Jean-Paul Marat,
detto l'Amico del popolo
(Boudry, 24 maggio 1743 –
Parigi, 13 luglio 1793), è stato un politico, medico, giornalista e
rivoluzionario francese di origini sardo-svizzere. Tra i protagonisti
della Rivoluzione francese, che egli sostenne con la sua attività
giornalistica, politicamente vicino ai Cordiglieri, fu deputato della
Convenzione nazionale francese dal 20 settembre 1792 e, dal 5 aprile
1793, fu eletto presidente del Club dei Giacobini. Fu assassinato
dalla girondina Charlotte Corday.
Il padre, Giovanni Mara, era un
ex-frate sardo dell'Ordine di Santa Maria della Mercede, nato a
Cagliari intorno al 1705, il quale, in seguito alla sua conversione
alla fede calvinista, si rifugiò a Ginevra nel 1740, dove ottenne la
cittadinanza. Qui sposò la sedicenne svizzera Louise Cabrol, nata a
Ginevra da un parrucchiere svizzero figlio di ugonotti francesi
originari delle Cevenne. Trasferitosi poi con la famiglia a Boudry,
Jean-Baptiste Marat esercitò l'attività di disegnatore di «indiane»
nella locale manifattura di tessuti; poi, dal 1755, divenne
insegnante di lingue a Neuchâtel, dove studiarono anche i suoi
figli.
I due coniugi ebbero sette figli:
Marianne (1741), Jean-Paul (1743), Henri (1745), Marie (1746), David
(1756), Albertine (1760) e Jean-Pierre (1767). Henri emigrò in
Russia, sotto il nome di De Boudry, insegnando letteratura francese
nel prestigioso liceo di Carskoe Selo, dove ebbe tra i suoi allievi
Alexander Puškin, che di lui dirà che cercava di insegnare le idee
del celebre fratello. Idee radicali condivise anche dagli altri
fratelli: David partecipò ai moti democratici che scossero Neuchâtel
dal 1776, e perdette un occhio durante una manifestazione; studiò
poi teologia e divenne pastore, mentre Jean-Pierre, orologiaio a
Ginevra, si fece notare per le sue idee politiche radicali e ospitò
nella sua casa Filippo Buonarroti.
Quanto alle sorelle Marianne e
Albertine, rimaste nubili, esse dimostrarono la loro devozione a
Jean-Paul quando, subito dopo il suo assassinio, si trasferirono a
Parigi e vissero insieme alla sua convivente, Simone Evrard.
Sarà Jean-Paul a modificare nel 1773
il cognome di famiglia in Marat. Il padre Jean ne spiegò il motivo:
il figlio aggiunse una t per non essere confuso con un altro ramo dei
Mara, residenti in Irlanda. Jean-Paul era un ragazzo vivace e
intraprendente. Conclusi gli studi secondari, nel 1760 scrisse a
Luigi XV offrendosi di partecipare alle spedizioni per Tobol'sk, in
Siberia, organizzate dall'Académie des Sciences di Parigi, per
osservare il passaggio del pianeta Venere dinnanzi al Sole - utile
per calcolare la distanza tra la Terra e il Sole -, previsto nel 1761
e nel 1769.
Non ricevette nemmeno risposta e
ripiegò su un impiego di precettore dei figli di Paul Nairac,
armatore di Bordeaux e futuro deputato degli Stati generali. In
realtà era un pretesto per allontanarsi da Boudry e pagarsi gli
studi di medicina, ma già nel 1762 Marat lasciò l'Università di
Bordeaux per quella di Parigi, mantenendosi con l'esercizio della
professione medica - bastava allora essere studente di medicina - ma
frequentando anche le biblioteche della capitale, occupandosi di
scienza, di storia, di letteratura e iniziando a scrivere un romanzo,
Les chaînes de l'esclavage (Le catene della schiavitù).
Nel 1765 lasciò improvvisamente la
Francia per Londra, forse confidando nella superiore vivacità
dell'ambiente scientifico inglese, nelle maggiori possibilità che
quella società offriva ai giovani di buona volontà e forse anche
perché ammirava ancora, nel solco del pensiero illuminista, la
società e le istituzioni inglesi. Intanto, però, la scarsa
clientela gli permetteva di condurre soltanto un'esistenza precaria,
passata frequentando gli ambienti dell'emigrazione: qui conobbe anche
due artisti italiani, il pittore veneziano Antonio Zucchi - che nel
1781 diventerà il marito della famosa pittrice Angelika Kauffmann,
allora già in Inghilterra e frequentata anche da Marat - e
l'architetto Giovanni Bonomi, i quali lo aiutarono più volte a
superare le maggiori difficoltà. Continuò la scrittura del suo
romanzo, ne iniziò un altro, Les aventures du jeune comte Potowski
(Le avventure del giovane conte Potowski), scritto in forma
epistolare e di quel genere filosofico caro agli illuministi, e mise
mano a un Essai sur l'âme humaine (Saggio sull'anima umana).
A Londra Marat venne subito preso dalla
passione per la politica. Nel 1768 l'opinione pubblica seguiva con
grande partecipazione le vicende politiche e giudiziarie di John
Wilkes, un popolare riformatore inviso al re Giorgio III e al suo
ministro George Grenville, finito in carcere per gli articoli
polemici pubblicati nel suo giornale «North Briton». Marat
assistette, il 10 maggio, alla sanguinosa repressione di una protesta
popolare in suo favore svoltasi davanti al carcere di Saint George,
ricevendone una forte impressione. Con tutto ciò, la libertà di
espressione di cui godeva la stampa inglese non era nemmeno
paragonabile con quella francese ed europea in genere, così come la
possibilità di dibattere temi politici e civili nelle accese
riunioni tenute nei club, alle quali partecipava anche Marat:
un'altra esperienza di cui Marat farà tesoro al suo ritorno in
Francia.
Nel 1770 riuscì a ottenere un impiego
di medico veterinario a Newcastle e concluse il romanzo Les aventures
du jeune comte Potowski che sarà pubblicato soltanto postumo, nel
1848, nel breve intermezzo della Repubblica francese.
Il romanzo non ha valore
letterario, ma può interessare lo storico perché in esso si trovano
espresse le idee politiche del giovane Marat, prese da Montesquieu e
da Rousseau, che non coincidono affatto con quelle degli
enciclopedisti: Marat non accetta il dispotismo illuminato caro a
Voltaire; per lui i re non devono essere «sovrani», ma «soltanto
gli amministratori delle entrate pubbliche: come scusarli quando se
ne fanno proprietari e le dissipano in scandalose prodigalità?»;
devono essere virtuosi, ma «sono i primi a traviare le donne e i
loro sudditi»; dovrebbero governare in pace il loro popolo e «lo
sacrificano ai loro desideri, al loro orgoglio, ai loro capricci»;
devono essere ministri della legge e invece «se ne fanno padroni,
non vogliono vedere nei loro sudditi niente altro che schiavi».
Nel romanzo si esamina in particolare
la situazione della Polonia, ancora indipendente ma prossima ad
essere spartita dagli «illuminati» sovrani Caterina II, Federico II
e Maria Teresa: malgrado la Costituzione vigente, del resto «infame»,
in Polonia «il lavoro, la miseria e la fame spettano alla
moltitudine, mentre l'abbondanza e le delizie spettano a una
minoranza», in essa «non vi sono che tiranni e schiavi», causa
dell'ozio dei pochi e della miseria dei molti, poiché «soltanto
nella libertà e nell'agiatezza le capacità possono svilupparsi»,
diversamente gli uomini saranno «generalmente ignoranti e stupidi, e
le scienze, le arti, il commercio non potranno fiorirvi».
Nel dicembre del 1772 Marat fece
stampare, anonima, la traduzione inglese della prima parte del suo
saggio sull'anima umana, An Essay on the Human Soul, che venne però
stroncato dall'autorevole «Monthly Review» come «puerile ma
promettente». Nel marzo successivo esce, ancora anonimo, il saggio
completo A philosophical Essay on Man, being an attempt to
investigate the Principles and Laws of the reciprocal Influence of
the Soul and Body (Saggio filosofico sull'uomo, tentativo di indagare
i principi e le leggi della reciproca influenza dell'anima e del
corpo). Questa volta il saggio ebbe successo, e ricevette
l'apprezzamento del «Monthly Review», del «Gentleman's Magazine»
e del professore di Cambridge Collignon, mentre il conte Puškin,
ambasciatore russo a Londra, sollecitato da un mentore di Marat, lord
Lyttelton, gli offrì un gratificante impiego in Russia che tuttavia
Marat rifiutò.
L'intento del suo scritto è la
comprensione dell'uomo, in quanto unione di corpo e di spirito. Marat
intende procedere dall'esperienza, diversamente da quel che altri
hanno fatto: «hanno inventato dei sistemi, vi hanno spiegato i
fenomeni e si sono sforzati di sottomettere la natura alle loro
opinioni». Pur partito da questa critica alla metafisica cartesiana,
egli accoglie di Cartesio proprio la concezione delle due sostanze,
la res cogitans e la res extensa, per «svelare l'anima attraverso
gli organi in cui essa è racchiusa, osservare l'influenza della
sostanza materiale sulla sostanza pensante e quindi distinguere ciò
che è proprio di essa da ciò che è soltanto un suo riflesso».
Concepito il corpo come «una macchina
molto complicata», inizia a descriverla come «una macchina
idraulica, costituita da canali e da fluidi», passando poi a
considerarlo sotto diversi rapporti meccanici: «alla descrizione
della macchina segue sempre la spiegazione del suo meccanismo».
Una volta stabilite - da anatomista -
le funzioni del corpo, Marat ritiene che spetti al metafisico «porre
le basi» dell'anima, per quanto non con ricerche «sottili e
ridicole di cui tanti eruditi si sono vanamente occupati», ma con
esami che abbiano la stessa evidenza delle osservazioni fisiche. Dopo
aver esaminato separatamente le due sostanze del corpo e dell'anima,
occorrerà «considerare queste due sostanze unite tra loro, per
pervenire alla spiegazione dei meravigliosi fenomeni della loro
reciproca influenza».
