popolari contro il Comitato di salute pubblica, reclamando la
spoliazione di tutti i ricchi e spingendo la politica anticlericale
della rivoluzione a una vera e propria scristianizzazione totale
della Francia.
Culto dell'Essere supremo
Per un breve periodo Robespierre sembrò
cedere alle richieste di questi gruppi radicali ma in seguito, non
condividendo né l'ateismo né l'estremismo sociale degli Arrabbiati
e degli Hebertisti, decise di ideare un piano per eliminare tutte le
correnti politiche che minacciavano la sua popolarità e il suo
potere, con il quale avrebbe mandato ogni esponente politico nemico
alla ghigliottina: dopo un tentativo di sollevazione contro il
governo (peraltro con l'opposizione dello stesso Hébert), il 13
marzo vennero arrestati con l'accusa di complotto numerosi
Hebertisti, tra i quali lo stesso Hébert; furono giustiziati il 24
marzo. La stessa sorte toccò agli Indulgenti, tra i quali Danton e
Desmoulins, arrestati il 30 marzo e durante il processo, Danton si
difese con veemenza insultando i giudici; fu allora approvato un
decreto, su proposta di Saint-Just, che ordinò l'esclusione dai
dibattiti processuali di chiunque avesse insultato la giustizia o i
suoi rappresentanti; costretto al silenzio, Danton fu condannato a
morte insieme ai suoi sostenitori (60 di cui 11 deputati della
Convenzione), il 4 aprile.
Un decreto del 7 maggio, emanato dalla
Convenzione nazionale su istanza del Comitato di salute pubblica,
stabilì il culto dell'Essere supremo, con il quale si cercò di
sostituire il culto della Ragione ideato dagli Hebertisti.
Robespierre fu un deista, colui che ritiene l'uso corretto della
ragione un mezzo per elaborare una religione naturale e razionale
completa ed esauriente, che tuttavia riconosce l'esistenza della
divinità come base indispensabile per spiegare l'ordine, l'armonia e
la regolarità nell'universo. Basandosi su questa ideologia, aveva
fortemente attaccato le tendenze atee e la politica di
scristianizzazione degli Hebertisti e decise di opporre al loro culto
il riconoscimento dell'esistenza dell'Essere supremo e
dell'immortalità dell'anima; il culto dell'Essere supremo concepì
una divinità che non interagiva con il mondo naturale e non
interveniva nelle faccende terrene degli uomini e si concretizzò in
une serie di feste civiche, destinate a riunire periodicamente i
cittadini attorno all'idea divina, promuovendo valori come
l'amicizia, la fraternità, il genere umano, l'uguaglianza, la virtù,
l'infanzia, la gioventù e la gioia. La festa dell'Essere supremo
venne celebrata l'8 giugno. Dal palazzo delle Tuileries al Campo di
Marte l'inno all'Essere supremo, scritto dal poeta rivoluzionario
Théodore Desorgues, fu cantato dalla folla su musica di
François-Joseph Gossec. Robespierre precedette i deputati della
Convenzione, avanzando solo e indossando per la circostanza un abito
celeste cinto da una fascia tricolore. La folla immensa, venuta per
il grande spettacolo, fu incitata da Louis David. Davanti alla statua
della Saggezza, Robespierre diede fuoco a manichini che
simboleggiavano l'ateismo, l'ambizione, l'egoismo e la falsa
semplicità. Alcuni deputati derisero la cerimonia, chiacchierarono e
si rifiutarono di marciare al passo. Nonostante l'impressione
profonda prodotta da questa festa, il culto dell'Essere Supremo fallì
nel creare l'unità morale fra i rivoluzionari e contribuì anzi a
suscitare una crisi politica in seno al governo rivoluzionario.
Con l'eliminazione di tutti i suoi
grandi oppositori Robespierre restò il solo dominatore della
Francia. La dura politica di epurazione di ogni nemico della
rivoluzione proseguì e il Tribunale rivoluzionario perse anche
l'ultima parvenza di regolarità, concedendo ai giudici la condanna
degli imputati sulla base di semplici prove morali. Infatti, venne
emanata la legge del 22 Pratile anno II (10 giugno 1794), chiamata
Loi de Prairial (legge del Pratile) la quale, privando gli accusati
del diritto di difesa e di ricorso in appello, accentuava il ruolo
del Tribunale rivoluzionario e inaspriva il Terrore giacobino.
