In Europa, la storia della parrucca
inizia con la sifilide che imperversava intorno al 1580.
William Clowes,
medico del XVII secolo, scriveva
di una “moltitudine infinita” di pazienti con la sifilide che a
quel tempo intasavano gli ospedali di Londra. Gli antibiotici ancora
non esistevano e i malati mostravano i segni della malattia: ferite
aperte, eruzioni cutanee, cecità, demenza e la perdita di capelli
a chiazze”.
Quest'ultimo problema era considerato
molto imbarazzante; una testa calva poteva danneggiare la reputazione
di una persona, mentre una figura con i capelli lunghi, rappresentava
uno status symbol.
Le vittime della sifilide cominciarono
a nascondere la calvizie con parrucche incipriate al profumo di
lavanda o arancio per coprire eventuali cattivi odori. Col tempo le
parrucche divennero un accessorio molto richiesto ed elaborato.
Ho una storia sulle parrucche che
capita proprio a fagiolo:
Ci fu un tempo in cui le parrucche
andavano di gran moda ed erano un simbolo di elevata classe sociale.
Le portavano i nobili, il re e le persone benestanti. Solo la povera
gente ne era sprovvista, ma a dire il vero, non se ne accorgeva
molto, nella sua lotta quotidiana per sbarcare il lunario.
Perché nel tempo si è persa l’usanza
di portare la parrucca? Come dicono i libri di storia, con la
Rivoluzione francese “caddero” molte teste e con esse anche le
parrucche. Ma quella che vado a raccontare è la storia di una
parrucca speciale.
L’aveva creata a mano un artigiano
fiorentino in una notte di luna piena, quando si dice che ogni
desiderio si realizzi. Egli aveva annodato un capello per volta alla
retina di supporto, borbottando, a ciascun nodo: “Questo per i
notai, questo per i preti, questo per i giudici” e così via.
Ne era risultata una parrucca
dignitosa. Non una di quelle cose barocche e ricciolute in uso presso
le corti del ‘700; no, era una parrucca di aspetto molto più
modesto, ma di buona fattura e destinata a durare. Era stata esposta
in vetrina su una testa in gesso per lungo tempo, però nessuno
l’aveva acquistata, forse perché le preferenze andavano a modelli
più appariscenti o a colori diversi.

Alla fine la parrucca divenne un fondo
di magazzino, dimenticata nell’angolo polveroso di uno scaffale. Il
negozio passò di mano diverse volte e quando, dopo molti anni, venne
smantellato, la merce invenduta fu buttata insieme alla spazzatura.
Giuseppe era un senza tetto. Un
barbone, insomma. Non ricordava nemmeno come fosse finito a vivere
per la strada. Un tracollo economico, creditori che non gli davano
tregua… A un certo punto, Giuseppe aveva lasciato tutto, anche la
famiglia, e si era ritrovato sulla strada.
Non era il solo, la crisi stava
mietendo molte vittime: persone che restavano senza lavoro e non
riuscivano più a tirare avanti. Era facile vederle rovistare fra gli
avanzi degli ortaggi, alla chiusura dei mercati rionali, gli occhi
bassi, nel tentativo di non farsi notare. O facevano la fila, alla
mensa di qualche associazione religiosa che distribuiva pasti ai
bisognosi.
Giuseppe riceveva occasionalmente dai
passanti una moneta o un vecchio indumento. Quello che non gli andava
bene, lo regalava a sua volta a qualche altro sfortunato. Prima non
le vedeva neppure queste persone che vivevano ai margini della
società. Prima era stato un uomo impegnato. Sembrava non esserci mai
abbastanza tempo per tutto e finiva per trascurare anche le cose
importanti, come la sua famiglia.
Adesso aveva tanto tempo libero. Fin
troppo, a dire il vero, e così a volte si metteva a osservare la
gente. Si era fatto, nella testa, un casellario dove metteva
ordinatamente tutti quelli che vedeva passare. Riconosceva subito le
varie tipologie: il bottegaio frettoloso che mentalmente contava i
soldi guadagnati durante la giornata, il giovane insofferente della
famiglia, l’uomo d’affari sicuro di sé, l’operaio che tornava
stanco dal lavoro. Quello forse era un giudice o un notaio e
quell’altro era sicuramente un professore. Quanta umanità passava
davanti ai suoi occhi ogni giorno!