I rapporti reciproci tra anima e corpo
sono tenuti, secondo Marat, mediante un fluido che ha la duplice
natura di essere tanto un'essenza sottile - lo «spirito animale» -
quanto un fluido gelatinoso, o «linfa nervosa». E come Cartesio si
era posto il problema della sede dell'anima nel corpo, ipotizzandola
nella ghiandola pineale, così Marat ipotizza che la sede dell'anima
umana risieda nelle meningi, le membrane che rivestono il cervello e
il sistema nervoso.
Lo scritto è dunque influenzato, per
diversi motivi, tanto da Cartesio quanto da de La Mettrie e da
Condillac: a David Hume, a Pascal, a Voltaire rimprovera i «pomposi
sproloqui» con i quali hanno affrontato l'argomento e a Helvétius
la mancanza di serie conoscenze di fisica e di anatomia.
Nel maggio del 1777 Voltaire pubblicò
un articolo nel «Journal de politique et de littérature»,
prendendosi gioco di quel «genio tanto splendente» che pretendeva
di aver «trovato la casa dell'anima». La replica di Marat non fu
pubblicata da La Harpe, il volterriano responsabile della rivista -
mentre Diderot, nei suoi Élements de physiologie, pubblicati
soltanto un secolo dopo, pur avanzando riserve, ebbe parole di
apprezzamento per lo scritto di Marat.
Con l'approssimarsi delle elezioni per
il rinnovo del Parlamento, nel 1774 Marat intervenne anonimamente
pubblicando dei Discorsi dove, scrivendo da inglese, attacca la
Costituzione vigente che «porta l'impronta della servitù» perché
consente di eleggere soltanto deputati provenienti «da un'unica
classe», i possidenti, che non si preoccupano certamente del bene di
tutti i cittadini. In maggio, pubblicò ancora un saggio, iniziato
già dieci anni prima e ora adattato al pubblico inglese, A Work
wherein the clandestine and villainous attempts of princes to ruin
liberty are pointed out (Opera in cui s'illustrano i sotterranei e
scellerati tentativi dei prìncipi di cancellare la libertà), che
egli pubblicherà poi in francese col titolo più noto Les chaînes
de l'esclavage (Le catene della schiavitù).
L'opera ha un'ispirazione rousseauiana:
Marat vede uno sviluppo in più fasi delle società. L'epoca
dell'infanzia è quella in cui i popoli sono animati dal coraggio,
dal disprezzo del dolore, dall'amore dell'indipendenza; nell'epoca
della giovinezza si sviluppa il talento militare e uno «Stato
formidabile all'esterno e tranquillo all'interno»; con la maturità
si sviluppano «il commercio, le arti del lusso, le belle arti, le
lettere, le scienze speculative, le raffinatezze del sapere, della
cortesia, della mollezza». Da questo momento inizia la vecchiaia
delle nazioni e il loro declino: «i popoli perdono insensibilmente
l'amore per l'indipendenza [...] il piacere della mollezza li
allontana dal tumulto degli affari [...] mentre una massa di nuovi
bisogni li getta a poco a poco in una condizione di dipendenza da un
padrone [...] tale è la loro discesa nella servitù, per il semplice
volgersi degli eventi».
L'instaurazione del dispotismo avviene
dapprima insensibilmente: «con la scusa di innovare, i principi
gettano le basi del loro iniquo dominio». Il tempio della libertà
non viene abbattuto brutalmente, ma minato cominciando con il
«portare sordi attacchi ai diritti dei cittadini», avendo cura di
nascondere l'odiosità dei provvedimenti, «alterando i fatti e dando
bei nomi alle azioni più criminali». Apparentemente accettabili,
queste prime riforme «nascondono conseguenze di cui dapprima non ci
si avvede, ma di cui non si tarda ad approfittare, traendone i
vantaggi previsti». Altre volte il principe, con il pretesto di
risolvere crisi allarmanti da lui stesso preparate, «propone
espedienti disastrosi che copre con il velo della necessità,
dell'urgenza delle circostanze, dei tempi infausti. Egli vanta la
purezza delle sue intenzioni, fa risuonare le grandi parole
dell'amore del pubblico bene e proclama le attenzioni del suo amore
paterno». Nessuno ha più la forza di opporsi, anche intuendo il
«nascosto, sinistro disegno. E quando la trappola scatta, non c'è
più il tempo di evitarla».
Una volta instaurato, il dispotismo si
conserva opprimendo la libertà di stampa, utilizzando la religione -
«tutte le religioni danno una mano al dispotismo, tuttavia non ne
conosco nessuna che lo favorisca tanto quanto quella cristiana» - e
l'esercito, che diviene un corpo separato dalla nazione, devoto al
principe, i cui soldati, chiusi nelle caserme, sono allontanati dal
consorzio dei cittadini e a loro «si ispira il disprezzo per ogni
condizione diversa da quella militare [...] abituati a vivere lontani
dal popolo, essi ne perdono lo spirito; abituati a disprezzare il
cittadino, ben presto non chiedono che di opprimerlo».
Un'altra forza al servizio del
dispotismo è l'insieme delle «compagnie di commercianti, di
finanzieri, di traitants, di pubblicani, di accaparratori, di agenti
di cambio, di speculatori di borsa, di affaristi, di esattori, di
vampiri e di pubbliche sanguisughe». Le stesse differenze sociali
sono sfruttate a vantaggio del tiranno: «dalla classe degli
indigenti egli trae quelle legioni di satelliti stipendiati che
formano le armate di terra e di mare; quei nugoli di alguazil, di
sbirri, di bargelli, di spie e di delatori assoldati per opprimere il
popolo [...] dalla classe degli opulenti sono tratti gli ordini
privilegiati, i titolari, i dignitari, i magistrati e anche i grandi
funzionari della corona».
I regimi dispotici non sono tuttavia
invincibili. Se la gran massa dei cittadini non può vigilare sulla
propria libertà, occorre che nello Stato vi siano uomini «che
seguano gli intrighi del governo, che svelino i suoi progetti
ambiziosi, che gettino l'allarme [...] che scuotano la nazione dal
letargo [...] che si curino d'indicare colui sul quale deve cadere
l'indignazione pubblica». Guai al Paese «in cui il principe è
potente e pieno d'iniziative, nel quale non vi siano né pubbliche
discussioni, né effervescenza, né partiti»: queste occorrono,
affinché «la libertà si veda uscire senza posa dai fuochi della
sedizione».
Il libro ebbe scarso successo e Marat
pensò di essere stato boicottato. Il 15 luglio 1774 ricevette
l'attestato di membro della Grande Loggia massonica di Londra e in
ottobre un altro attestato dalla Gran loggia di Amsterdam, dove si
era recato per curare la pubblicazione in francese del suo Saggio
sull'uomo. Massone, fu membro della Loggia parigina "Les Neufs
Soeurs", del Grande Oriente di Francia. Tornato in Inghilterra,
pubblicò a Londra An Enquiry into the Nature, Cause and Cure of a
singular Disease of the Eyes (Indagine sulla natura, la causa e la
cura di una singolare malattia agli occhi), analizzando alcuni casi
di innaturale presbiopia, a suo avviso provocati dall'uso improprio
di cure mediche a base di mercurio, e An Essay on Gleets (Saggio
sulla gonorrea), un testo ancor oggi apprezzabile, nel quale
criticava il tradizionale metodo di cura del chirurgo francese
Jacques Daran proponendo dei miglioramenti.
Grazie all'intercessione di alcuni suoi
amici medici, il 30 giugno 1775 Marat ottenne la laurea di dottore in
medicina dall'Università Saint-Andrew di Edimburgo. Ma restando
precarie le sue condizioni economiche, decise di lasciare
l'Inghilterra e il 10 aprile 1776 si stabilì a Parigi.
Per molti mesi la sua condizione di
medico con pochi clienti non conobbe mutamenti, ma nel 1777 si ebbe
la svolta nella sua carriera scientifica: la giovane marchesa Claire
de Choiseul de l'Aubespine de Châteauneuf (1751-1794), da cinque
anni affetta da una malattia - forse una polmonite - contro la quale
tutti i medici si erano dimostrati impotenti, guarì grazie a un
preparato di Marat, il quale si guadagnò la fama di «medico degli
incurabili» e la riconoscenza amorosa della nobildonna che lo
raccomandò a corte, dove il fratello del re, il conte d'Artois, il
24 giugno 1777 lo nominò medico delle sue guardie del corpo. Poté
così lasciare la sua modesta abitazione di rue Coq-Héron e
trasferirsi in un ampio appartamento di rue Bourgogne, vicino a
quello della marchesa il cui marito Maximilien de Châteauneuf, del
resto, gli era anch'egli molto riconoscente.
I suoi redditi aumentarono di colpo, in
virtù dell'alto costo dei suoi onorari e delle vendite della sua
«Eau factice antipulmonique» che fu però ritirata dal mercato dopo
che, analizzata dall'abate Tessier, noto chimico parigino, si rivelò
semplice acqua ricca di calcio. L'incidente non diminuì tuttavia il
suo prestigio e la sua clientela e Marat, oltre a mantenere la
relazione con la marchesa d'Aubespine e il suo incarico presso il
conte d'Artois, continuò a dichiararsi nemico del dispotismo e a
occuparsi di politica e di diritto. Quando un anonimo «amico
dell'umanità» - sembra Federico II attraverso Voltaire - offrì il
15 febbraio, sulla Gazette de Berne, un premio di cinquanta luigi al
miglior estensore di un nuovo progetto di legislazione penale, Marat
si mise subito al lavoro.
Il premio andrà all'Abhandlung von der
Kriminalgesetzgebung dei due giuristi tedeschi Hans Ernst von Globig
e Johann Georg Huster: tuttavia Marat fece stampare, anonimo e a sue
spese, nel 1780, a Neuchâtel, il suo Plan de législation criminelle
che, conosciuto a Parigi, venne subito censurato a tal punto che
l'autore preferì mandare al macero le copie restanti. Il testo
originale sarà nuovamente stampato a Parigi nel 1790.