Durante questo periodo, noto come "Grande Terrore", a
Parigi persero la vita circa 1.400 persone in meno di due mesi; tra
di essi Antoine-Laurent de Lavoisier e André Chénier. Venuto meno
il pericolo di un'invasione straniera, le misure eccezionali emanate
durante il Terrore cominciarono a sembrare eccessive e
conseguentemente all'esecuzione di Danton, una delle figure più
popolari, molti cominciarono a sentirsi possibili vittime e dunque il
Terrore cominciò a perdere il sostegno popolare e dunque la sua
ragion d'essere.
Fra i membri
della Convenzione, con la paura per la propria incolumità, cominciò
a delinearsi un gruppo di oppositori a Robespierre guidati
principalmente da Joseph Fouché, Jean-Lambert Tallien e Paul Barras.
Il 26 luglio 1794, dopo una breve assenza dalla scena politica,
Robespierre si presentò alla Convenzione, dove tenne un lungo e
violento discorso con il quale ammonì sulla possibilità di una
cospirazione contro la repubblica e minacciò di condannare alcuni
deputati che avevano a suo parere agito ingiustamente e suggerì che
il Comitato di salute pubblica e il Comitato di sicurezza generale
avrebbero dovuto sottoporsi a un rinnovamento dei propri membri. Tali
minacce crearono grande agitazione all'interno della Convenzione e
molti cominciarono a immaginare chi potessero essere i deputati
destinati a essere puniti, in quanto Robespierre non menzionò alcun
nome. La maggioranza dei deputati, convinta dalla grande eloquenza di
Robespierre, inizialmente approvò il discorso ma in seguito ad
alcune proteste ritirò i suoi voti[.
Il giorno successivo Saint-Just,
portavoce di Robespierre, cominciò a parlare alla Convenzione,
venendo continuamente interrotto da violente proteste. Qualcuno
gridò: «Abbasso il tiranno!». Robespierre esitò nel replicare a
questi attacchi e dagli astanti si alzò un grido: «È il sangue di
Danton che ti soffoca!». Nel pomeriggio Robespierre, suo fratello
Augustin, Saint-Just, Georges Couthon e Philippe-François-Joseph Le
Bas furono arrestati. Vennero liberati poco dopo da un gruppo di
uomini della Comune e condotti al Municipio di Parigi, dove furono
raggiunti dai loro sostenitori; alla notizia della liberazione la
Convenzione si riunì nuovamente e dichiarò fuori legge i membri
della Comune e i deputati da questi liberati mentre la Guardia
nazionale, fedele alla Convenzione, venne affidata al comando di
Barras.
La mattina del 28 luglio la Guardia
nazionale si impadronì del Municipio senza troppe difficoltà. I
sanculotti reagirono fiaccamente in quanto erano stanchi, affamati e
convinti che la fine del Terrore avrebbe posto rimedio al blocco dei
salari imposto dalla legge del maximum. Su quello che successe a
Robespierre durante questo episodio le opinioni degli storici
divergono: qualcuno sostiene che cercò di opporre resistenza e venne
colpito da un proiettile sparato dal soldato Charles-André Merda,
che gli fracassò la mascella; altri sostengono la tesi del tentato
suicidio; un'altra ipotesi è quella dello sparo accidentale
dell'arma impugnata dallo stesso Robespierre nel momento in cui cadde
per terra durante i momenti concitati della tentata fuga. Comunque
siano andate le cose, Robespierre venne arrestato insieme con
numerosi suoi fedeli, tra cui Saint-Just, Couthon, Le Bas e suo
fratello Augustin; quest'ultimo, nel tentativo di sfuggire alla
cattura si gettò dalla finestra sul selciato, dove venne raccolto
moribondo, mentre Le Bas si suicidò sparandosi un colpo di pistola.