Giuseppe sapeva che la gente buttava un
sacco di cose ancora utili e così faceva visita regolarmente ai
cassonetti in fondo alla strada. Un giorno vi trovò dentro un paio
di scarpe in buono stato e poi incappò in un oggetto peloso che gli
ci volle qualche secondo per capire che era - ma pensa un po’ te -
una parrucca! Non ne aveva mai veduta una prima e la prese con una
certa curiosità; poi si ritirò nel suo angolo di marciapiede a
studiare i suoi nuovi tesori.
Scoprì che una delle scarpe in realtà
aveva un buco nella suola, ma col bel tempo sarebbero andate benone.
Quanto alla parrucca, capì che era di foggia antica e restò
affascinato dalla fattura artigianale minuziosissima. Ogni capello
pareva annodato singolarmente; inoltre, sembravano proprio capelli
veri. Insomma, era un oggetto che, a trovare un estimatore, poteva
anche rendergli qualcosa.
Nel frattempo però decise di tenerla,
perché non ne aveva mai posseduta una. In effetti, erano tante le
cose che non possedeva. Ecco, se avesse potuto scegliere, in quel
momento avrebbe voluto essere… un bel parroco di campagna, di
quelli rubizzi e allegri, con una buona parola per tutti e la
perpetua in cucina a preparare manicaretti.
Nel fare questi pensieri, Giuseppe
aveva armeggiato con la parrucca, cercando il verso giusto per
provarla, così, per curiosità. Non appena l’ebbe indossata,
avvenne qualcosa di straordinario: intorno a lui tutto cambiò. Non
si trovava più su un marciapiede cittadino, ma in una chiesa. E
stava parlando! “Cari fratelli, la messa è finita, andate in
pace.”
Ommioddio, cos’era successo? Giuseppe
era sconvolto, ma non lo dava a vedere. Anzi, se ne stava sul
sagrato, sorridente, a salutare i fedeli, come se fosse una cosa del
tutto naturale. Quando finalmente poté ritirarsi, si lasciò cadere
su una sedia della sacrestia, riflettendo furiosamente. Cos’era
accaduto?
Stava provando la parrucca e aveva
espresso il desiderio di essere un parroco di campagna. Possibile che
la parrucca avesse il potere di trasformare chi la indossava?
Giuseppe capì che l’unico modo per assicurarsene era esprimere un
altro desiderio. “Voglio fare il giudice!” esclamò. Detto e
fatto. Ora la parrucca era davvero appropriata. Si abbinava
perfettamente alla toga che indossava e lui si sentiva proprio a suo
agio sullo scranno da giudice.
La prima udienza quel giorno trattava
il caso di un giovane che stava accumulando un numero inverosimile di
contravvenzioni non pagate; poi seguirono ladri, spacciatori… ma,
non c’era fine alle miserie umane? Giuseppe si rese presto conto
che il ruolo di giudice era pieno di responsabilità e troppo
stressante.
“Voglio fare il notaio!” decise.
Quella sì che doveva essere una vita comoda. In fondo, i notai non
fanno altro che apporre firme, pensò. Eccolo dunque, in un elegante
studio notarile, a ricevere clienti. In una giornata, regolò la
vendita di alcune case, lesse un paio di testamenti agli eredi e
firmò carte su carte. Insomma, una noia mortale. Non era vita
quella!
Lui voleva qualche avventura, che so,
una traversata oceanica in solitudine. Nooo, era solo un’idea!
Invece si trovava già in mezzo ai marosi. Troppa fretta! Quella
parrucca non dava il tempo di riflettere. Meglio togliersi da lì,
prima che la tempesta peggiorasse. “Voglio tornare a casa. Sì,
rivoglio la mia famiglia, il mio lavoro. Non voglio essere una
persona importante. Voglio solo tornare a casa mia.”
Giuseppe si svegliò nel suo letto.
Dalla cucina giungevano un buon profumo di caffè e il
chiacchiericcio della moglie con la sua bambina. Allora era stato
solo un sogno, fare il barbone e poi tutti quei cambiamenti. Per
fortuna era stato solo un sogno! Si alzò dal letto, andò in bagno e
si avvicinò al lavandino.
La sua faccia impaurita lo guardò
dallo specchio. La parrucca gli pendeva da un lato sulla testa.
Doveva disfarsene, nasconderla, almeno. Ora che aveva ritrovato la
sua famiglia, non voleva perderla di nuovo. Giuseppe ficcò la
parrucca in una vecchia scatola da scarpe vuota che spinse in cima
all’armadio.
Ci avrebbe pensato più tardi. In quel
momento desiderava solo raggiungere la moglie e la sua piccola in
cucina. Non vedeva l’ora di riabbracciarle.