Nel libro Marat faceva derivare ancora
da Rousseau l'impianto della propria teoria sociale: «gli uomini si
sono riuniti in società solo per il loro comune interesse», non per
l'interesse di una loro parte, e in particolare «rinunciarono alla
comunità primitiva dei beni per possederne come propria ciascuno una
parte». Se pertanto avviene, per l'incuria dello Stato, che nel
tempo le ricchezze si accumulino nelle mani di pochi, gli altri,
ridotti in miseria, non sono tenuti più a rispettare le leggi
sottoscritte: «se la società li abbandona, essi tornano allo stato
di natura, sicché quando rivendicano con la forza diritti che hanno
potuto alienare solo per assicurarsi vantaggi più grandi, ogni
autorità che vi si opponga è tirannica e il giudice che li condanni
a morte non è che un vile assassino». Lo Stato ha dunque il diritto
di far rispettare le sue leggi solo dopo che abbia provveduto ad
assicurare a ciascuno la libertà dal bisogno.
Un delitto comune come il furto
presuppone il diritto di proprietà, e Marat si chiede da dove derivi
questo diritto. Esclusa la legittimità di una proprietà derivante
dal diritto del più forte e di quello del primo occupante, anche il
diritto di testare viene a essere illegittimo, perché non si può
trasmettere quello che non ci appartiene. Al coltivatore appartiene
di diritto solo il frutto del proprio lavoro, ma in realtà non
appartiene di diritto la terra, «che fu data in comune a tutti i
suoi abitanti». Solo un'eguale ripartizione della terra sarebbe
stata legittima, e solo su quella parte necessaria a garantire
l'esistenza ciascuno potrebbe avanzare diritti: «ecco il fondamento
legittimo di ogni proprietà tanto nello stato sociale quanto nello
stato di natura».
Stabilito in questi limiti il diritto
alla proprietà, gli altri diritti civili fondamentali sono la
sicurezza personale contro ogni oppressione e la libertà
individuale, «che racchiude il giusto esercizio di tutte le facoltà
fisiche e morali». Marat non crede alla possibilità di
un'eguaglianza assoluta fra tutti i cittadini, «che non c'è neanche
in natura», essendo diverse in ciascuno la sensibilità,
l'intelligenza, l'abilità, la forza, ma «non deve trovarsi altra
disuguaglianza tra le ricchezze se non quella che risulta
dall'ineguaglianza delle facoltà naturali», e la legge deve fissare
limiti invalicabili.
In una società in cui le ricchezze -
anche quando derivino dal lavoro e dalla capacità - non siano state
limitate, lo Stato deve assicurare a chi ha poco o nulla il
necessario per vivere, per curarsi e allevare i figli, ma non deve
nulla «al fannullone che si rifiuti di lavorare». In una società
dove le ricchezze sono fortemente ineguali e frutto «dell'intrigo,
della ciarlataneria, delle malversazioni, delle vessazioni, delle
rapine», esse vanno redistribuite tra i cittadini che mancano di
tutto. E Marat ripete un concetto già espresso: «qualsiasi autorità
vi si opponga è tirannica».
Marat aveva impiantato in casa un
laboratorio dove, oltre a studi di anatomia e di fisiologia, ed
esperimenti sugli effetti dell'elettricità sugli organismi, si
interessava allo studio dei fenomeni ottici. Nell'estate del 1778,
studiando con il microscopio solare - un raggio di luce solare che
attraversa una lente - le ombre, proiettate su un telo, di una fiamma
di candela o di diversi oggetti incandescenti, notò che quelle ombre
non erano compatte, ma circondate da aloni luminescenti in movimento.
Egli fu il primo a mettere in pratica le teorie di Robert Hooke
sull'ombrografia.
Avendo ripetuto più volte le
osservazioni, si convinse che quegli aloni erano l'immagine del
fluido igneo emesso dal corpo incandescente. Nella scienza del tempo
si ipotizzava che il calore fosse una sostanza indipendente presente
in ogni corpo, che poteva liberarsi mediante un'azione esterna: per
questo motivo era chiamato anche calore latente, o fluido calorico, o
fluido igneo: ora Marat credette di aver scoperto il modo di renderlo
visibile, dimostrandone così l'esistenza. In realtà, quegli aloni
sono il risultato di rifrazioni luminose prodotte da movimenti d'aria
di diversa temperatura.
Nell'inverno di quell'anno preparò una
memoria sulla sua scoperta, le Découvertes sur le feu, l'éléctricité
et la lumière (Scoperte sul fuoco, l'elettricità e la luce): vi
sostiene che il fluido igneo - diverso dal fluido dell'elettricità e
della luce - è costituito di corpuscoli pesanti e trasparenti, il
cui movimento produce gli effetti del calore. La memoria venne
presentata tramite un suo membro, il marchese di Maillebois,
all'Académie des sciences di Parigi, perché si pronunciasse sulla
validità scientifica delle tesi esposte. Ripetuti gli esperimenti,
la commissione dell'Accademia, nella quale viene coinvolto per
qualche tempo anche Franklin, il 17 aprile 1779 concluse che i fatti
osservati corrispondevano a quanto esposto nella memoria di Marat, ma
non si pronunciò sull'effettiva esistenza del fluido igneo.
Due mesi dopo Marat preparò una nuova
memoria, stampata poi con il titolo Découvertes sur la lumière,
nella quale pretendeva di apportare delle correzioni alla teoria
ottica di Newton. Al fisico inglese contestava che la diffrazione
sarebbe un comportamento costante e non episodico dei raggi luminosi,
che sarebbero sempre deviati nel loro percorso rettilineo
dall'attrazione di gravità esercitata dai corpi. Questo fatto
comporterebbe, secondo Marat, che la formazione dello spettro
ottenuto dalla rifrazione della luce nel prisma ottico, si sarebbe in
realtà già verificata nell'aria; quanto ai colori, essi sarebbero
soltanto tre – il rosso, il giallo e il blu - e non sette.
Il segretario dell'Accademia delle
scienze Condorcet nominò una commissione per la verifica dei
risultati, a capo della quale fu posto Jacques Cousin. In attesa dei
risultati, Marat rielaborò la sua precedente memoria sul fuoco,
scrivendo le Recherches physiques sur le feu, nelle quali tra l'altro
sostenne la teoria del flogisto attaccando, senza nominarlo, il
famoso chimico Lavoisier, oppositore di quell'ipotesi, e aprì una
scuola all'Hotel d'Aligre, in rue Saint-Honoré, facendo tenere una
breve serie di corsi di fisica dall'amico abate Filassier e dal
professore della Sorbona Jacques Charles.
Il 10 maggio 1780 vennero rese
pubbliche le conclusioni della commissione scientifica
dell'Accademia: le esperienze di Marat «non sembrano provare ciò
che l'autore immagina e sono contrarie in generale a ciò che si
conosce dell'ottica».
La decisione dell'Accademia fu
naturalmente spiacevole per Marat, ma egli continuò i suoi
esperimenti, malgrado una malattia cutanea della quale si accorse di
essere affetto circa dal giorno della morte della madre (24 aprile
1782) e che lo accompagnerà per tutta la sua vita: soffriva di un
continuo prurito alla pelle (in seguito anche di piaghe
maleodoranti), nonché di frequenti emicranie, di febbre, intensa
sete, sbalzi d'umore.
Modernamente, si è ipotizzato che
l'affezione misteriosa di Marat consistesse nel linfoma di Hodgkin;
vista la lunga sopravvivenza (al tempo non vi erano cure) poco
compatibile con un tumore, sono state proposte anche diverse
soluzioni come cirrosi biliare, scabbia o quella ritenuta più
probabile, eczema erpetico
(forse per un'infezione contratta
in ambienti malsani); altre ipotesi minoritarie comprendono disordine
istiocitario proliferativo - es. istiocitosi a cellule di Langerhans
-, sifilide secondaria, dermatite erpetiforme - manifestazione
cutanea della malattia celiaca -, diabete mellito di tipo 2, lebbra,
dermatite seborroica, psoriasi, pemfigoide bolloso.
Questa malattia lo costrinse, col
tempo, a stare immerso a lungo all'interno di una curiosa vasca da
bagno in rame a forma di scarpa (questa ancora oggi custodita presso
il Museo Grévin, il Museo delle Cere a Parigi), dentro la quale
metteva diversi lenitivi come il caolino (un'argilla all'epoca usata
in dermatologia) nell'acqua tiepida, specie a partire dal 1790.
In quell'anno fece stampare un nuovo
volume, le Recherches physiques sur l'électricité, nel quale
sostiene che il «fluido» elettrico è costituito da particelle che
- contrariamente all'opinione diffusa anche allora - si attraggono
tra di loro. Nel libro contesta anche l'opinione che esistano poli
elettrici di diverso segno e dubita della reale efficacia del
parafulmine, la recente invenzione di Franklin. Invitò anche
Alessandro Volta, di passaggio a Parigi, ad assistere ai suoi
esperimenti, e finì per irritarsi di fronte allo scetticismo
dell'italiano. Nel marzo del 1783 Marat ebbe un'autentica rissa con
il professor Charles, che si era permesso di mettere pubblicamente in
ridicolo la sua pretesa di confutare Newton: il duello era stato
appena scongiurato, che una nuova polemica insorse con l'abate Pierre
Bertholon, autore di un Traité de l'électricité du corps humain
nel quale, tra l'altro, l'abate propagandava l'efficacia di terapie
mediche nelle quali il paziente era posto in un ambiente saturo di
elettricità.
Il concorso indetto dall'Académie
royale des Sciences, Belles-lettres et Arts di Rouen su tesi che
dimostrassero ovvero contestassero l'efficacia dell'elettricità nel
campo medico, gli offrì il destro di presentare una memoria nella
quale riferiva di suoi esperimenti riguardanti cure elettriche di
affezioni della più diversa natura, prive di qualunque beneficio.