Il colpo di Stato che pose fine al
periodo del Terrore, che culminò all'indomani, con l'esecuzione alla
ghigliottina di Robespierre e dei suoi collaboratori il 28 luglio
1794, è noto anche come "Termidoro" o "Reazione
termidoriana". Durante il Terrore, che ebbe fine nell'estate del
1794, furono ghigliottinate circa 17.000 persone, 25.000 subirono
esecuzioni sommarie, 500.000 vennero imprigionate e 300.000 furono
poste agli arresti domiciliari: tra le vittime più significative ci
furono la regina (16 ottobre 1793), Brissot e Vergniaud (31 ottobre
1793), Bailly (12 novembre 1793), Barnave (28 novembre 1793), Hébert
(24 marzo 1794), Condorcet (suicida in prigione il 29 marzo 1794),
Danton, Desmoulins, d'Églantine (5 aprile 1794), gli stessi
Robespierre e Saint-Just, insieme a Couthon, come atto finale (28
luglio 1794).
La nuova Costituzione dell'anno III fu
votata dalla Convenzione il 17 agosto 1795 e ratificata per
plebiscito a settembre. Essa fu effettiva a partire dal 26 settembre
dello stesso anno e fondò il nuovo regime del Direttorio.
Caduto Robespierre, il principale
pericolo per la stabilità politica (e per la stessa esistenza in
vita dei deputati moderati) era rappresentato dall'eventuale reazione
montagnarda e giacobina, che si concretizzò nelle due grandi
insurrezioni del 12 germinale e 1 pratile (1º aprile e 20 maggio
1795) alla cui repressione diedero un contributo decisivo i realisti
e le loro sezioni armate di Parigi. Dopodiché l'alleanza fra
repubblicani e realisti si estese nel resto della Francia, con la
repressione ricordata come Terrore bianco.
La costituzione dell'anno III
Il Direttorio fu il secondo tentativo
di creare un regime stabile in quanto costituzionale. La
pacificazione dell'ovest e la fine della prima coalizione permisero
di stabilire una nuova costituzione; per la prima volta in Francia il
potere legislativo fu affidato a un Parlamento bicamerale, composto
da un Consiglio dei Cinquecento, formato da 500 membri e da un
Consiglio degli Anziani di 250 membri (Art. 82). Il potere esecutivo
venne affidato a un Direttorio di cinque persone nominate dal
Consiglio degli Anziani su una lista fornita dal Consiglio dei
Cinquecento; i ministri e i cinque direttori non erano responsabili
davanti alle assemblee ma essi non potevano più scioglierle; infine,
il suffragio universale maschile fu sostituito da un suffragio
censitario. Tale sistema di governo dimostrò subito i suoi limiti:
infatti, come nella costituzione francese del 1791, mancava una
procedura per la soluzione dei conflitti istituzionali, dei cinque
membri del direttorio, solo uno, Lazare Carnot era dotato di carisma
e autorevolezza, inoltre, mancando di una solida base di appoggio
popolare, fu contestato tanto dai sostenitori del Terrore quanto dai
Realisti; in sintesi, secondo Brown, fu un periodo caratterizzato da
"violenza cronica, ambivalenti forme di giustizia, ricorso
ripetuto alla spietata repressione del dissenso".
Il tentativo realista del 13 vendemmiaio
La definitiva repressione dei
montagnardi aveva reso i termidoriani liberi dalla necessità di
assicurarsi l'alleanza con i realisti, dei quali temevano la grande
forza elettorale (questi erano, sicuramente, maggioranza nel Paese,
ancorché non nell'esercito e alla Convenzione). Ciò, nell'agosto
1795, indusse la maggioranza termidoriana della Convenzione
all'approvazione del Decreto dei due terzi: i due terzi degli eletti
ai nuovi consigli avrebbero dovuto essere attribuiti a membri della
Convenzione. In tal modo, di fatto si negava ai realisti la
possibilità di assicurarsi democraticamente la maggioranza
parlamentare nelle elezioni generali programmate per il 12 ottobre.
Era una manovra probabilmente indispensabile, in quanto molte regioni
del Paese (in particolare l'Ovest, la valle del Rodano e l'Est del
Massiccio Centrale) elessero deputati realisti. Il partito
monarchico, così rinforzato, reagì con la fallimentare insurrezione
del 13 vendemmiaio (5 ottobre 1795), segnata dal grande massacro, nel
centro di Parigi, delle milizie legittimiste ribelli, operato
dall'esercito fedele alla convenzione termidoriana. La conseguente
repressione anti-monarchica fu, tuttavia, relativamente blanda.