Efficaci risulterebbero invece, a suo dire, locali applicazioni di
elettrodi per la cura degli edemi, delle sciatiche e della gotta: e
nell'agosto del 1783 Marat ebbe la soddisfazione di veder premiata la
sua memoria con la medaglia d'oro dell'Accademia.
A questo successo seguì presto una
grave disavventura. Al conte Floridablanca, ministro di Carlo III di
Spagna, che progettava la fondazione a Madrid di un'Accademia delle
scienze, fu fatto il nome di Marat quale possibile direttore.
L'ambasciatore spagnolo a Parigi, Pedro Aranda, incaricato di
raccogliere informazioni sul suo conto, riferì che gli accademici
francesi avevano scarsissima considerazione di Marat. Non solo: Marat
era anche presentato come un soggetto politicamente pericoloso, un
vero sovversivo. Naturalmente la sua candidatura fu subito
abbandonata e per di più, essendo quelle notizie giunte alle
orecchie della corte, il conte d'Artois si affrettò a licenziarlo in
tronco.
Perduta la rendita annuale di 2.000
franchi, finita la relazione con la d'Aubespine, compromesse le
possibilità di avere appoggi in alto loco, ridotti di numero i suoi
clienti, perseguitato dal fisco, Marat fu costretto a trasferirsi in
un appartamento molto modesto di rue du Vieux Colombier e a
cominciare a vendere strumenti e libri per poter vivere
decorosamente. Continuò tuttavia i suoi studi e iniziò la
traduzione in francese dell'Optiks di Newton. Nel maggio del 1785
essa ottenne l'approvazione dell'Accademia delle scienze - il nome
del traduttore, prudentemente, non compariva - e Marat poté così
far stampare, nel 1787, i due volumi della sua traduzione in
un'edizione molto curata ed elegante.
Nel 1786 partecipò ancora a tre
concorsi scientifici, tutti incentrati sulle radiazioni luminose e
sui colori, ottenendo il premio soltanto dall'Accademia di Rouen per
una sua ricerca sui colori che appaiono nelle bolle di sapone e di
altri liquidi. In realtà il suo studio non era accurato e le
conclusioni erronee: a suo avviso, infatti, «in ogni corpo esistono
particelle materiali di tre specie, ciascuna capace di riflettere uno
solo dei tre colori fondamentali, il rosso, il giallo e il blu.
Quando si separano, per l'attrazione che subiscono tra loro quelle di
identico colore, formano le iridescenze».
Il suo interesse sull'ottica era
indirizzato principalmente a far valere le sue tesi polemiche nei
confronti della teoria newtoniana. Un atteggiamento ribadito con la
pubblicazione, nel 1788, delle Mémoires académiques, ou nouvelles
découvertes sur la lumière, relatives aux points les plus
importants de l'optique, un volume costoso e impreziosito da disegni
all'acquerello che raccoglie i suoi ultimi saggi sulla teoria della
luce. Ma ormai i suoi interessi erano destinati a mutare radicalmente
indirizzo: in Francia, la crisi economica e sociale era precipitata e
l'8 agosto di quell'anno il re convocò per il maggio prossimo gli
Stati generali.
La notizia della convocazione degli
Stati generali all'Hôtel des Menus-Plaisirs di Versailles ebbe il
potere di rianimare Marat: solo due mesi prima, in un accesso della
sua malattia, aveva fatto testamento, lasciando manoscritti e
strumenti scientifici all'Académie des sciences. Apparentemente
guarito, s'impegnò a sostenere le ragioni del Terzo Stato nella
difficile lotta che questo avrebbe dovuto sostenere contro il clero e
la nobiltà, i due ordini maggiori, per privilegi, non certo per
numero.
Nel febbraio del 1789 pubblicò la
Offrande à la patrie, ou Discours au Tiers-État de France (Offerta
alla patria, o discorso al Terzo Stato di Francia). Marat vi invita
il Terzo Stato, composto dai ceti più diversi, dagli operai ai
finanzieri, dai manovali ai commercianti, dagli artigiani ai
magistrati, dagli intellettuali ai preti poveri e ai redditieri non
nobili, a essere unito, a non cedere alle manovre di chi tenta di
seminare la discordia all'interno di quest'Ordine così variegato. I
nemici sono l'alto clero e i nobili, che «costituiscono un corpo
solo, sempre pronto a levarsi contro il popolo o il monarca»,
disposti anche ad affrontare «gli orrori di una guerra civile
piuttosto che recedere dalle loro ingiuste pretese».
Erano considerazioni moderate: Marat
mostrava di aver fiducia nel re e, temendo che le divisioni potessero
condurre il Terzo Stato alla sconfitta, invitava il «popolo»
all'unità con i ceti privilegiati dei finanzieri - uomini «troppo
intelligenti per coprirsi di ridicolo adornandosi di vani titoli» -
con i funzionari reali - «uomini stimabili, troppo superiori alle
meschinità della vanità per non gloriarsi del titolo di cittadini»
- con i magistrati - «difensori intrepidi dell'innocenza,
vendicatori delle leggi» - con i semplici curati - «essi sanno che
tutti gli uomini sono fratelli» - e perciò tutte queste categorie
«non si schiereranno in una fazione di cui ogni giorno deplorano le
pretese tiranniche».
In realtà Marat diffidava di questi
privilegiati, i cui interessi in gran parte divergevano da quelli di
«chi non ha nulla», e lo chiarì nel Supplément de l'Offrande à
la patrie, pubblicato il marzo successivo: «gli interessi delle
compagnie, dei corpi, degli ordini privilegiati sono inconciliabili
con gli interessi del popolo [...] quegli uomini apatici, che
chiamano se stessi uomini ragionevoli [...] insensibili alla vista
delle pubbliche calamità, contemplano con occhi asciutti le
sofferenze degli oppressi [...] e non aprono la bocca che per parlare
di pazienza e di moderazione». Il Supplément fu subito sequestrato
dalla polizia.
Marat partecipò alle elezioni,
candidato del Terzo Stato. Eletto al comitato elettorale parigino del
distretto dei Carmelitani, non venne però scelto tra i candidati
all'Assemblea degli Stati generali. I contrasti tra gli ordini
portarono il 16 giugno 1789 alla costituzione del Terzo Stato in
Assemblea nazionale e Luigi XVI, dopo una prima resistenza, fu
costretto ad accettare il fatto compiuto, ma fece affluire i
reggimenti svizzeri a presidiare Parigi. Marat sospettava manovre del
governo e il 1º luglio pubblicò l'Avviso al popolo, o i ministri
smascherati, nel quale invita i parigini alla vigilanza e insieme
alla calma: «Osservate sempre la condotta dei ministri per regolare
la vostra. Loro obiettivo è lo scioglimento della nostra Assemblea
nazionale, loro unico mezzo è la guerra civile [...] essi vi
circondano con il formidabile apparato dei soldati [...] state calmi
e tranquilli, sottomessi all'ordine costituito, e vi prenderete gioco
del loro orribile furore».
Il 19 luglio Marat propose al comitato
elettore dei Carmelitani di stampare un giornale: al rifiuto
oppostogli, si dimise. Rivoltosi al distretto di polizia per ottenere
l'autorizzazione a pubblicare un giornale, ebbe un diverbio con il
funzionario, fu denunciato, ma il 13 agosto venne assolto. L'11
agosto era riuscito a far stampare un suo giornale, Le Moniteur
patriote, ma al primo numero non ne erano seguiti altri.
A fine luglio, mentre nei centri urbani
i cittadini si armavano, in provincia i contadini cominciarono ad
assaltare i castelli dei nobili e a distruggere i documenti che
attestavano i diritti feudali, che vennero formalmente aboliti
dall'Assemblea nazionale il 4 agosto. Anche molti nobili si
dimostrarono favorevoli all'abrogazione e Marat ne denunciò
ironicamente in un opuscolo «la magnanimità di rinunciare al
privilegio di tenere in catene quegli uomini che hanno recuperato
armi alla mano la propria libertà! È alla vista del supplizio dei
predoni, dei concussionari, dei satelliti del dispotismo, che essi
hanno la generosità di rinunciare alle decime signorili». In realtà
erano stati aboliti i diritti gravanti sulle persone ma non quelli
che gravavano sulle terre, che furono dichiarati riscattabili, e
comunque il re si rifiutò di sottoscrivere il decreto, che rimase
sospeso.
Marat continuava a seguire attentamente
i lavori dell'Assemblea nazionale, nella quale si discuteva il
progetto di una Dichiarazione dei diritti dell'uomo. Questa sarà
votata il 26 agosto e Marat aveva già pubblicato tre giorni prima
una Constitution, ou Project de Déclaration des droit de l'homme et
du citoyen, suivi d'un Plan de Constitution juste, sage et libre, che
tuttavia non suscitò alcuna attenzione, così come la sua lettera,
inviata al presidente dell'Assemblea, il Tableau des vices de la
Constitution anglaise (Quadro dei vizi della Costituzione inglese),
nel quale Marat esortava a non basare il nuovo assetto istituzionale
francese sul modello vigente in Inghilterra.
Finalmente, raggiunto un accordo con il
libraio Dufour, il 12 settembre Marat poté pubblicare il sospirato
giornale, Le Publiciste parisien, otto fogli interamente redatti da
lui nella sua casa del Vieux Colombier e stampati nella vicina
tipografia della vedova Hérissant. Se si accontentava di un quarto
dei guadagni realizzati dagli abbonamenti, non era però soddisfatto
del titolo troppo freddo della testata, che il 16 settembre mutò
infatti in quello più popolare de L'Ami du peuple (L'amico del
popolo): sotto il titolo, era stampato il motto del giornale - «Vitam
impendere vero» - consacrare la vita alla verità.
Il giorno prima aveva preso posizione
contro la proposta, poi approvata, dei deputati moderati di concedere
al re il diritto di veto, che avrebbe potuto sospendere per due
legislature le leggi approvate dall'Assemblea nazionale. Per Marat,
solo il popolo nella sua interezza è il vero sovrano, detentore di
un potere assoluto e illimitato che, quando il popolo non può
esprimere direttamente, lo delega ai suoi rappresentanti, i quali
devono tuttavia avere un'autorità limitata e revocabile: altrimenti
i deputati, divenuti «padroni assoluti del potere, potrebbero a loro
piacimento sopprimere i diritti dei cittadini, attaccare le leggi
fondamentali dello Stato, rovesciare la Costituzione e ridurre il
popolo in schiavitù».
Una volta che siano stati stabiliti i
limiti dei rappresentanti del popolo, «nulla deve ostacolare la loro
attività», fermo restando che «il deputato che non facesse
continuamente gli interessi della patria» sarebbe revocabile e, se
il caso, perseguibile penalmente. È essenziale, per Marat, che i
deputati seguano la volontà dei loro elettori, la quale può
formarsi solo «attraverso l'opinione pubblica». Quanto al diritto
di veto concesso al re, «significa mettere il principe al di sopra
del rappresentante della nazione, significa renderlo arbitro delle
leggi» e privare il popolo «del prezioso vantaggio di fermare il
principe al primo passo che egli fa contro la libertà pubblica».
Ancora una volta Marat esprimeva il pensiero di Rousseau.
Ne L'Ami du peuple venivano pubblicate
anche le lettere dei lettori. In una di queste, anonima, apparsa il 4
ottobre, era scritto che nella reggia di Versailles le guardie del
corpo del re avevano tenuta «un'orgia» e brindato contro la
Rivoluzione. In effetti il 1º ottobre la famiglia reale era
intervenuta a un banchetto di ufficiali, e questi, al suono dell'inno
O Richerd, o mon roi, l'univers t'abandonne, avevano calpestato il
tricolore e sventolato la bianca bandiera del vecchio regime.
Lunedì 5 ottobre a Parigi mancò anche
il pane e un grande corteo si mosse fino a Versailles, per esigere
che il re si trasferisse a Parigi. Il 6 ottobre Luigi XVI cedette e
la famiglia reale si stabilì alle Tuileries e l'Assemblea nazionale
la seguì poco dopo. Il 7 ottobre Marat scrisse che con la presenza
del re a Parigi «il povero popolo non rischierà più di morire di
fame. Ma questa fortuna svanirà ben presto come un sogno se non
saremo in grado di stabilire saldamente in mezzo a noi la residenza
della famiglia reale fino a quando la Costituzione non sia
definitivamente consacrata. L'Ami du peuple condivide la gioia dei
suoi cari concittadini, ma si rifiuta categoricamente di abbandonarsi
al sonno».
Una delle lettere inviate al giornale
accusò, pare senza fondamento, un funzionario del Comune di Parigi,
un certo de Joly, che reagì denunciando Marat. Minacciato d'arresto,
Marat si nascose per qualche tempo a Versailles nella casa dell'abate
Jean Bassal, simpatizzante cordigliere, poi, clandestinamente, si
trasferì ancora a Parigi, in una casa di Montmartre, pare aiutato da
Danton, riprendendo le pubblicazioni dell'Amico del popolo.
Individuato il suo domicilio, Marat venne arrestato il 12 dicembre ma
fu rilasciato pochi giorni dopo. Stabilitosi nel nuovo domicilio di
rue de Saint-Gérmain des Fossé, nel distretto dei cordiglieri,
riprese ancora una volta le pubblicazioni del giornale del quale, nel
frattempo, era rimasto unico proprietario.
Dietro la denuncia di De Joly c'era
probabilmente la longa manus del ministro delle finanze Jacques
Necker, attaccato fin da settembre da Marat che lo accusava di
speculare sui grani in accordo con l'impresa commerciale dei fratelli
Leleu: in novembre Marat aveva pubblicato la Criminelle Neckerologie
ou les manoeuvres infâmes du ministre entièrement dévoilées e il
19 gennaio 1790 pubblicò la Dénonciation contre Necker, che provocò
l'emissione di un mandato di cattura. Marat si sottrasse all'arresto
fuggendo prima a Passy, presso Parigi, poi, a metà febbraio, a
Londra, dove scrisse una Nouvelle dénonciation contre Necker: «la
mia penna è ancora libera e finché voi sarete al timone del governo
vi perseguiterà senza tregua: senza posa svelerà le vostre
malversazioni [...] per togliervi il tempo di tramare contro la
patria, vi strapperà al riposo, radunerà al vostro capezzale le
nere preoccupazioni, i dispiaceri, i timori, le ansie, le angosce,
fino a che, lasciando cadere dalle mani le catene che ci preparate,
cerchiate spontaneamente la salvezza nella fuga».
La tensione tra Spagna e Inghilterra,
che si contendevano il possesso dell'isola canadese di Nootka, sulla
costa del Pacifico, rischiò di coinvolgere la Francia, allora
alleata della Spagna. Marat s'imbarcò da Dover per la Francia il 10
maggio 1790, scrivendo all'Assemblea nazionale di voler tornare in
patria per «riportare il tributo dei miei deboli lumi». Malgrado i
suoi trascorsi, a Parigi la polizia non lo disturbò e, dopo aver
fatto chiudere tre falsi Ami du peuple illegalmente fondati in sua
assenza, il 18 maggio Marat riprese le pubblicazioni.
Diffidando del clima di concordia che
negli ultimi mesi si era instaurato con il compromesso tra
aristocrazia e borghesia, il 13 giugno Marat denunciò ai cittadini
il fatto che nell'Assemblea «siedono i rappresentanti degli ordini
privilegiati aboliti, i paladini sempre pronti a schierarsi attorno
al trono dei tiranni, i prelati che danno scandalo, rimpinzati del
patrimonio dei poveri, i giudici la cui norma è l'arbitrio». Crede
che tutti costoro tramino ai danni della libertà e dei diritti e si
dichiara convinto che solo «il popolo, il popolino, questo popolo
tanto disprezzato e tanto poco spregevole, la sola parte sana della
nazione [...] possa imporsi ai nemici della Rivoluzione, ridurli al
silenzio [...] per realizzare la grande opera della Costituzione».
Il 22 dicembre 1789 l'Assemblea
nazionale costituente aveva votato, con l'opposizione della sinistra
di Robespierre, il decreto sulla cittadinanza, con il quale i
francesi venivano divisi in tre categorie: i «cittadini passivi»,
esclusi dal diritto di voto perché non proprietari, i «cittadini
attivi», che pagavano un'imposta minima pari a tre giornate di
lavoro e, tra questi ultimi, i «cittadini elettori» i quali,
pagando un'imposta di almeno 10 giornate di lavoro, avevano il
diritto di eleggere i giudici, gli amministratori dei dipartimenti e
i membri dell'Assemblea legislativa. I deputati, per poter essere
eletti, dovevano essere proprietari di un fondo e pagare un'imposta
pari ad almeno un marco d'argento.
Il 30 giugno 1790, in un articolo
dell'Ami du peuple, Marat sottolineò i meriti acquisiti dal
«popolino» salvando la Rivoluzione: «cosa avremo guadagnato a
distruggere l'aristocrazia dei nobili, se essa è stata rimpiazzata
dall'aristocrazia dei ricchi?» e ricordò ai deputati che
l'«eguaglianza dei diritti naturali originari [...] implica il
godimento di questi diritti», invitandoli a valutare la gravità del
decreto approvato: «misurate per un momento le conseguenze terribili
che può avere la vostra irragionevolezza. Dovete temere che,
rifiutandoci il diritto di cittadinanza a causa della nostra povertà,
noi lo recupereremo togliendovi il superfluo». Il 25 luglio Marat
tornò sull'«infame decreto», chiedendone l'abrogazione ed
esortando i cittadini alla resistenza contro l'oppressione.
Egli vedeva in La Fayette e Mirabeau,
aristocratici apparentemente convertiti alla Rivoluzione, personaggi
che in realtà tramavano contro il popolo e intendevano ripristinare
il vecchio ordine sotto una nuova vernice. Il 14 luglio, anniversario
della presa della Bastiglia, pubblicò l'Infernale progetto dei
nemici della Rivoluzione: sono Necker, che «dopo aver dilapidato due
miliardi, partirà senza render conto delle sue azioni», La Fayette,
«traditore della patria, che voleva rendere il re dittatore
assoluto, e che non cessa d'impegnarsi per far tornare il
dispotismo», Bailly, «sindaco con 100.000 scudi di stipendio»,
Mirabeau, «vile scellerato coperto di crimini e di obbrobrio, per il
quale nulla è sacro [...] molle Sardanapalo che spoglierà la
Francia dei suoi tesori, ridurrà la nazione alla miseria e finirà
per mettere il regno all'asta per soddisfare le sue sudicie voluttà».
Questi progetti, che sembravano non avere riscontro nella realtà,
gli procurarono l'appellativo di «visionario».
A Nancy, in agosto, i soldati, che non
ricevevano da mesi la paga, pretesero di controllare le casse del
reggimento: al rifiuto del comandante, si ribellarono e la
repressione, ordinata da La Fayette ed eseguita dal marchese de
Bouillé, provocò centinaia di morti; dopo la strage, 33 soldati
furono impiccati. Per Marat era la prova che nulla era cambiato, che
il compromesso operante tra nobiltà e borghesia minacciava la
libertà dei francesi. Ma le sue critiche e i suoi appelli non
sortivano effetti: anche quando, il 2 aprile 1791, Mirabeau morì,
sembrò che tutta la Francia lo compiangesse e Marat era scoraggiato
da quell'indifferenza di fronte ai pericoli da lui denunciati e
dall'apparente mancanza di energia rivoluzionaria della popolazione
parigina.
Pensava di lasciare la Francia e a
Camille Desmoulins, che rese pubblica nel suo giornale la decisione
di Marat, rispose il 5 maggio rivendicando il diritto della libertà
di stampa - ora minacciata dai decreti dell'Assemblea Nazionale, che
pensavano di limitarla - e la sua fondamentale funzione di
«correggere i funzionari pubblici, di cambiare in patrioti i fautori
del dispotismo, in amici della libertà i lacchè della corte, in
uomini integri i membri dei comitati dell'Assemblea Nazionale, in
gente dabbene gli sputasentenze, i venditori di parole, gli strozzini
[...] a resistere alle leggi inique, a obbedire solo alle leggi
giuste e sagge [...] a insegnare alle truppe come scoprire le perfide
intenzioni dei loro capi, a disprezzare i loro ordini arbitrari [...]
a spezzare tutte le risorse del dispotismo».