Durante tutta la durata del Direttorio,
l'instabilità politica fu incessante. Le "reti di
corrispondenza" realiste, appoggiate ai deputati realisti e
moderati del Club di Clichy e in parte coordinate con i due fratelli
del sovrano decapitato, Luigi e Carlo (e con le potenze nemiche),
svolgevano un'efficace azione di propaganda. Tanto efficace da
consentire loro la vittoria alle elezioni del marzo-aprile 1797, per
il rinnovo di un terzo dei seggi ai due consigli. La nuova
maggioranza doveva affrontare l'opposizione del Direttorio, ove solo
due dei cinque 'direttori' propendevano dalla loro parte. I restanti
tre, Barras in testa, reagirono assicurandosi l'appoggio
dell'esercito e organizzando, nel settembre 1797, il Colpo di Stato
del 18 fruttidoro, che portò alla cacciata di due dei cinque
direttori (de Barthélemy e Carnot) e alla destituzione di 177
deputati, molti dei quali condannati alla deportazione in Guyana.
Nel maggio 1796, la società degli
Eguali, gruppo radicale, erede degli Enragés, organizzò una
congiura di tipo socialista-comunistico contro il Direttorio, che,
tuttavia, fallì completamente. Lo scopo era quello di abolire, anche
con la forza, la proprietà privata, sostenendo esplicitamente che i
frutti della terra appartengono a tutti, in modo da far scomparire
ogni differenza sociale fra gli uomini. Gli organizzatori, tra cui
François-Noël Babeuf detto Gracco, l'italiano Filippo Buonarroti e
Augustin Darthé furono arrestati e condannati a varie pene. Gracco
Babeuf e Darthé vennero condannati a morte nel 1797. Buonarroti fu
condannato all'esilio perpetuo, ma continuò l'attività cospirativa,
fondando diverse società segrete e facendo opera di proselitismo.
Gli ultimi anni del direttorio
Le successive elezioni del 1798
sembrarono dare il favore ai Giacobini: i consigli si concessero
allora il diritto di designare i deputati nella metà delle
circoscrizioni, fatto che permise ai Termidoriani di mantenersi il
potere, ma furono totalmente screditati.
La situazione economica contribuì
anche a distogliere i francesi dal regime: infatti, non bastando il
gettito delle imposte e con il valore degli assegnati praticamente
nullo, il governo istituì una nuova moneta, il "mandato
territoriale", che, tuttavia, si svalutò ben presto.
A partire dal 1797, lo Stato chiese ai
contribuenti di pagare le imposte in denaro contante, ma con la crisi
finanziaria la moneta metallica si era rarefatta. Dopo gli anni
dell'inflazione legata all'assegnato, la Francia conobbe un periodo
di abbassamento dei prezzi che toccò soprattutto il mondo rurale:
incapace di far fronte all'enorme debito accumulato dalla monarchia
assoluta e in otto anni di rivoluzione, le assemblee si rassegnarono
alla bancarotta dei "due terzi": la Francia rinunciò a
pagare i due terzi del suo debito pubblico ma consolidò l'ultimo
terzo iscrivendolo nel gran libro del debito; infine, per sembrare
credibile agli occhi dei creditori, nel 1798 venne creata una nuova
imposta sulle porte e sulle finestre. I gendarmi furono precettati
per coprire l'imposta.
Grazie agli sforzi del Comitato di
salute pubblica, le armate francesi riuscirono a contrattaccare e,
nella primavera del 1796, una grande offensiva attraversò la
Germania per costringere l'Austria alla pace. Tuttavia fu l'armata
d'Italia, comandata dal giovane generale Napoleone Bonaparte, che
fece la differenza grazie a sempre nuove vittorie e costringendo
l'Austria a firmare la pace col Trattato di Campoformio del 17
ottobre 1797. Tra il 1797 e il 1799 quasi tutta la penisola italiana
fu trasformata in repubbliche sorelle (in Italia chiamate anche
"repubbliche giacobine") con dei regimi e delle istituzioni
ricalcate su quelle francesi. Se le vittorie giovarono alle finanze
del Direttorio, esse resero il potere sempre più dipendente
dall'esercito e così Bonaparte divenne l'arbitro del dissenso
politico interno. La spedizione in Egitto aveva l'obiettivo di
impedire la via delle Indie al Regno Unito, ma i Direttori furono
contenti di togliere il loro sostegno a Napoleone, che non nascondeva
di ambire al potere.