Il 14 giugno 1791 la Costituente
approvò la Legge Le Chapelier con la quale, coerentemente con
l'abrogazione delle norme feudali sulle corporazioni, si proibì il
diritto di associazione dei cittadini che esercitavano uno stesso
mestiere o professione. Si trattava, apparentemente, di liberare
ciascuno dai vincoli corporativi che ne limitavano le iniziative
individuali, ma nello stesso tempo si finiva con lo svantaggiare
gravemente le categorie socialmente più deboli, come gli operai,
nelle contrattazioni con i loro datori di lavoro. Marat criticò la
legge, cogliendone non gli aspetti sociali ed economici, ma quelli
politici. Il 18 giugno scrisse che le associazioni popolari venivano
vietate per «prevenire i grandi assembramenti di popolo», temuti
dalla maggioranza conservatrice dell'Assemblea Costituente, che
voleva «isolare i cittadini e impedir loro di occuparsi in comune
della cosa pubblica. Così, è con grossolani sofismi e abusando di
alcune parole che gli infami rappresentanti della nazione l'hanno
spogliata dei suoi diritti».
Il tentativo di fuga del re e della sua
famiglia, sventata a Varennes, dimostrava, secondo la sinistra
radicale, il tradimento della monarchia: i membri di tale
orientamento ritenevano che, una volta accolto dalle truppe
austriache, in concomitanza con la sollevazione dell'esercito guidato
dai generali fedeli al monarca, Luigi XVI contasse di ristabilire il
vecchio Regime. Marat, il 22 giugno, denunciò il complotto: «Questo
re spergiuro, senza fede, senza pudore, senza rimorsi; questo monarca
indegno del trono non è stato trattenuto dal timore di passare per
un infame. La sete del potere assoluto che divora il suo cuore lo
renderà tra breve un feroce assassino [...] la fuga della famiglia
reale è stata preparata nascostamente dai traditori dell'Assemblea
nazionale». Chiese la testa dei deputati conniventi, dei generali
traditori - primo fra tutti La Fayette, che egli chiamava
sprezzantemente Motier - invocò la nomina di «un tribuno militare,
un dittatore supremo, che spazzi via i più noti traditori», e
incitò il popolo ad armarsi.
Il 25 giugno Luigi XVI fu ricondotto a
Parigi, scortato da una fila di soldati che teneva i fucili con le
canne rivolte a terra, tra due ali di folla che osservava un silenzio
impressionante, come si trattasse di un funerale. La maggioranza
dell'Assemblea, costituita dai moderati «costituzionalisti» e dalla
destra reazionaria, per evitare la crisi istituzionale finse di
credere che la famiglia reale fosse stata rapita dal generale
Bouillé, il responsabile della strage di Nancy, che era in realtà
tra gli organizzatori della fuga del re ed era già fuggito
all'estero. Ma i cordiglieri e parte dei giacobini raccolsero firme
per chiedere la fine della monarchia e l'instaurazione della
repubblica: la manifestazione, tenuta nel Campo di Marte il 17
luglio, finì in tragedia, con la Guardia nazionale che uccise molte
decine di repubblicani su ordine del loro comandante in capo La
Fayette e dell'allora sindaco di Parigi, Jean-Sylvain Bailly, che
aveva ricevuto l'ordine di proclamare la legge marziale
dall'assemblea costituente. Seguì la repressione, gli arresti e la
chiusura dei circoli e dei giornali di opposizione: Danton riparò in
Inghilterra, Desmoulins fuggì a Marsiglia, Robespierre e Marat si
nascosero a Parigi. Marat, in particolare, osteggiato dalla guardia
nazionale a seguito del massacro del Campo di Marte, si nascose
temporaneamente nelle fogne di Parigi, dove il malsano ambiente gli
aggravò ulteriormente la sua malattia alla pelle; dopodiché si
riparò nuovamente a Londra, continuando le sue costanti cure dermali
casalinghe nella sua famosa vasca in rame rosso.
Dopo la ratifica della Costituzione,
avvenuta il 9 settembre, vi era stata l'elezione della nuova
Assemblea Legislativa, che il 1º ottobre 1791 aveva preso il posto
della vecchia Assemblea Costituente. Era un'assemblea
complessivamente moderata, formata, a destra, da 274 Foglianti,
nobili e borghesi possidenti che, conseguita l'abrogazione della
giurisdizione feudale, intendevano che la politica francese
procedesse senza ulteriori fratture con le residue forme
istituzionali del passato regime: suoi personaggi di spicco erano
Théodor de Lameth e Vincent de Vaublanc. Al centro, 345
costituzionalisti i quali, sostanzialmente moderati, oscillano a
volte tra la destra e la sinistra, formata quest'ultima da 136
deputati, divisa nella parte moderata dei Giacobini di destra - i
Girondini come Pierre Brissot e Maximin Isnard, l'ideatore del motto
Liberté, Egalité, Fraternité - e i Giacobini di sinistra, che con
i Cordiglieri formano la Montagna, l'estrema sinistra dell'Assemblea.
Tra loro, vi erano Robert Lindet e Georges Couthon. Non c'era
Robespierre, che non si era candidato, come a destra non c'era
Antoine Barnave, divenuto confidente segreto del re e, già uomo
forte del nuovo regime insieme con Adrien Duport e Alexandre Lameth,
stava per essere scalzato dagli avvenimenti che precipitano.
Finita la repressione di luglio, Marat
aveva ripreso la pubblicazione dell'Ami du peuple, ma per breve
tempo: il 15 dicembre chiuse il giornale e per quattro mesi di lui si
seppe poco. Conviveva con la modista Simone Evrard e frequentava il
Club dei cordiglieri. Quando, il 12 aprile 1792, riprese le
pubblicazioni, il re e il nuovo governo da lui voluto avevano già
deciso di muovere guerra alle potenze feudali europee. Volevano la
guerra i girondini, perché credevano di rafforzare la Rivoluzione
eliminando il nemico controrivoluzionario all'interno e colpendo
quello esterno, la voleva la borghesia finanziaria, imprenditoriale e
commerciale, che prevedeva grandi affari con le forniture militari,
così come la voleva Luigi XVI, convinto che la Francia sarebbe stata
sconfitta e le armate austro-prussiane avrebbero ristabilito il
vecchio regime. Nel maggio 1792, Marat lasciò in definitiva Londra e
tornò a Parigi.
Per Marat, si vuole la guerra «per
distrarre la nazione dagli affari interni, occupandola negli affari
esterni; farle dimenticare i dissensi intestini attraverso le notizie
delle gazzette; dissipare i beni nazionali in preparativi militari,
invece di usarli per rendere libero lo Stato e soccorrere il popolo;
schiacciare lo Stato sotto il peso delle imposte e sgozzare i
patrioti dell'esercito di linea e dell'esercito cittadino, portandoli
al massacro con il pretesto di difendere le insegne dell'impero [...]
Per impedire che questo sangue prezioso scorra, ho proposto cento
volte un mezzo infallibile: tenere come ostaggi fra noi Luigi XVI,
sua moglie, suo figlio, sua figlia, le sue sorelle, e di renderli
responsabili degli avvenimenti».
Le sconfitte dell'esercito mostrarono
le contraddizioni della politica girondina: diffidando dei generali
aristocratici e della corte, doveva appellarsi al popolo, di cui però
temeva le rivendicazioni. Marat, nuovamente minacciato d'arresto il 3
maggio, fu ancora costretto a nascondersi. Il 23 maggio Brissot e
Vergniaud denunciarono il comitato austriaco che, sotto la regia di
Maria Antonietta, tramava ai danni della nazione e, di fronte
all'ostruzionismo del re che licenziava i ministri girondini e non
firmava i decreti dell'Assemblea, e alle minacce di La Fayette di
distruggere il movimento democratico, il 20 giugno organizzarono una
giornata di protesta popolare. L'11 luglio fecero proclamare
dall'Assemblea che la patria era in pericolo, mobilitando così le
masse popolari, ma nello stesso tempo iniziarono trattative segrete
con il re e si rifiutarono di approvare la proposta di istituire il
suffragio universale.
Il manifesto del generale prussiano
duca di Brunswick - chiesto dall'austriaca regina di Francia e
scritto da un emigrato - fu conosciuto a Parigi il 1º agosto. Esso
minacciava, in caso di «oltraggio» alla famiglia reale, di
«vendetta esemplare e indimenticabile» e di «distruzione totale»
di Parigi. Il 10 agosto il Comune di Parigi, di fronte alla pretesa
girondina che il popolo si mobilitasse contro i nemici esterni e
interni, senza che tuttavia gli fosse riconosciuto alcun diritto, si
costituì in Comitato insurrezionale e ordinò un'ondata di arresti.
Il re si rifugiò presso l'Assemblea legislativa, che fu costretta a
dichiararlo decaduto, a chiuderlo nelle carceri del Temple e a votare
la convocazione di una Convenzione eletta a suffragio universale che
prepari una nuova Costituzione. Il 19 agosto La Fayette, il «generale
politicante», fuggì all'estero consegnandosi agli austriaci.
Marat, in questo mutato clima politico,
si ripresentò in pubblico chiedendo fondi governativi per poter
pubblicare ancora il suo giornale, che tuttavia gli vennero negati
dal ministro dell'Interno girondino Jean-Marie Roland: L'Ami du
peuple fu così costretto a uscire irregolarmente.
Il 2 settembre Marat fu chiamato a far
parte del Comitato di controllo del Comune, formato da dieci membri,
tra i quali François Louis Deforgues, Pierre-Jacques Duplain, Didier
Jourdeuil, Jean-Théophile Leclerc, Étienne-Jean Panis e Antoine
François Sergent. Quello stesso giorno giunse la notizia che i
prussiani assediavano Verdun: la caduta della fortezza avrebbe aperto
la strada per Parigi.
Il Comune proclamò «il nemico alle
porte» e chiamò i parigini alle armi. Nel pomeriggio un gruppo di
preti refrattari fu massacrato dagli stessi sorveglianti che li
conducevano in carcere, poi le uccisioni indiscriminate proseguirono
all'interno delle prigioni, all'Abbaye, alla Force, alla
Conciergerie, allo Châtelet, ovunque. In cinque giorni di violenze,
furono più di mille i morti a Parigi, e altre migliaia di detenuti
furono uccisi in tutta la Francia e la maggior parte di loro era
costituita non già da controrivoluzionari ma da detenuti per reati
comuni.
La notte del 2 settembre il Comitato di
controllo aveva diffuso un comunicato nel quale appoggiava o quanto
meno giustificava i massacri appena iniziati: «una parte dei feroci
cospiratori detenuti nelle sue prigioni è stata messa a morte dal
popolo; atti di giustizia che gli sono parsi indispensabili per
trattenere col terrore le migliaia di traditori rintananti tra le sue
mura, nel momento in cui bisogna marciare contro il nemico. Tutta la
Nazione [...] si adopererà ad adottare questo strumento, così
necessario, di salute pubblica [...] marciamo contro il nemico, ma
non lasceremo dietro le spalle questi briganti pronti a sgozzare i
nostri figli e le nostre donne».
Il 7 settembre si riunì il
Dipartimento degli elettori parigini per scegliere, tra i candidati,
i 24 deputati da mandare alla Convenzione: Marat fu il settimo
eletto, dopo Robespierre, Danton, Manuel, Billaud-Varenne, Collot
d'Herbois e Desmoulins. Il 20 settembre andò a sedere tra i banchi
dei 120 deputati della Montagna, i democratici più radicali dei 749
membri della Convenzione: gli altri si divisero tra i girondini, i
più a destra dell'Assemblea, e i deputati della Pianura, o Palude, i
quali sedevano al centro e oscillavano tra i due opposti
schieramenti.
Il 20 settembre fu anche il giorno
della battaglia di Valmy, dove il più addestrato e disciplinato
esercito del mondo - quello prussiano comandato dal duca di Brunswick
- si ritirò di fronte a un «esercito di sarti e ciabattini»,
facendo commentare a Goethe, che accompagnava a Valmy il duca di
Sassonia-Weimar: «da questo giorno, da questo luogo, inizia una
nuova era nella storia del mondo». Il giorno dopo Marat chiuse L'Ami
du peuple, forse consapevole che la sua dignità di deputato non si
accordava più con un giornale così popolare e di parte, e il 25
settembre ne aprì uno nuovo, il Journal de la République Française.
Il titolo era solenne, ma l'indirizzo politico, tanto per la scelta
istituzionale, quanto per quella sociale, era inequivocabile,
evidenziato dal motto impresso sotto il titolo: «Ut redeat miseris,
abeat fortuna superbis», la fortuna si allontani dai superbi per
tornare ai miseri.
Quel giorno i Girondini, in
Convenzione, attaccarono il Comune di Parigi, accusandolo di volere
favorire la dittatura dei capi della Montagna. Dopo che Danton e
Robespierre respinsero le accuse, dalla tribuna Marat si assunsee la
responsabilità di aver proposto pubblicamente, sul suo giornale, che
un dittatore assumesse i pieni poteri per schiacciare i traditori
della Rivoluzione: «se questa opinione è riprovevole, io sono il
solo colpevole, se è criminale, è solo sulla mia testa che io
chiamo la vendetta della nazione». Rivendica la sua povertà e il
suo disinteresse: «se avessi voluto mettere un prezzo al mio
silenzio, sarei satollo d'oro, e invece sono povero; non ho mai
chiesto pensioni né impieghi; per meglio servire la patria ho
affrontato la miseria». E concluse: «Codardi calunniatori, è forse
questa la condotta di un uomo ambizioso?».
Alla fine di settembre alcuni volontari
francesi al fronte uccisero quattro disertori prussiani. Vennero
imprigionati e incriminati per ordine del generale Dumouriez, il
comandante delle armate del Nord, che Marat considerava da tempo, e a
ragione, un traditore. Venuto a scoprire che i quattro disertori non
erano prussiani ma emigrati francesi, Marat andò a chiedere
spiegazioni al generale mentre questi partecipava a un ricevimento
mondano offerto dal grande attore Talma. Dopo un breve e concitato
colloquio, durante il quale fece comprendere a Dumouriez i propri
sospetti, Marat lasciò la sala e l'attrice Louise Dugazon si
affrettò a spargere profumo di muschio per «purificare l'ambiente».
Il 18 ottobre Marat chiede alla Convenzione l'incriminazione di
Dumouriez: la richiesta fu respinta, ma i volontari vennero
rilasciati.
Alla Convenzione Marat dovette subire
continui attacchi da parte dei Girondini. Il deputato Barbaroux lo
accusò di sobillare i battaglioni che transitavano a Parigi diretti
al fronte - Marat aveva denunciato la disparità di trattamento
nell'alloggiamento delle truppe - e il minaccioso risentimento di un
reggimento di dragoni, da lui accusati di circondarsi di «cocchieri
e di scrocconi», alla fine d'ottobre gli consigliò di nascondersi
per qualche tempo.
In apparente contraddizione con le
opinioni espresse in tempi anteriori, il 20 novembre pubblicò sul
Journal un articolo nel quale sosteneva che la libertà, in generale,
non poteva essere concessa a tutti: «io non sono di quelli che
reclamano l'indefinita libertà delle opinioni». E distingueva: i
moderati, in nome di un astratto principio, con il pretesto della
libertà di pensiero, «vogliono che sia lasciata ai nemici della
Rivoluzione la possibilità di fomentare contrasti», o pretendono,
in nome della libertà di spostarsi ove si voglia, che «si lasci
loro la libertà di andare a cospirare all'estero». La libertà, per
Marat, deve essere illimitata solo per «i veri amici della patria».
Il 20 novembre 1792 è anche il giorno
nel quale venne scoperto, nella residenza reale delle Tuileries,
l'armadio di ferro contenente i documenti segreti di Luigi XVI che
dimostravano le trattative intercorse con il nemico. Fu la stessa
Convenzione a processare il re: respinti i tentativi di rinvio e di
appello al popolo dei girondini, i deputati all'unanimità
riconobbero il re colpevole di tradimento e 384 contro 334 meritevole
della condanna a morte. Quel 17 gennaio 1793 Marat espresse il suo
voto: «Profondamente convinto che Luigi è il principale autore dei
misfatti che hanno fatto scorrere tanto sangue il 10 agosto e di
tutti i massacri che hanno ferito la Francia dalla rivoluzione in
poi, voto per la morte del tiranno».
Le difficoltà economiche si facevano
sentire in Francia: gran parte delle risorse erano impiegate per
rifornire l'esercito e, benché il raccolto fosse stato abbondante,
il pane, il cui prezzo saliva costantemente, scarseggiava a Parigi
perché i contadini, che non intendevano essere pagati con assegnati
svalutati, preferivano mantenere la farina nei granai. Il ministro
dell'economia Roland si dimise, mentre gli Arrabbiati invocavano
tassazioni delle rendite, requisizioni e punizioni esemplari per
accaparratori e speculatori. Marat scrisse, il 25 febbraio 1793, che
«i capitalisti, gli aggiotatori, i monopolisti, i mercanti di lusso,
i legulei, gli ex-nobili, sono tutti sostenitori del vecchio regime
[...] non dobbiamo trovare strano che il popolo, spinto dalla
disperazione, si faccia giustizia da solo [...] il saccheggio di
qualche magazzino alle cui porte saranno appesi gli accaparratori
metterà fine alle malversazioni». Proprio quella mattina a Parigi
vennero saccheggiate diverse panetterie e Marat fu accusato in
Convenzione di incitare all'odio e al disordine. Dalla tribuna Marat,
sventolando la sua laurea in medicina, rispose ironicamente di
ritenere pazzi tutti i Girondini.
Se l'economia andava male, peggio
andava la guerra: il generale Dumouriez il 18 marzo fu battuto - o si
fece battere - a Neerwinden, e il 21 fu sconfitto a Lovanio. Quando
il 26 marzo Danton, che era stato inviato dalla Convenzione da
Dumouriez, ritornò a Parigi, Marat accusò nel Club giacobino tanto
lui che il generale di tradimento. Aveva torto su Danton ma ragione
su Dumouriez, che passò al nemico il 5 aprile: quello stesso giorno
Marat venne eletto presidente del Club dei Giacobini.
Un appello al popolo, circolante per
Parigi a firma di Marat - egli sostenne, senza convincere nessuno, di
averlo firmato senza leggerlo - chiamava alle armi i repubblicani per
arrestare tutti i nemici della rivoluzione e sterminare «senza pietà
tutti i realisti, tutti i cospiratori». I girondini colsero
l'occasione per chiedere l'incriminazione di Marat per istigazione
all'insurrezione. Marat, come suo costume, il 12 aprile si nascose,
mentre la Convenzione votò la richiesta di rinvio del deputato al
Tribunale rivoluzionario. Tutta la Montagna fu solidale con lui ma
l'Assemblea votò il suo rinvio a giudizio.
Marat si consegnò alle carceri
dell'Abbaye il 22 aprile e il 24 iniziò il processo. L'aula del
Tribunale era affollatissima da parigini che stavano tutti dalla
parte dell'accusato; la pubblica accusa era sostenuta da un uomo che
sarà molto temuto durante il Terrore, Antoine Quentin
Fouquier-Tinville, ma che ora chiese l'assoluzione dell'imputato. Del
resto le accuse non avevano reale consistenza: i girondini avevano
cercato di imbastire un processo politico per colpire, attraverso
Marat, tutta la Montagna. Dopo aver voluto, essi soli, trascinare la
Francia in una guerra che poteva distruggere la Rivoluzione, cercare
di salvare un re colpevole agli occhi di tutta la nazione, difendere
fino all'ultimo un generale traditore, subivano con questo processo,
un'ennesima sconfitta politica. Marat, assolto, fu portato in trionfo
da una folla di decine di migliaia di persone.