La moltiplicazione delle repubbliche
sorelle inquietò le grandi potenze, Russia e Regno Unito in testa.
Esse temevano il contagio rivoluzionario e una troppo forte
dominazione della Francia sull'Europa. Questi due Stati furono
all'origine della seconda coalizione del 1798. Le offensive inglesi,
russe e austriache furono respinte dalle armate francesi dirette da
Brune e Masséna, ma l'Italia fu in gran parte persa e i risultati
della campagna di Bonaparte resi vani. Era ormai chiaro che il popolo
francese cercava un nuovo uomo forte per difendere le sorti della
Repubblica poiché il Direttorio era inesorabilmente corrotto e
cominciava a tramare con Luigi XVIII per restaurare il trono dei
Borbone. Allarmato da queste notizie e conscio che la sua ora era
giunta, Napoleone tornò dall'Egitto e assunse il comando del
complotto che mirava a rovesciare il Direttorio e tessuto tra gli
altri da Sieyès e dal fratello di Napoleone, Luciano Bonaparte,
presidente dell'Assemblea dei Cinquecento.
Il 9 novembre 1799 il colpo di Stato
detto "del 18 Brumaio" rovesciò il Direttorio e instaurò
un triumvirato retto dai consoli Bonaparte, Sieyès e Ducos.
Napoleone proclamò in quella sede l'atto di chiusura della
rivoluzione: «Citoyens, la révolution est fixée aux principes qui
l'ont commencée, elle est finie» (Cittadini, la rivoluzione è
fissata ai principi che l'hanno avviata, essa è conclusa). Fu messo
in piedi il Consolato: un regime autoritario diretto da tre consoli,
di cui solo il primo deteneva realmente il potere. Nel 1804 Napoleone
ruppe gli indugi facendosi plebiscitariamente nominare "imperatore
dei francesi", con il nome di Napoleone I, di fatto restaurando
la monarchia, anche se costituzionale e di tipo nuovo. La Francia
cominciò un nuovo periodo della sua storia apprestandosi a
consegnare il proprio destino a un imperatore. La Rivoluzione, di
fatto già terminata nel 1799, poté dirsi conclusa e cominciava
l'epoca napoleonica.
Nonostante l'alto costo umano (circa
600.000 morti) e materiale di quella che fu anche una vera e propria
guerra civile, la rivoluzione ottenne significativi risultati
nell'eliminare un sistema secolare, resistente a tutto se non a un
enorme sconvolgimento come quello rivoluzionario, l'Antico Regime. Il
giudizio della maggioranza degli storici odierni vede la rivoluzione
come necessità storica, dato che si era giunti alle soglie del XIX
secolo con privilegi medievali garantiti a una minoranza della
popolazione, pur riconoscendo i molti eccessi che la
caratterizzavano. Tra gli obiettivi raggiunti e i principi fissati
dalla rivoluzione:
La Dichiarazione dei diritti
dell'uomo e del cittadino
Una Costituzione scritta
I tre poteri, legislativo,
esecutivo, e giudiziario separati e tra di loro indipendenti.
Elezione dei rappresentanti e
sovranità popolare
Poteri locali uniformi
Eguaglianza di tutti i cittadini
di fronte alle imposte
Uniformità di applicazione del
carico fiscale in tutto il paese
Imposte dirette a carico di tutti
i cittadini
Giustizia gratuita, amministrata
da un solo potere
Abolizione della tortura
Norme giuridiche e pene uguali per
tutti
Norme di diritto uniformi in tutto
il paese
Abolizione dei diritti feudali
Abolizione delle dogane interne
Adozione del sistema metrico
decimale
Abolizione delle corporazioni e
libera concorrenza
Abolizione delle decime e dei
privilegi clericali
Separazione totale tra Stato e
Chiesa
Abolizione della religione di
Stato
Istruzione laica e pubblica
Misure per le classi più deboli
Abolizione della schiavitù
Abolizione dei cosiddetti "reati
immaginari" (omosessualità, eresia e stregoneria)
Abolizione della segregazione
razziale degli ebrei