Mentre la Vandea era in rivolta, la
crisi della Gironda precipitò: le sezioni di Parigi chiesero
l'arresto di 22 deputati girondini, compresi i capi Brissot e
Vergniaud. Questi reagirono, chiedendo lo scioglimento della Comune
di Parigi e la nomina di una commissione di 12 membri per indagare
sull'attività dei comunardi, accusati di sobillare i cittadini alla
rivolta. Marat fece sua la proposta e la sostenne in Convenzione
assieme ai deputati della Montagna. Le Tuileries - il palazzo reale
che ospitava, nella sala delle Macchine, l'assemblea dei deputati -
furono circondate da migliaia di Guardie nazionali comandate da
François Hanriot, deciso anti-girondino. Il 2 giugno la Convenzione
votò l'arresto di 27 girondini: era la fine del partito della
Gironda, ma anche l'inizio di rivolte nelle provincie dove quel
partito raccoglieva molte adesioni.
Dal 3 giugno la sua malattia si
aggravò. Marat non riuscì a seguire i lavori della Convenzione e si
limitò a scrivere articoli sul suo nuovo giornale, Le Publiciste de
la République Française, nei quali denunciava l'estremismo degli
Arrabbiati, mentre il 12 luglio si scagliava contro i generali che
non riuscivano ad aver ragione dei rivoltosi vandeani. Quel giorno
ricevette la visita di un gruppo di giacobini, venuti a sincerarsi
della sua salute: la malattia di Marat - riferirono - era «il troppo
patriottismo racchiuso in un piccolo corpo».
L'11 luglio 1793 giungeva a Parigi da
Caen, in Normandia, dove era in corso una sollevazione
anti-rivoluzionaria, la venticinquenne Charlotte Corday. Dopo aver
preso alloggio all'Hôtel de la Providence, andò a trovare il
deputato girondino Claude Deperret. Gli consegnò una lettera di un
altro deputato girondino suo amico, Charles Jean Marie Barbaroux,
fuggito a Caen perché accusato da Robespierre di tradimento, e gli
chiese di interessarsi al caso di una religiosa sua amica, già
rifugiata in Svizzera e ora desiderosa di tornare in Normandia senza
pericoli.
Il giorno dopo, senza aver concluso
nulla, Charlotte scrisse a lungo nella sua camera d'albergo e
l'indomani mattina, 13 luglio, dopo aver acquistato un grosso
coltello da cucina, si fece accompagnare da un vetturino in rue des
Cordeliers: al numero 30 abitava «il cittadino Marat», e la
portinaia, sapendo che egli era malato, rifiutò di far salire la
Corday. Dopo aver riprovato inutilmente un'ora dopo, inviò per posta
un biglietto a Marat, chiedendogli di essere urgentemente ricevuta: a
Caen - scriveva - tramavano ai danni della Rivoluzione.
Nel tardo pomeriggio, evitata la
portinaia, si presentò alla porta dell'alloggio di Marat, ma la sua
compagna, Simone Evrard, le impedì di entrare. Sopraggiunta la
portinaia, si accese una discussione: Charlotte gridava di voler
parlare con «l'amico del popolo» e al rumore Marat, che aveva
ricevuto e letto il biglietto della Corday, acconsentì a riceverla.
Marat la ricevette nel bagno. Era
sempre tormentato dalla misteriosa malattia che gli provocava un
tormentoso prurito. L'uomo cercava di lenire il fastidio immergendosi
nell'acqua tiepida all'interno della sua vasca in rame; vi stava
seduto e vi emergeva dal busto alla testa, col resto del corpo in
acqua e la copertura di un leggio, ottenendo così il triplice scopo
di poter leggere, scrivere e ricevere decentemente gli eventuali
ospiti. Tutto l'ambiente era molto modesto: a fianco, una cassetta di
legno per tavolino, a terra lettere, fogli, giornali, gli avanzi
della cena; su una parete era attaccata una carta geografica della
Francia.
Il colloquio fu breve: Charlotte riferì
che Caen era in mano ai controrivoluzionari che si organizzavano per
marciare contro Parigi ed erano una minaccia per la patria. Ma Marat
era già informato e sapeva che la Rivoluzione aveva preso le
contromisure, inviando sue forze armate in Normandia: perciò la
congedò. Ma la Corday gli andò alle spalle, estrasse l'arma e gli
vibrò una coltellata dall'alto in basso che lo raggiunse al petto,
gli recise l'aorta e la carotide e penetrò fino al polmone destro.
Poi lo ritirò grondante di sangue dal corpo della vittima e lo
lasciò cadere ai suoi piedi. «A me, mia cara amica!» gridò Marat.
L'«Amico del popolo» ebbe appena il tempo di gridare aiuto: subito
accorsero Laurent Bas, l'incaricato delle spedizioni del giornale di
Marat, che colpì ed immobilizzò Charlotte, mentre la compagna
Simone cercava di fermare l'imponente emorragia; si gridava per un
medico ma non c'era niente da fare. Marat morì nel giro di pochi
minuti.
In breve la casa si riempì di persone.
Sulla strada premeva una folla che s'ingrossava sempre di più,
perché la notizia si era sparsa per tutta Parigi. Charlotte Corday,
che dopo l'omicidio apparve assente a se stessa, venne sottratta al
linciaggio solo perché si sperava di ottenere da lei i nomi dei
mandanti e dei complici, che tuttavia non esistevano. Venne
trascinata via e rinchiusa nella prigione dell'Abbaye; in tribunale
non apparve affatto pentita del delitto commesso e, dopo un sommario
processo, la corte la condannerà alla ghigliottina quattro giorni
dopo, il 17 luglio.
Il 14 luglio venne fatta l'autopsia: il
cuore di Marat venne asportato dal corpo, imbalsamato e posto in
un'urna di pietra, per poi venir consegnato al Club dei Cordiglieri,
che lo appenderanno alla volta della sala delle riunioni, mentre la
sua vasca in rame venne collocata sull'altare a mo' di crocifisso
durante il suo funerale; Robespierre lodò l'urna fornendo una
solenne orazione ai funerali di Marat. Il pittore David fu incaricato
di allestire grandiose cerimonie in suo onore, con l'esposizione
pubblica del corpo di Marat. Tuttavia, per il caldo molto intenso e
per l'opposizione di Robespierre, le cerimonie saranno limitate ai
soli funerali. Martedì 16 luglio un impressionante corteo si avviò
alle 18 da rue des Cordeliers, passò per rue de Thionville, il
Pont-Neuf, il quai de la Ferraille, risalendo fino al Teatro della
Comédie-Française per concludersi nuovamente al Club dei
Cordiglieri, dove il cadavere di Marat venne inumato nell'adiacente
cimitero oggi non più esistente. Un sanculotto tenne l'orazione
funebre, mentre per tutta la notte un'immensa fiumana di popolo
continuò a sfilare alla luce delle torce.
La Convenzione commissionò a David un
quadro che ricordasse Marat e fosse esposto per sempre nella sala
dell'Assemblea. L'opera di David è un capolavoro di realismo e di
astrazione insieme. L'immagine del rivoluzionario richiama
sottilmente il Cristo, la vittima per eccellenza della tradizione, e
qui Marat, rappresentato nella sua semplice povertà, circondato
dalle «reliquie» della sua «passione» - il coltello del
sacrificio, la lettera del tradimento, l'assegnato da spedire a una
cittadina in miseria - è la «vittima laica» della Rivoluzione, il
«martire della libertà» e della nuova civiltà che egli ha
contribuito a creare e a difendere.
Il 14 novembre 1793 la salma di Marat
venne riesumata dal cimitero del Convento dei Cordiglieri e
solennemente traslata nel Panthéon di Parigi, dove già riposavano i
corpi di Rousseau, di Voltaire e di Cartesio, ma solo per poco tempo,
perché con la reazione termidoriana, che provocò la caduta del
regime giacobino, un decreto dei nuovi governanti stabilì che nessun
cittadino potesse essere sepolto né la sua immagine esposta in un
edificio pubblico prima che fossero trascorsi dieci anni dalla morte.
Durante la cerimonia funebre furono letti diversi discorsi
celebrativi, tra cui uno scritto (Discorso ai Mani di Marat) per
l'occasione dal marchese de Sade, il famoso scrittore libertino a
quel tempo delegato della Convenzione.
Così, dopo poco più di un anno, il
dipinto venne restituito al pittore David e, secondo la tradizione,
il 26 febbraio 1795 il corpo di Marat sarebbe stato sepolto in una
tomba anonima del Cimitero di Sainte-Geneviève, un cimitero di
Parigi ai tempi sito vicino alla Chiesa di Saint-Étienne-du-Mont, in
seguito distrutto nel corso dell'Ottocento. Secondo un'altra
versione, che venne raccolta anche dal celebre scrittore Victor Hugo,
sul cadavere di Marat si sarebbe esercitata la vendetta dei
muscadins, la jeunesse dorée della capitale, che avrebbero gettato i
suoi resti nelle fogne di Parigi.
- Mort de Marat, cortometraggio del 1897 diretto da Georges Hatot.
- Marat è stato interpretato dall'attore Antonin Artaud nel film Napoleone di Abel Gance del 1927, e da Vittorio Mezzogiorno nella miniserie televisiva La rivoluzione francese (1989).
- Edvard Munch ha rivisitato in chiave moderna, erotica e psicoanalitica la morte di Marat come raffigurata da David.
- La persecuzione e l'assassinio di Jean-Paul Marat, rappresentato dalla compagnia filodrammatica dell'ospizio di Charenton sotto la guida del marchese de Sade è un'opera teatrale in due atti di Peter Weiss scritta nel 1964. Da quella data, l'autore ne ha redatte quattro versioni. Il lungo titolo è ricordato spesso come La persecuzione e l'assassinio di Jean-Paul Marat o, ancora più frequentemente, come Marat/Sade. Ne è stato tratto un omonimo film.
